Cultura

Il Torrione torna a nuovo
E rispunta in una novella del 1500...

In occasione dei lavori di ristrutturazione, attesi da decenni e partiti nelle scorse settimane, al Torrione Estense di Casalmaggiore, lo storico locale Costantino Rosa ha pescato e postato sui social una vera e propria chicca. Ossia una novella del 1500.

In occasione dei lavori di ristrutturazione, attesi da decenni e partiti nelle scorse settimane, al Torrione Estense di Casalmaggiore, lo storico locale Costantino Rosa ha pescato e postato sui social una vera e propria chicca. Ossia una novella del 1500. E’ stata scritta da Matteo Bandello, da molti considerato uno dei maggiori novellieri del ‘500. Infatti questo scrittore è nato a Castelnuovo Scrivia nel 1485 e morto a Agen (nel sud della Francia, nella Nuova Aquitania) nel 1561.

Da giovane ha avuto la fortuna di conoscere Leonardo Da Vinci e la Gallerani. Visse anche a Gazzuolo e a Castel Goffredo sotto la protezione dei Gonzaga e fu Vescovo di Agen ove concluse la sua vita. “La novella, la 59 del terzo libro – spiega Rosa – il cui titolo è “Il conte Filippo trova la moglie in adulterio, e quella fa morire insieme con l’adultero ed una camerera” si svolge in palazzi e nel torrione di Casalmaggiore”.

Rosa riporta poi l’intera novella che qui di seguito proponiamo. “Un eccellentissimo capitano, essendo ne lo stato di Milano di grandissima riputazione per le cose militari, diede una sua figliuola, che aveva nome Isabetta, per moglie ad un conte Filippo, che era signor di castella. Ella era bellissima giovane e di persona molto grande, ma baldanzosa molto e tutta pieghevole a’ prieghi d’altrui, di modo che poca fede serbava al conte suo marito, perciò che ogni volta che le era comodo, per non logorare quello di casa, si provedeva di fuori via. Ebbe un figliuolo del marito, che si chiamò il conte Bartolomeo”.

“Poi, facendo ogni dí qualche cosetta de la persona sua e non sapendo far le cose sue così secrete che molti non se n’avvedessero, cominciò forte a dubitare che il marito un dí non si vendicasse di tutte l’offese che ella fatte gli aveva. Ed entrata in questo dubio, pensò esser la prima che menasse le mani, e deliberò levarsi per via di veleno il marito fuor degli occhi, sperando restar libera e governatrice del picciolo figliuolo. Avuto, non so come, il modo d’avere certi veleni, quelli diede in una bevanda al marito, il quale gravissimamente infermò. I medici chiamati a la cura sua si accorsero molto bene che il mal suo era di veleno, e fatto subitamente tutti quei rimedii che loro parvero a proposito, aiutarono di modo il conte che lo liberarono dal periglio del morire; tuttavia restò egli sempre alquanto cagionevole de la persona. La moglie in questa infermitá del marito si mostrava d’esser la più grama e dolente moglie che mai si fosse veduta, e dal letto del marito mai non si partiva, piangendo sempre; di modo che il conte, che de l’onestá di quella aveva avuto qualche sospetto, venne in credenza d’aver la piú amorevole e pudica donna che a’ suoi tempi fosse”.

“Ella, dolente oltra modo che il suo disegno non le era riuscito, né piú del veleno, come poi si seppe, potendo avere, e veggendo il conte male de la persona disposto, non volendo perder il tempo indarno ed avendo gettati gli occhi adosso ad un Antonio da Casalmaggiore, che era arciere del marito, di quello fieramente s’innamorò, e lasciati tutti gli altri innamoramenti, a questo solo dispose d’attendere. Era Antonio non molto grande di corpo, di pel rosso e gagliardo pur assai e di viso lieto e bello. Questo, di leggero de l’amore de la contessa avvedutosi, non ischifò punto la impresa, di modo che piú e piú volte in diversi luoghi e tempi si trovò a giacersi con lei amorosamente. Ora, usando meno che avvedutamente questa lor pratica, fu qualcuno di casa che ne avvertí il conte; il quale, aperti gli occhi e poste de le spie a torno a la moglie e a l’arciero, venne in chiara cognizione de la disonesta vita di quella. Stette in pensiero il conte di fargli ammazzare tutti dui e trargli in un chiassetto, ché mai piú non se ne sentisse né nuova né ambasciata.

Ma per meglio chiarirsi del tutto e trovar la gallina col gallo su l’ovo, e poi far quanto piú a proposito gli fosse paruto, disse un dí a la moglie: – Contessa, a me conviene esser a Milano per parlar col signor duca, e penso che mi converrá star fuori piú che forse non credo. Averai buona cura de le cose di casa fin che io ritorno. – E chiamato il castellano, gli ordinò che a la contessa fosse ubidiente fin che da Milano fosse ritornato. Fatto poi la scielta di quelli che voleva che seco a Milano andassero, volle che Antonio da Casalemaggiore fosse di quelli che a la guardia de la ròcca, che aveva, restasse. Il che agli amanti fu di grandissima contentezza, sperando, in quel mezzo che il conte starebbe fuora di casa, aver il tempo e la comoditá a lor bell’agio di godersi insieme amorosamente quanto loro fosse piacciuto. Ma, come dice il proverbio, «una ne pensa il ghiotto e l’altra il tavernaro».

Era del mese di maggio, nel principio. Ora il conte, fatto metter ad ordine il tutto, e di giá informato il suo castellano di quanto voleva che si facesse, un dí, dopo che si fu desinato, montò a cavallo e prese il camino verso Milano. Non era a pena il conte partito, che la contessa, chiamato a sé il suo amante, gli disse: – Anima mia, noi averemo pur ora la piú bella comoditá del mondo di poter esser insieme senza rispetto, e di notte e di giorno. Il conte, come vedi, è partito, e a la presenza mia ha comandato al castellano che, fin che egli se ne torni, mi sia quanto a la persona sua ubidiente. Il povero castellano è oramai vecchio, e credo che mal volentieri vada la notte in qua e in lá visitando le guardie.

Io gli dirò che si riposi e che di questo lasci a te la cura, ché tu le rivisiterai quando sará il tempo. – E secondo che a l’amante ella aveva detto, cosí, chiamato il castellano, gli disse: – Castellano, poi che il conte è partito e che stará qualche dí fuori, io vo’ che noi abbiamo buona cura di questa sua ròcca e de l’altre nostre cose, e che sovra il tutto le guardie la notte siano spesse fiate riviste e messovi buona diligenza, ché, ancora ch’io non creda che ci sia pericolo, tuttavia si suole communemente dire che «buona guardia vieta rea ventura». Ed oltra ogni cosa, io so che al conte faremo piacer grandissimo quando intenderá che, mentre egli sia lontano, noi siamo stati solleciti e diligenti guardatori de le cose sue.

Ma perché voi sète pur vecchio, e l’andar a torno la notte non è troppo sano, io mi credo che sará ben fatto che voi diciate una parola a messer Antonio da Casalmaggiore, che in questi pochi dí prenda questa fatica per voi di visitar le guardie. Io porto ferma openione che egli lo fará volentieri per amor vostro. – Il castellano, che giá era stato dal conte instrutto, molto bene s’avvide a che fine la contessa queste cose diceva, e le rispose: – Signora, io farò tanto, in questa e in ogn’altra cosa, quanto sará vostro piacere di comandarmi. Ma egli sará ben fatto che voi gliene diciate una parola. E basterá che attenda di sopra e lasci a me la cura del ponte. – Come la donna l’aveva divisato, cosí si fece; di che l’amante si tenne molto contento. Ora come fu la notte, parve un’ora mille anni a la donna d’aver seco l’arciero, per vedere chi saperia meglio tirare. Il conte cavalcò di tal maniera che, quando tempo gli parve, fece rivoltare le briglie senza aprir a nessuno la sua intenzione. Come fu giunto a la ròcca, andò chetamente a dismontar al palazzo che di fuori aveva, e comandò che nessuno quindi si partisse per quanto avevano cara la grazia sua. Dopoi, chiamati tre dei suoi piú fidati, con quelli, essendo tutti quattro di corazzine, celate e spade armati, se ne venne verso la porta de la ròcca e diede il segno che al castellano ordinato aveva.

Era buona pezza che il castellano aveva veduto entrar l’arciero ne la camera de la signora contessa, e s’era ridutto di sotto, aspettando il suo signore; onde, sentito il segno, senza far strepito alcuno calò la ponticella de la pianchetta e introdusse il conte con i tre compagni. Il conte alora a quei tre, con meraviglia grande di loro, aperse l’animo suo e di lungo se n’andò a la camera, la quale, con la chiave che aveva, aperse, e trovò il suo arciero che tirava al segno senza veder lume. Aveva il castellano recato seco del lume; il perché l’arciero subito, cosí ignudo come era, fu preso e legato. La donna medesimamente, piú morta che viva, fu fatta levare; a la quale il conte altro non disse se non che s’apparecchiasse a dir tutti i tradimenti che fatti gli aveva. Ma per non far lunga dimora in queste cose cosí noiose, fu quella medesima notte l’arciero strangolato.

A la donna fece il conte cavar i denti ad uno ad uno con la maggior pena del mondo; la quale confessò del veleno che al marito dato avea, e che a molti, i quali nomò, s’era amorosamente sottoposta, che di mente mi sono usciti. Disse anco come il primo figliuolo, il conte Bartolomeo, era legitimo e figliuolo d’esso conte Filippo. Intesa la confessione de la moglie, quella tenne alcuni dí in prigione in pane ed acqua. Ciò che poi ne divenisse, non si sa; ma si tiene che non dopo molto la facesse, messa in un sacco, macerare in Po, con un gran sasso al sacco legato; come medesimamente si dice che aveva fatto d’una cameriera de la contessa, che in camera di lei dormiva e sempre degli amori di quella era stata consapevole”.

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