Un pesce – di Nazzareno Condina
Un pesce – di Nazzareno Condina
“Giurami che mi hai capito”. Non lo so se ti ho capito o meno. Ci provo, anche quando è più facile interpretare i geroglifici. Tu sei come la ricetta del dottore, sì, di quello là che scrive prendendo la penna dall’alto e poi non si capisce un cavolo e in farmacia devono leggere in tre per venirne fuori.
Provo a mettere ordine nei pensieri prima di andare in corto circuito. Mi ci vuole poco. Una serie di birre – di quelle buone -, l’ennesima bolletta a far da base al vaso in ceramica sul mobile dell’ingresso, il vicino di casa che farfuglia qualcosa, tra l’incazzato e l’alticcio, sui lavori ancora da fare. Dicono che la vita sia meravigliosa. Meravigliosa sempre non lo so, incasinata spesso.
“Un litro di latte, le uova, l’insalata, lo scottex ed il prosciutto. Ma guarda che sia di quello buono”. Ci provo a guardarlo, lo fisso mentre la gente è lì, in fila dietro di me, cercando di capire con chi ce l’abbia, a chi rivolga il mio sguardo da cercatore di tesori. “Te devi essere quello buono” dico al primo insaccato che sembra sorridere. Non mi ha mai risposto in maniera chiara e poi lo sai, a me basta poco per prendere per buono chi mi fissa per un po’.
Un quarto d’ora e poi altri spunti di intensa riflessione al banco dei biscotti, a quello delle minestre, di fronte al cibo per gatti e ai detersivi per lavastoviglie. Sono irrimediabilmente attratto anche da quello che non serve. A volte – tra i prodotti strani – passo davanti a qualcosa che mi chiama. “Voglio essere tuo” mi dice. Ed io lo accontento.
La vita è una corsa contro il tempo, sempre. Lui vince, e tu rincorri. “Stasera ci guardiamo un film”. La scelta cade spesso su quelli di quattro ore. Tre parole, la storia della migrazione delle mosche della steppa narrata in slow motion, o il declino delle coltivazioni di erba cipollina sui balconi della città silente. “E guai se ti addormenti!”. Giuro, provo ad appassionarmi a quel volo o a quell’erba sottile che cresce troppo lentamente per le mie palpebre.
Ci provo. Quando mi sveglio in genere sono in compagnia del cane che mi guarda compatendomi, e tu sei già via. Domani è un altro giorno. “Domattina svegliami, mi raccomando”. Mi alzo prestissimo. Ci provo a chiamarti ma poi ti vedo lì, avvolta nelle coperte e mi sento come il boia che chiama la sua vittima al patibolo. Tempo di uno yogurt e di un caffé, e di un pezzo di fetta biscottata al cane che invece al solo rumore del commestibile mi punta come se non ci fosse un domani.
Mi vesto assonnato e ti riguardo. La pace delle prime ore dell’alba ed il calore di una casa dalla quale stai andando via mentre tutto intorno è quiete è tra le cose che conosco, una di quelle che sento più vicine alla beatitudine. Ti chiamo prima di andare via, mi guardi un attimo, tra l’assonnato e l’incredulo e poi ti volti dall’altra parte. Ah, l’amore!
“Oggi ci siamo, domani chissà…” no, non è una frase tua, tu non lo diresti mai. Sei concentrata sull’oggi. Mi guardi. Ci sono giorni in cui stanchezza e tristezza si accavallano, in cui sono poche le parole, ed anche gli sguardi. Non so se te l’ho mai detto, sono i giorni in cui ti amo ugualmente. Perché l’amore ha in se questa forza, quando esiste sul serio. Si nutre anche del suo cccopposto, resta lì, come il pugile che ha appena incassato un gancio tra l’orecchia e lo zigomo, ma è solo un istante e si rialza. O almeno ci prova.
Ci sono fiori al davanzale. Ci saranno fiori. E non importa quale sia il davanzale. Che guardi ai tetti o a terra, ci sono e ci saranno fiori. L’amore è questa eterna corsa, questa sottile inquietudine, questo sentire greve o leggero. E’ simile alle nuvole quando ti piove addosso e non hai ombrelli, al tamburo del vicino quando hai sonno, alle scarpe sporche di fango, alla pallina che lo stercoraro porta con se, orgoglioso, in giro per le sue terre. L’amore è tutto ciò che pulsa, che rompe, che stride, che ti guarda, che giace, che si sveglia. L’amore è quello che vi fa star bene. O male. O così così.
Un giorno, nelle mie camminate in riva al mare, incontrai un pesce arenato sulla battigia. Era ancora vivo, boccheggiava ma era vivo. “Ti dò una mano io a rimetterti in acqua!” pensai felice. “Cazzo fai?” mi disse, appena cercai di prenderlo in mano. Giuro, ci rimasi male. “Lasciami qui, non ti ho chiesto nulla”. Un pesce suicida pensai. Ed anche un po’ scortese. “Guarda là, laggiù in fondo”. Io vedevo solo sabbia. Un pesce suicida scortese, e pure un po’ folle. “Ma sì, la vedi quella conchiglia? E’ lì per me quella conchiglia!” mi disse. “Te la porto qui, se vuoi…” accennai.
“No, lasciala lì, e vai avanti. Io veglio su di lei e lei pure, su di me”. Me ne andai, sicuro d’aver incontrato un pesce strano. Non chiedetemi una morale in questa storia. Era solo un pesce. Non aveva bisogno di me, del mio aiuto e del mio farmi spesso gli affari degli altri. Era lì, ad osservare la conchiglia. E quel pensiero dominava il resto, lo metteva in secondo piano. Se ci pensate, l’amore è pure questo. C’è sempre un qualcosa a cui tendere lo sguardo, un rompicoglioni che cerca di aiutarvi, un po’ di follia e una conchiglia per la quale il tutto – anche quello più faticoso e senza senso – un senso lo acquista.