Cultura

Accenni di storia del fiume: quando
freddo e gelo colpivano davvero...

Una storia che, parlando di inverni e gelate, testimonia che nei secoli passati ci furono inverni talmente rigidi, da congelare il Grande fiume al punto da permettere alla gente di attraversarlo a piedi. L’ultimo di questi inverni fu quello del 1929

Fiocca nelle terre del Po e, d’improvviso, la sera si fa magia. Nei villaggi di fiume, cresciuti intorno a vetusti campanili, cala un silenzio che solo la neve sa regalare. Sembra di immergersi, come d’incanto, in un presepio in cui ogni casa, dove le luci si fanno largo tra le imposte e penetrano nell’oscurità esterna, si tramutano una piccola Betlemme racchiudendo le gioie, i dolori, le vicende piccole e grandi di ogni famiglia. E’ una notte di profondo silenzio, le strade deserte attraversate di tanto in tanto da un gatto che corre nella neve a da qualche solitario camminatore che vuole cogliere anche questi attimi.

Nell’aria si dipanano i profumi inconfondibili della legna che arde ed è una bella cosa, che rimanda a tempi antichi, quelli in cui le cose andavano meglio, anche nella miseria. E’ bello farsi inebriare da questi dolci profumi, con la speranza che la gente del fiume continui a riscaldarsi utilizzando il combustibile più naturale e più sano che esista: la legna. Giusto evidenziarlo visto che qualche politico, evidentemente per interessi di bottega, con mosse che stanno tra il grottesco e il ridicolo, vorrebbe vietare l’uso della legna in nome delle cosiddette, fantomatiche politiche green: perché l’inglesaggine di turno, nelle “scienze tuttologhe” di oggi, non deve mai mancare. Fanno bene quelli che utilizzano la legna e devono continuare a farlo: ce lo dice la natura stessa che, più dell’uomo, provvede sempre a fornirci il necessario per il nostro mantenimento.

Di fronte al focolare corre, inevitabilmente, il ricordo a tempi ormai passati. Tempi in cui gli inverni erano quelli veri, quelli in cui le nevicate erano abbondanti e le gelate congelavano anche i fiumi. Chi scrive queste poche e povere righe ricorda bene le nevicate straordinarie del 1985, quando le temperature erano scese anche oltre i 20 gradi sotto zero. Oggi, tanto per dirne una, con tre dita di neve si chiudono le scuole e le attività. Nel 1985 chi scrive queste righe aveva 9 anni e non ha mai perso un giorno di scuola perché, anche con un metro di neve, si indossavano doposci, guanti e cuffia e si andava a scuola a piedi. Nessuno si sognava anche solo di ipotizzare qualche chiusura.

Ma per gli inverni, quelli veri, si deve andare ancora più indietro nel tempo, in anni in cui il sottoscritto non era nemmeno in previsione. Ho avuto il privilegio di ascoltare i racconti dei più anziani, che in tante occasioni mi hanno parlato delle sere d’inverno passate davanti al focolare: in tempi in cui non esistevano le televisioni (e, se c’erano, erano un privilegio di pochi) né tantomeno i telefonini. Sere trascorse in famiglia, leggendo magari un buon libro, ascoltando una fiaba, o pregando il rosario insieme. Per cena un po’ di polenta abbrustolita e poco altro. Come c’erano coloro che, per riscaldarsi, passavano le serate nelle stalle, seduti su una balletta di paglia, a parlare del più e del meno, a raccontarsi le barzellette. Qualcuno che potrebbe leggere queste righe, forse non sa nemmeno di essere stato concepito in una stalla o in un fienile, ma in tempi andati accadeva anche questo. Oggi, nell’era del cosiddetto progresso, in cui fai il giro del mondo pigiando su un pezzo di ferro e hai l’imbarazzo della scelta su cosa seguire alla televisione, si è creata molta più solitudine ed anche far figli è diventato una rarità. Come una rarità è la stessa neve che, in pianura, salvo qualche sporadica spolverata, non si vede in modo copioso da anni ed anche questo è evidentemente un segno dei mutamenti climatici in corso. Non lo dice chi scrive queste righe, non avendone competenza alcuna. Lo dice semplicemente la storia, e di questa si deve fare tesoro sempre, perché serve a vivere il presente e a costruire il futuro. Una storia che, parlando di inverni e gelate, testimonia che nei secoli passati ci furono inverni talmente rigidi, da congelare il Grande fiume al punto da permettere alla gente di attraversarlo a piedi. L’ultimo di questi inverni fu quello del 1929. Ma ci furono situazioni, in passato, anche più siberiane o polari (per chi ama questi termini sensazionalistici). Le più grandi gelate del Po avvennero negli anni 1126, 1152, 1211, 1216, 1234, 1443, 1481/82, 1489/90, 1511, 1549, 1550, 1701, 1709, 1811/12, 1829, 1830 e, appunto, 1929. In tempi più recenti sono passati alla storia anche gli inverni del 1951/52, 1956 e, appunto, 1985.

Nel 1216, e qui bisogna attingere a piene mani alla storia, il Po gelò così tanto che i contadini vi passavano sopra con carri e cavalli ed i soldati di armeggiavano. Il 1234 fu caratterizzato da un’intensa ondata di freddo in Italia, i cui effetti impressionarono i contemporanei, tanto da trovare ampio spazio nelle fonti documentarie coeve, in particolare nelle più importanti cronache italiane del Duecento. Dal nord al sud della penisola, gli effetti furono più o meno gli stessi: gelate di fiumi e lagune (Po e Laguna veneta), morti di persone, animali selvatici e domestici, distruzione di raccolti e alberi da frutto. Il fiume Po si gelò in più tratti tanto che il suo alveo poteva essere attraversato con cavalli e carri carichi di mercanzie, alla pari di quelli di molti suoi affluenti. A Reggio Emilia, nella piazza comunale, si trovarono molti lupi morti congelati (a dimostrazione del fatto, se mai ce ne fosse bisogno, che la presenza del lupo, in passato, in pianura, era cosa nota e normale), mentre in Puglia a morire per il freddo e per gli stenti della fame furono migliaia di pecore, la cui perdita inferse un duro colpo alla pastorizia, motore trainante dell’economia locale in quel tempo. Le fonti raccontano anche di uomini trovati morti congelati nei propri letti. Anche per l’agricoltura gli effetti furono del tutto distruttivi: in Pianura Padana gelarono vigneti, ulivi, fichi e in genere ogni sorta di alberi da frutto. Inoltre, gran parte degli alberi della famosa pineta di Ravenna perirono per il gelo.

Passando al 1481-1482 ci furono quattro trimestri quasi consecutivi degni di nota, e tra il 1489 ed il 1490 la Laguna Veneta rimase a lungo gelata, così come il Po e l’Arno, e nevicò a Venezia per dodici giorni consecutivi. Questo, tra le altre cose comportò una tardivissima recrudescenza del freddo a fine maggio ed il successivo 1490/1491, vide un prolungamento del freddo invernale fino ai primi di giugno, quando addirittura nevicò a a Bologna il 1º giugno con 32 cm di accumulo, così come nevicò (pur con accumuli inferiori) a Ferrara tre giorni dopo, con conseguenti gelate mattutine fuori stagione. Il Po, in tempi remoti, poteva ghiacciarsi completamente, tanto da essere appunto transitabile.

Nel “Memorie storiche della città di Cremona” di Lorenzo Manini, che attinse al Campi, si legge che nel 1549 “il Po si agghiacciò, siccome avvenne nel 1126 e nel 1234…che ognuno vi camminava sopra ben anco con carri e cavalli. Dal mese di dicembre iniziò un freddo fierissimo, per il quale il Po s’aggiacciò di maniera che passavano gli uomini, le bestie cariche ed anco i carri; ed alli 15 di detto mese io li viddi sopra il giaccio più di 200 persone, assicurandosi anche le gentildonne di farle correre sopra i cocchi”. Quello poi del 1709 e poi tuttora considerato come l’inverno più rigido della storia d’Europa.

Tra gennaio e aprile 1709 il Vecchio Continente fu investito da un’anomala ondata di freddo che paralizzò l’intera regione, causando un elevato numero di vittime tra la popolazione. In Emilia Romagna perirono, per la morsa del gelo, tutte le piante da frutto, in particolare meli, ciliegi, noci che solitamente resistono anche a temperature molto rigide. A Venezia i contadini portavano i generi alimentari a piedi sui canali ghiacciati. Gelarono molti fiumi, tra cui il Po, che fu ricoperto da uno strato di ghiaccio di circa 70 centimetri, sul quale passavano uomini, carri e cavalli. Roma e Firenze rimasero isolate per le intense nevicate. Nelle campagne le coltivazioni di ulivo, vite e agrumi furono seriamente compromesse o distrutte. In molti casi i terreni coltivati prima del 1709 non poterono più essere recuperati.

Anche nell’Adriatico, come in molti altri porti d’Europa, le gelate bloccarono le imbarcazioni, i cui equipaggi morirono di freddo e di fame. Con leggere oscillazioni, le temperature si mantennero basse fino a primavera. Ma il freddo non fu l’unica piaga da affrontare: al gelo seguirono fame, inondazioni ed epidemie. La neve che si era accumulata nei mesi invernali provocò intense inondazioni al suo scioglimento e le epidemie non si fecero attendere. Aumentarono e si diffusero malattie bronco-polmonari. Il freddo e la fame favorirono il diffondersi dell’influenza, che era scoppiata a Roma l’anno precedente, fino a renderla una pandemia che si sarebbe estesa per quasi tutta l’Europa tra il 1709 e il 1710. Inoltre, dall’Impero ottomano giunse, a peggiorare le cose, la peste.

Passando a tempi molto più recenti, è passato alla storia, come già rimarcato, il grande inverno del 1929 che vide gelare il Po ricoperto da uno spesso strato di ghiaccio, che consentiva alle persone di camminarvi sopra. Ci sono ancora ricordi lasciati dagli anziani che affermavano che occorreva un palanchino per aprire le porte delle stalle e quando si usava l’acqua calda, questa si ghiacciava praticamente all’istante al contatto con l’esterno, così come gelavano gli occhi alle persone. Del resto il 1929 fu anche l’anno della definitiva disfatta dei mulini natanti che macinavano il grano, perché i lastroni di ghiaccio (il “giasson” come lo chiamavano nelle terre di fiume) che arrivavano dal fiume li distrussero in modo totale. All’epoca, va aggiunto, non c’era un monitoraggio di stazioni meteo come è possibile avere ora.

Alcuni documenti indicano che durante il lungo periodo gelido del 1929, così come nel 1956 e 1985, in alcune località della bassa Valle Padana, la temperatura scese anche a meno 30 gradi. Chi scrive queste righe, come già anticipato, ha ben presente l’inverno del 1985. A Zibello, per esempio, quell’anno c’era anche chi si era mosso sulla storica “Lanca ad Barnon” in Vespa, dal tanto che il ghiaccio era spesso. Quelli, sì, erano inverni siberiani, o polari, sempre per usare termini che, in modo inappropriato, sono stati utilizzati per descrivere gli inverni, in realtà piuttosto miti, degli ultimi anni. Inverni che, insieme a tanti altri elementi, hanno dimostrato i chiari cambiamenti climatici in corso.

La storia, nel suo incedere, ci dirà se situazioni come quelle del passato torneranno. Nel frattempo non resta che attendere la luce di un nuovo gelido girono e l’arrivo, sul davanzale, del pettirosso e della cinciarella in cerca di cibo. Riscaldandosi accanto alla legna che arde e benedicendo quel fuoco con le stesse parole di San Francesco, il Poverello d’Assisi, che nel suo sublime Cantico delle Creature diceva: “Laudato si’, mi’ Signore, per frate Focu, per lo quale ennallumini la notte: et ello è bello e iocundo e robustoso e forte”.

Eremita del Po, Paolo Panni

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