Cultura

Oltre il culatello: Zibello, il
paese delle pietre parlanti

Potrebbe essere ribattezzato come il paese delle “pietre parlanti”. Zibello, famoso per il suo prodotto tipico d’eccellenza, il culatello, conserva una serie di “memorie”, ai più inedite, lasciate direttamente sulle pietre, o meglio sui mattoni, dei principali edifici storici locali: il Palazzo Pallavicino e la chiesa parrocchiale dei Santi Gervasio e Protasio.

Quando si vive e si cerca di conoscere un luogo è necessario osservare (cosa ben diversa dal semplice guardare), prendersi tempo e avere cura di ogni dettaglio, perché ovunque ci possono essere tracce del nostro passato, importanti anche per ricostruire tutta la storia di un territorio.

A Zibello, nel corso dei decenni e dei secoli, c’è stato chi ha lasciato appunto la storia impressa e scolpita, nel vero senso del termine, sui muri. Sul Palazzo Pallavicino, simbolo indiscusso del paese, a “parlare” sono i mattoni che compongono i capitelli dei portici. Sono tracce alla portata di tutti ma, c’è da scommetterlo, ci sono persone, anche residenti, che non lo hanno mai notato, nonostante vi siano state menzioni anche su diverse pubblicazioni.

Per quanto riguarda la chiesa parrocchiale, in questo caso l’impresa di andare a osservare le tracce della storia si fa più complicata, visto che le scritte si trovano ad una quota di 36 metri, sul campanile della chiesa parrocchiale. Chi scrive queste righe è riuscito ad accedervi in più occasioni, grazie alla fondamentale collaborazione del parroco don Gianni Regolani.

Proprio a ridosso della cella campanaria, da dove si può godere di un’ampia vista sul paese e sulla campagna circostante, una delle incisioni rimanda alla terribile epidemia di colera del 1855 che solo a Cremona e provincia, in due mesi, causò oltre 3500 morti. Tutto prese il via nel 1854 quando una nave salpata dall’India condusse il colera in Inghilterra e scoppiò così la terza epidemia. Da Londra il contagio arrivò a Parigi e a Marsiglia. La leggerezza delle autorità sanitarie locali permise lo sbarco anche di navi che avevano a bordo uomini infetti. L’epidemia arrivò al sud della Francia e perciò in Italia. Le autorità genovesi non si preoccuparono di avvisare tempestivamente la presenza del colera agli altri Stati italiani e il contagio si estese in tutta la costa ligure e tirrenica fino a Napoli e Palermo.]

Anche la Sardegna fu invasa: Sassari, sede di importanti uffici amministrativi e giudiziari e dotata di un’antica università vide morire 5mila dei suoi 23mila abitanti. Nel 1855 l’epidemia arrivò in tutto il Paese, dal Piemonte sabaudo al granducato di Toscana, al ducato di Modena, allo Stato pontificio, al Lombardo-Veneto austriaco, all’isola d’Elba e all’isola del Giglio. La strada seguita dal morbo fu la stessa delle altre pandemie. A dicembre del 1854 l’epidemia sembrava finire quando un’alluvione fece straripare l’Arno contribuendo a una nuova diffusione del colera. Firenze, e buona parte dell’Italia centro-settentrionale furono di nuovo colpite.

Nel 1856 il terzo focolaio epidemico si spense completamente dopo essersi diffuso in 4468 comuni italiani contro i 2998 della prima epidemia ed i 364 della seconda. I morti furono 284.514, 146.383 nel primo contagio e 13.359 nel secondo. San Giovanni Bosco in quell’estate radunò 44 giovani per soccorrere gli ammalati, tra cui il suo allievo san Domenico Savio. Quest’ultimo, distintosi tra i volontari, contrasse in seguito la tubercolosi, e morì il 9 marzo 1857, nemmeno un mese prima di compiere 15 anni.

L’altra iscrizione conservata sul campanile narra invece di un fortunale del settembre 1857 e si parla di “una saetta nella poma”, con chiaro riferimento ad un fulmine che evidentemente aveva colpito e danneggiato la sommità della chiesa. Ci sono poi diverse tracce “autografe” di persone che, nel tempo, per lavori di manutenzione o altro, sono salite in cima al campanile. Sono le tracce di coloro che ci hanno preceduti ed hanno fatto la storia prima di noi, quindi a loro volta importanti. Passando al Palazzo Pallavicino, ecco che diverse testimonianze risalenti ai secoli XIV e XVIII sono scolpite nei capitelli. Ne ha parlato, per primo, il Molossi nel suo celebre “Vocabolario Topografico”; la stesse sono state poi studiate e approfondite nella primavera del 1976 da un gruppo di studenti dell’Istituto di Disegno della facoltà di Ingegneria dell’Università degli studi di Parma.

Se ne parla anche nel libro Zibello. La storia, la gente, le opere, le tradizioni dato alle stampe nel 1985 dall’Amministrazione comunale guidata dal sindaco Gaetano Mistura, insigne storico del territorio. Sono graffiti che rimandano ad esondazioni del Po, alle epidemie di peste e di colera e, come accade per la chiesa, anche semplici autografi, lasciati dai “cronisti” di allora che, in questo modo, hanno fissato e custodito la storia.

“O gran Po…” si legge in una delle tracce mentre un’altra, molto eloquente, dice “1705 Die…maxima Padi excrement” facendo riferimento chiaro alla devastante alluvione del novembre 1705 (che evidentemente raggiunse anche la piazza del paese): una delle più drammatiche di sempre per l’estensione dei territori allagati e per i gravissimi danni arrecati alle popolazioni sia in termini di vite umane che di distruzione di beni materiali.

Martedì 3 Novembre 1705, giusto ricordarlo, la piena dopo aver devastato già le aree più a monte, arrivò in Emilia. Il Po straripò allagando sia i territori emiliani che quelli lombardi, fino a Fombio nel lodigiano, gli argini cedettero anche nei pressi di Borgoforte (Mantova) ed una enorme massa d’ acqua invase un vasto territorio compreso tra il Po e il Mincio, fino a Mantova.

Mercoledì 4 Novembre tutto l’ oltre Po pavese fu sommerso da un catastrofica alluvione causata dalla piena del Po e dei suoi affluenti. La città di Pavia fu allagata, e in alcune zone è probabile che l’ altezza dell’ acqua sia stata superiore a tre metri, ad Albaredo Arnoboldi (Pavia) l’ altezza dell’ acqua fu di due metri. Furono sommerse la Lomellina, e tutte le campagne comprese tra il fiume Ticino e il Gravellone. Una strage che solo nella Provincia di Pavia causò migliaia di morti. In una missiva conservata all’ Archivio di Stato di Como si parla di 1700 morti nella sola zona di Pavia.

Anche Cremona ed il suo territorio furono sommersi dall’ alluvione e ci furono tanti morti e danni incalcolabili. Sempre il 4 Novembre si aprirono quattordici rotte negli argini del Po nella zona di Casalmaggiore, e l’ acqua uscì con una tale violenza che devastò ogni opera umana, facendo crollare le case e uccidendo uomini e animali. A Sabbioneta l’ acqua raggiunse i due metri e mezzo di altezza. Anche la provincia di Parma fu colpita in modo pesantissimo dall’ alluvione, sommergendo alcune zone tra cui quelle di Polesine, Vidalenzo, Zibello e altri paesi vicini, ma le acque alluvionali almeno non arrivarono a Busseto e a Parma. Nel pomeriggio del 4 Novembre il cedimento di quasi 800 metri dell’ argine del Po nei pressi di Luzzara (Reggio Emilia) provocò una rovinosa alluvione in tutta la bassa pianura mantovana e modenese, aggravata il 6 Novembre da nuove rotture dell’ argine in zone vicine.

In ripetuti laconici messaggi viene quindi ricordata la rovinosa epidemia di peste ed è facile intendere quanto debba essere stato drammatico, anche per la popolazione locale, il dilagare del contagio. “1629 pestis invasit Italiam” si legge in uno dei graffiti ed in un altro “1630 pestis invasit Italia mesta(ta) gra(n)de mo(ria). Era, quella, la terribile pestilenza descritta anche da Alessandro Manzoni che, solo a Parma provocò dalle 16 alle 17mila vittime e, nel contado almeno 60/70mila. C’è poi una iscrizione che afferma che “L’Italia si scosse dal giogo tedesco”: altra testimonianza che, anche se senza data, corrisponde ad una identica scritta che si trova in una volta del chiostro dell’ex convento domenicano e reca la data del 1859. In questo caso c’è anche la firma dell’autore, tal Bonani O. che, evidentemente, a modo suo, ha voluto ricordare la vittoria del popolo italiano sul dominatore tedesco nella seconda guerra d’Indipendenza. C’è poi un “Silvio Rossi 1683 della Pieve Alta Villa” (l’odierna Pieveottoville) quasi a voler rammentare che il palazzo, ed il suo porticato, anche allora, come oggi, erano luogo di ritrovo e di mercato per la gente del posto e dei centri limitrofi.

Una storia, quella sulle pietre di Zibello, che tiene vivo il passato del borgo e, fra pandemie e alluvioni, guarda al passato di tutto il territorio, dell’una e dell’altra riva.

Eremita del Po, Paolo Panni

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