Aroldi e il lavoro sottopagato:
"Racconto i giovani dimenticati"
I nomi utilizzati sono frutto di fantasia, per evitare ripercussioni negative sul posto di lavoro. Tre di questi ragazzi però erano presenti sabato, ed hanno accettato di farsi fotografare.
Vivono tra noi, studiano coi nostri figli, lavorano al nostro fianco, sono ragazzi italiani, nati qui o arrivati da piccoli, ma per diversi motivi faticano ad inserirsi, e questa difficoltà è una risorsa per chi intende sfruttarli. Non bastano spesso le nostre buone intenzioni per andare al di là di una conoscenza sommaria, col risultato che nel mondo del lavoro si ritrovano più isolati, e meno informati dei propri diritti.
IL LIBRO
I racconti di dieci giovani ragazzi di origine straniera (migranti di prima o seconda generazione) che lavorano in aziende del nostro territorio ci aprono lo sguardo su una realtà che spesso pensiamo possa esistere altrove, non certo nello sviluppato e progredito nord Italia, men che meno nell’Oglio Po. È invece in questo territorio, tra le province di Cremona e Mantova, che corrono le vite dei ragazzi intervistati in un libro pubblicato quest’anno, frutto dell’impegno del sindacalista Fabrizio Aroldi, un passato da grande atleta paralimpico, e Simone Oggionni, storico e saggista. Il titolo è “Per un lavoro dignitoso”, stampato grazie al contributo del “Centro Culturale a Passo d’Uomo” di Sabbioneta. Il cuore del libro, che è stato presentato sabato scorso presso la libreria Il Seme in Galleria Gorni a Casalmaggiore, sta proprio nelle dieci testimonianze, che partono da una sorta di questionario.
LE OTTO DOMANDE
Sono particolareggiate e riguardano otto grandi temi: la storia personale, il lavoro, gli affetti, lo studio, il ruolo delle donne, il viaggio, le religioni e la politica. Ognuna si compone di una serie di altre domande, proprio per stimolare le risposte da parte degli intervistati, tutti ragazzi di origine straniera dai 15 ai 22 anni. I nomi utilizzati sono frutto di fantasia, per evitare ripercussioni negative sul posto di lavoro. Tre di questi ragazzi però erano presenti sabato, ed hanno accettato di farsi fotografare.
LE TESTIMONIANZE
Prima di concentrare la nostra attenzione sul tema focale del lavoro, vale la pena soffermarci su alcuni spunti interessanti che investono la vita sociale. Tutti provengono da famiglie di umili origini. Uno di loro, musulmano, sulle posizioni di Papa Francesco afferma: “Di gente che fa come dice lui ce n’è proprio poca, e allora se i primi che dovrebbero ascoltarlo non lo fanno, cosa volete da me? Io vengo dopo”. Una posizione condivisa da tutti, che notano l’incongruenza tra la religione di appartenenza e il comportamento di ogni giorno.
Sul rapporto coi genitori, Deep afferma: “Ho deciso di non farmi mai influenzare dalla cultura e dalle tradizioni italiane. Ho sempre mantenuto le mie tradizioni”. Ma più avanti aggiunge: “Quelli che (emigrando) hanno perso qualcosa sono i miei genitori, che hanno perso i loro genitori che sono rimasti là e hanno perso i figli che venendo qui sono cambiati”. Negativo il giudizio che viene dato alla capacità della scuola di preparare i giovani al lavoro. Niente meglio della semplice frase di Hamza potrebbe chiarire la situazione: “Secondo me ci vorrebbe un’altra materia da insegnare a scuola: la vita reale”.
Quanto al razzismo, sì, esiste, ma molto meno nelle giovani generazioni, il che fa ben sperare. Il pensiero del 17enne Sahil però fa pensare: “I ragazzi a scuola me lo dicono sempre, anche se per scherzare: tu sei indiano, non sei italiano. Sì, lo fanno in modo scherzoso, però dopo un po’ a me dà fastidio. Allora glielo dico, gli dico di smetterla di scherzare ma loro non smettono anche se glielo dici. Vuol dire che c’è qualcosa in più dello scherzo”. Quanto alla politica, emerge il distacco dai partiti ma nel contempo la volontà di poter cambiare le cose. Sintetico quanto efficace e costruttivo l’approccio di un 21enne: “Quando io per primo sarò cambiato positivamente potrò pretendere che il mondo cambi”.
IL LAVORO È NERO
Quel che accomuna la situazione dei ragazzi è l’aver iniziato a lavorare in giovane età guidati dalla ferma volontà di rendersi autonomi e in qualche caso essere di aiuto alla famiglia. Un altro dato comune, purtroppo, è più ancora che la precarietà del lavoro l’illegalità. E si consideri che non si tratta di immigrati clandestini.
Tante occupazioni sono svolte in nero, soprattutto nei campi, e spesso c’è uno stipendio regolare cui si aggiunge una parte importante in nero: serve a far sì che in caso di controvi non emerga l’irregolarità della presenza del lavoratore. Sono tanti gli aspetti crudi che vengono raccontati: infortuni sottovalutati, fino a 12 di ore filate sotto il sole a 5-6 euro l’ora 7 giorni su 7, il “capo che ci dava anche l’acqua”, la necessità in qualche caso di andare dal capo a rivendicare la paga che a fine giornata non arrivava. Anche in questo caso raccontiamo la frase di Hamza, che racconta di mascherine non in grado di riparare dalla polvere, che anzi penetrando nelle stesse costringeva a riempire i polmoni di polvere. Poi, dopo l’azienda di lavorazione del legno, “una volta, per tre mesi, ho lavorato per un’azienda che faceva spugne. Questi tre mesi mio erano sembrati come tre anni. C’era un ambiente terribile… Lavoravo con la paura di sbagliare. Alla sera dopo dieci ore di lavoro il capo controllava il lavoro che avevo fatto e la sua risposta era sempre la stessa: «Non ti sei guadagnato neanche l’acqua per lavarti». Non sono mai stato capace di controbattere perché nessuno mi avrebbe difeso. Per farla breve, ho lavorato tre mesi, sono stato retribuito con mille euro lavorando tra le 9 e le 10 ore al giorno dal lunedì al venerdì. Tutti in nero, con la promessa che mi avrebbe richiamato con un contratto. Ovviamente non sono mai stato richiamato, ma sono venuto a sapere che questa azienda continua ancora adesso a fare così, me lo ha confidato un amico che ci lavora. Sarebbe ora di finirla”. Una frase di 4 parole che nella sua semplicità è una sentenza: sarebbe-ora-di-finirla.
Perché accade questo? Ci sarebbe la voglia di alzare la voce, ma prevale la paura di pagarne le conseguenze, per l’incapacità di fare fronte comune: ognuno pensa per sé. Non scollegato a questo ragionamento, si segnala la pressoché totale assenza del sindacato (si accenna solo alla presenza di Fabrizio Aroldi), così come l’assenza di controlli da parte delle istituzioni.
LE RIFLESSIONI
Il libro si apre con l’introduzione di Oggionni e le riflessioni di Aroldi, di Stefano Prandini, Marco Pezzoni, Luigi Gardini e Antonella Avigni. Quasi tutti loro erano presenti sabato a Casalmaggiore. Aroldi ha affermato di aver raccolto almeno un centinaio di altre testimonianze, in quache caso ancora più pesanti. Essenziale è non mettere in difficoltà giovani a rischio di ritorsioni, afferma Gardini, che sottolinea come la nostra sia terra di solidarietà ma anche di sfruttamento.
Stefano Prandini ha ricordato, con le parole di don Milani, come si debba insegnare la Costituzione in quanto la dignità del lavoro sta alla base del nostro vivere civile, e ha sottolineato come alla parte “distruttiva” del libro si accompagni una parte “costruttiva”: «Il libro non è solo una raccolta di recriminazioni ma emerge la volontà di essere riconosciuti nella propria identità».
Antonella Avigni è partita dall’articolo 3 della Costituzione per affermare che l’Italia è fondata sui lavoratori più che sul lavoro: «Se conta solo il profitto si dimentica la parte umana, la dignità. Luigi Gardini ha ricordato il progetto di formazione e crescita che coinvolge soprattutto giovani che va dall’animazione teatrale all’impegno civico.
Sul ruolo del sindacato Fabrizio Aroldi ha ribattuto che il momento è di debolezza ma che ci sono sindacati di categoria che si occupano di questi problemi, anche se spesso le vertenze si chiudono con un compromesso. Certo il sindacato non può limitare i propri orizzonti a chi sottoscrive una tessera. A chiudere la testimonianza diretta dei tre ragazzi, che hanno sottolineato quanto sia importante conoscere i propri diritti. Nemmeno sapevano cosa fosse un Tfr.
Viviamo in un regime economico dominato dall’evasione fiscale, e il nostro territorio non fa eccezione. Spesso il lavoro nero, e la conseguente assenza di controlli, è “giustificato” da un lato dall’impossibilità di dare lavoro regolare a persone prive di permesso di soggiorno, dall’altro si giustificano aziende che in caso di piena regolarizzazione dovrebbero chiudere: a parte che non è semplice valutarlo, va sottolineata la concorrenza sleale nei confronti di chi rispetta la legge, e affermato che se un’azienda non riesce a stare sul mercato è giusto che lasci spazio ad altre. Inoltre il tutto si inserisce in un quadro che vede la forbice della disuguaglianza di reddito sempre più ampia.
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