Cronaca

Il Buon Natale laico di Giampietro
Lazzari: ecco il suo racconto

Questo Giampietro (Geppa) Lazzari sa fare. Scrivere, in maniera eccelsa. Raccontare pezzi di vita vissuta, passata, in cui ognuno può riconoscersi. Il nostro buon Natale laico (per quello religioso ci ha giustamente pensato sua eccellenza Antonio Napolioni) ve lo facciamo così, come lui lo ha fatto a noi

Gli auguri di Natale Giampietro Lazzari da Casalmaggiore li fa così da anni ai suoi amici più stretti. Con quello che di meglio sa fare. Scrivere e raccontare. E poco importa che il racconto di Natalizio in fondo abbia ben poco. Le storie, quelle belle, quelle che ti fa piacere leggere, sono atemporali. Non hanno una collocazione o un tempo in cui è giusto leggerle. Ogni tempo ha un senso, ogni momento è quello giusto perchè il ristoro di anime erranti – come le nostre – vale in ogni occasione. Questo Giampietro (Geppa) Lazzari sa fare. Scrivere, in maniera eccelsa. Raccontare pezzi di vita vissuta, passata, in cui ognuno può riconoscersi. Il nostro buon Natale laico (per quello religioso ci ha giustamente pensato sua eccellenza Antonio Napolioni) ve lo facciamo così, come lui lo ha fatto a noi. Con il suo racconto. Si intitola La Carovana e ci ha davvero colpito. Come ogni volta e come sempre. Buon Natale dunque, a tutti voi, con le sue parole.






 

La felicità era una partenza e un reciproco sguardo d’intesa. Pronti? Viaaa!…
Iniziavano così i nostri viaggi minorenni. E per noi erano i viaggi della vita. Quelli che ti pareva di dover percorrere la 66esima. Solo che noi non eravamo nuovi Kerouac e la nostra meta non era il Messico. Ma era comunque il nostro West, e la via Emilia la strada più selvaggia che conoscevamo.

Se c’era una cosa preziosa al mondo quella era la nostra vespa. Non altro. Quella avevamo desiderato fino allo spasmo. Di quella avevamo avuto la fortuna, chi con sacrifici chi con nessuno, di essere possessori. Per quella, noi svogliati, avevamo studiato come matti per conseguire la patente precoce. Con quella saremmo andati alla scoperta dei mondi che ci circondavano.
A lei erano dovute le attenzioni più meticolose, molto ma molto più che se fosse stata un essere vivente. Come il paguro alla sua conchiglia ci stavamo abbarbicati. Col freddo, col caldo, con la nebbia. Era la nostra compagna di avventure, di vita e quasi una casa viaggiante, e come ogni casa rispecchiava il dentro di ognuno di noi. I colori, le cromature, gli improbabili accessori, un riflesso veritiero delle personalità.
Quanto al modo di utilizzo poi…beh quello era la cartina di tornasole più efficace che mai chimico avesse posseduto. Chi la usava coi guanti, chi ne spremeva il motore fino allo spasmo, chi non l’avrebbe lasciata mai.
E guai se un sasso l’avesse scalfita. Guai se qualcuno ci si fosse seduto senza permesso! E ti prego Signore – veramente – fai che non gli accada mai nulla, non lo sopporterei..
Nei pomeriggi fiacchi dell’oratorio o nelle sere fresche nella piazza – davanti al saloon con le porte a vetro – i nostri purosangue erano lì, in piedi sui loro cavalletti, tutti col muso colorato piegato da una parte. Bianco gelo, celeste cielo, blu tenebra, rosso ardente. Ed era proprio uno spettacolo e ci faceva sentire immortali. E le radio montate su di essi spandevano le nostre canzoni e avresti potuto riconoscere l’arrivo di qualcuno al solo udirne la melodia che anticipava il moto.
Cavalcavamo su quell’oggetto scoppiettante sentendoci cavalieri in praterie grandissime e desolati canyon. Non c’erano i cocuzzoli emergenti di oceani primordiali, né valli della morte; ma chissà, qualche banda di rinnegati o qualche serpente a sonagli potevamo pure trovarlo sulla nostra strada. E sarebbero stati guai. Ci muovevamo solitari ma ancor più a gruppi, come si confaceva quando il motto era sempre “tanti è meglio”.

Pronti via – dicevo. Si, e al galoppo su quelle motorette partiva la nostra carovana; sempre a notte fonda. Le vespe stracariche. Il sacco a pelo verde d’ordinanza legato sul portapacchi davanti (si sa mai che non trovassimo un alloggio), il borsone capiente su quello dietro.
Non che si portasse con sé gran che, ma qualche maglietta, due paia di pantaloni, asciugamano e poco altro rappresentavano l’essenziale per star via una decina di giorni.
Ma si dai, butta dentro pure sta camicia.. – mi dicevo la sera della partenza – Se ci sarà bisogno farà la sua figura. E il maglione? Maglione uhm…ma si va, le notti nel deserto sono fredde…
Come ogni evento importante il giorno prima viveva di agitazione. E quelle poche ore steso sul letto in attesa dell’orario fatidico di certo non davano alcun riposo preventivo. Si era stati al bar fino a poco prima, a rifinire gli ultimi accordi, a ridere, a fantasticare del domani. Poi a casa presto. Faccia al soffitto, mani dietro la nuca, cuscino appiccicoso dall’afa della pianura e occhi sbarrati nell’immaginare il viaggio e tutto quanto il resto.
Il pieno? Fatto. La candela? Cambiata. Il carburatore? Pulito. E l’olio per la miscela? …Si, si è dentro il bauletto. Non manca proprio nulla. Ah, aspetta…le cassette?..Ci sono ci sono. compresa quella con la raccolta.
E la gomma di scorta? Gonfiata.
Saluto mia madre anche se è notte fonda. Ha fatto finta di dormire anche lei, lo so.
– Ciao, vado.
– Stai attento…telefona..
Mi vesto, indosso il giubbino di jeans, divisa di tutte le stagioni; mi metto al collo il fazzoletto della squadra e masticando un biscotto secco sono già in garage. Masserizie già caricate. Un colpo solo alla pedivella…Bruuum…non sbaglia un colpo – penso. Che soddisfazione! Luce del faro. Esco dal cancello. Ciao casa ci rivedremo; dopo l’avventura.
Attaccaticcia notte padana di mezza estate. Un gatto mi guarda da un balcone, in giro nemmeno un’anima. Ritrovo all’una in piazza, davanti al bar.

Ci siamo tutti. Sigaretta e poi via. Davanti ci si alterna tutti, tranne uno poco incline al senso d’orientamento che da solo si perderebbe già dopo la seconda curva. L’odore dell’aria di notte che si fa più fresco man mano si apre la campagna. I moscerini ci flagellano, tanto che a volte ci tocca mettere gli occhiali scuri.
I pionieri sono partiti, li aspettano cose che ricorderanno negli anni.
Passiamo i primi paesi che conosciamo bene, poi davanti a quella discoteca dove non andiamo più perché non è più di moda ma che a me è rimasta nel cuore per il motivo che sai – amico mio.
Si va ordinati, poi il bivio in direzione della prima città emiliana che attraverseremo ma che non ci è sconosciuta per le frequentazioni calcistiche.
In strada solo un camion scassato carico di meloni che procede pigro ai due all’ora. Circondati da campi di mais già alto, un getto d’acqua per irrigare rischia di inzupparci, ma siamo stati attenti; il capofila ha alzato la mano e ci siamo tutti fermati ad aspettare che lo scroscio si rovesci sulla strada con il suo odore di fosso e di erba galleggiante.
Attraversiamo la prima città senza fatica, tanto è tutto dritto. In centro però qualche movimento. Passiamo in fianco alla stazione. Due tassisti parlottano e c’è uno vestito da soldato, ingobbito da uno zaino grande come un armadio, che ci guarda con la faccia di chi pensa: Vi va bene a voi..ma ancora per poco..
Proseguiamo alternandoci al posto di apripista. Qualcuno ogni tanto ondeggia e già si sgranchisce le gambe aprendole alternativamente a lato. Passiamo qualche paese e questi sono posti che non conosciamo più anche se sembrano uguali a quelli da dove siamo partiti. Stesse forme, stesse tapparelle, stesse insegne, stesse luci gialle; ma i nomi sono diversi. Stranezze della pianura.
In prossimità della seconda città ci si ferma. Non siamo lontani dalla tangenziale che incrocia le due autostrade più importanti. Decidiamo di fermarci. Del resto abbiamo già quasi due ore di sella alle spalle. Ci arrestiamo in uno di quei posti che non chiudono mai e parcheggiamo i cavalli di latta tra un bisonte carico di auto ed uno di legname, alto come una casa di due piani.
Entriamo e ordiniamo tutti un caffè. Sei caffèè – grida un ragazzo al collega davanti alla macchina che sbuffa vapore, mentre il suono della ceramica delle tazzine sbattute ci da una scossa. Dentro un po’ umanità che già sta lavorando sodo e non ha tempo né voglia di prestarci attenzione.
Un camionista appoggiato al bancone volta il suo faccione e ci rivolge la parola.
– Son vostre eh quelle robe là fuori? Dove andate ragazzi?
– Andiamo al mare – Rispondiamo in coro.
– Buon per voi. Andate di là? ci chiede, offrendoci dal pacchetto molle una nazionale decisamente indigesta alla mattina presto.
– Si, di là – non sapendo bene a quale “di là” si riferisse. Stranezze dei punti cardinali.
– State attenti che in giù sulla statale c’è stato un incidente…occhio che c’è olio sulla strada. Eccola – pensiamo – La solidarietà del vecchio Sud.
Ringraziamo e gli do la mano. Me la stringe. Forte.
Usciamo e ci sentiamo grandi. I bestioni sono già partiti e le nostre vespe, prima protette, sembrano minuscole ora, sole in quel parcheggio da dinosauri.
Si riparte. La sede stradale man mano si allarga, si dilata si fa doppia. Il numero dei mastodonti è aumentato e quando ci sorpassano vacilliamo e sembra che lo sfiato di una balena ci colpisca in faccia, noi sardine fuggite dal nostro piccolo mare.
La carovana rallenta; più avanti sfrigolano lampeggi blu. Una brutta carambola ha buttato fuori strada un camioncino che non si capisce nemmeno di che marca sia. C’è un tizio sul ciglio in canottiera con le mani nei capelli. L’altro mezzo, un’auto di traverso sulla carreggiata, è diventato più corto della nostra motoretta. Dentro è facile che ci sia qualcuno o forse più di uno. Sirena di pompieri, di ambulanza; fiaccole di cera sul catrame, olio, rottami. Aveva ragione il camionista. Rallentiamo fin quasi a fermarci e guardiamo dentro..Viaaa, viaaa…forzaaa – ci grida l’agente roteando la paletta. Ci lasciamo le luci roteanti alle spalle.
La scoperta è felicità, la scoperta è tragedia.

Poco prima della grande città dobbiamo fermarci. Facciamo il punto.
– Questa è una città vera, ragazzi, e la dobbiamo passare tutta.
Ci fermiamo in un piccolo spazio a lato della strada tra un cassonetto che vomita robaccia e un lampione introverso circondato da un milione di falene. Scendiamo e uno tira fuori la cartina sgualcita della regione con piccoli riquadri che mostrano la planimetria dei capoluoghi. È la nostra mappa. L’apriamo sulla sella. Qualcuno l’aveva già esaminata ma è meglio farlo ancora. Ci abbassiamo; gli indici sulla carta si muovono e disegnano il percorso.
– Quanta strada ancora dobbiamo fare! Ma siamo ancora qui?!
– Allora…qui sembra che la via ci passi in mezzo, sembra tutto dritto…
– Aspetta, ma noi da dove arriviamo? Da qui o da qui? Non si capisce…
– Ma come non si capisce? Non vedi il numero della strada?!Arriviamo da qui, e secondo me adesso siamo più o meno qui. Non dovrebbero esserci problemi.
– Si però ti ricordi i vecchi che sono venuti l’anno scorso…han detto che poi è un casino.
– Guarda! Scavalliamo qui sopra la ferrovia e poi sempre avanti; forse il difficile è qui dove ci sono queste due strade grandi, poi non so..più avanti qui, .forse c’è un fiume o un canale.. – e l’indice picchiettava sulla carta.
– Ma va là! Non vedi che è non è azzurro?..
– Vabbè oh…qui sembra tutto dritto, poi chiederemo.
Una falena cade sfinita sulla carta. La strada è vita. La strada è morte.

Si riparte. Direzione la città; vera, grande. Alla testa del gruppo quello che ha più esperienza. E lui ce l’ha. Ha preso la patente prima di tutti e l’anno scorso, per l’ultimo dell’anno – insieme ad un altro – ha voluto andare in vespa Montecarlo. Così, tanto per poterlo raccontare. Come quelli più vecchi che ogni tanto dicevano che andavano a prendere un caffè a Venezia. Una roba da matti. Però che forza! Poi, all’inizio dell’abitato, quando lo hanno visto i gendarmi poveraccio com’era, lo hanno cacciato indietro e gli è toccato dormire sotto un ponte appena prima del confine.
È lo stesso che in primavera scavalla le colline portando a bordo un altro dei nostri. Però si legano in vita con del nastro da pacco perché quel passeggero durante il viaggio di solito si addormenta, e rischia che gli cada durante un tornante. Stranezze delle colline; e dei tornanti.
Ora dovremo fare doppia attenzione. Non solo ci aspetta la città ma siamo in territorio sconosciuto e pure nemico. E noi portiamo i segni distintivi: la targa con la doppia lettera. Siamo subito riconoscibili. Speriamo bene. L’anno scorso in un agguato, nascosti dalle collinette dei giardini, ci hanno fracassato tutti vetri del pullman e uno per poco ci ha perso un occhio.
Eccola la città; ci viene incontro. Come sarà arrivarci così..mah?
I primi tozzi parallelepipedi di cemento, i vecchi magazzini con i tetti spioventi, le concessionarie con le insegne illuminate, le file dei lampioni freddi. Poi le strade a grande scorrimento e cercare tra le decine di cartelli la nostra direzione. Tutto dritto, tutto dritto..avanti avanti! Ci grida e ci fa segno ondeggiando il braccio il capo guida. Chissà se la conosce veramente la pista giusta…
È ancora scuro ma c’è già c’è gente in giro. La città si sta svegliando o forse non dorme mai ma noi non siamo abituati all’insonnia perpetua.
Ci arrivano addosso le case popolari, i casermoni, i palazzacci che sembrano alveari. Poi staccionate che delimitano piccoli orti, giardinetti ed ecco i binari che dobbiamo valicare. Ce li aspettavamo sotto invece sono sopra. Attraversiamo il sottopasso. Il rumore delle vespe si fa diverso, scuro come le pareti annerite da anni di fumi. A lato un tizio dorme dentro un cartone. Che brutto mondo.
Poi i primi edifici moderni, di vetro, ed altri più antichi con i loro grandi portoni signorili. Centro..centro..centro. I cartelli adesso dicono solo quello. Ma dove dobbiamo andare? Lo sa Dio… chi è in testa credo non più.
Ci imbattiamo in imprevisti. Un paio di rotonde con un bel po’ di uscite, tutte dai nomi sconosciuti. Forse sono quartieri. Accidenti questa non ci voleva! La guida prosegue senza fermarsi. Direzione centro. Beh, arriverà questo centro- pensiamo – poi finirà ed inizierà ancora la nostra via maestra. Speriamo…
Ma le nostre semplificazioni da mondo piccolo non avevano fatto i conti con il grande, e dopo tre svolte ci siamo decisamente persi. Un bugigattolo di vie e di portici scuri ci circonda. Luogo perfetto per agguati. Muri imbrattati di scritte; appese ovunque locandine di feste, di ritrovi e di cose sconosciute. Qualcuno in giro col cane ci osserva come esseri bizzarri, così carichi di cose. Ma non sembrano nemici. Rumore stridente. Un tizio in camicia bianca sta alzando una saracinesca. Ci fermiamo. C’è un po’ freddo ora, meglio berci un altro caffè.
– Scusi, siamo in centro qui?
– Centro? Soccia..più centro di così entrate a San Petronio – ci dice senza guardarci mentre si arrotola le maniche della camicia – Ma dove dovete andare con tutta quella roba lì? In Africa?
– Al mare – risponde il solito coro.
– Ma al mare di là?
– Si – rispondemmo senza capire ancora una volta perché doveva essere di là.
– Eeeh allora…. tornate indietro due vie a sinistra poi trovate un supermercato che fa angolo poi seguite per tangenziale, andate avanti un bel po’ e sarete sulla strada.
– Grazie, ci fa un caffè?
– No, la macchina è ancora spenta. Ciao ragazzi, buon viaggio.
Non sono così antipatici questi nemici – pensammo all’unisono. Stranezze del pallone; e delle città.

Con fatica, nonostante le indicazioni, riusciamo a guadagnare la via d’uscita ed ora i cartelli sono più comprensibili per intercettare la nostra direzione.
Albeggia, e la luce del crepuscolo invece di svegliarsi ci intorpidisce di più. Sulla nostra strada cominciamo ad incrociare altre carovane simili alla nostra. Stessa direzione. Un occhio subito alle targhe. Sono amici. Ci accodiamo e così riuniti siamo talmente tanti che sembriamo un piccolo raduno. Anche loro con i sacchi a pelo; solo che hanno vespe meno lucide e piene di adesivi e sembrano più una tribù di indiani che visi pallidi. Addirittura uno ha dei bonghi attaccati al portapacchi. Fa lo stesso. Il viaggio ci accomuna e, complice la sigla della targa, è subito simpatia.
Ci fermiamo tutti ad una pompa. Il benzinaio si gratta la testa sotto il cappelletto blu. Gli toccherà fare qualche mille lire per una ventina di volte.
Ci si scrolla un po’ di polvere di dosso e ci si stiracchia. Fumiamo una sigaretta. Qualcuno dell’altra tribù qualcosa d’altro.
A gruppetti di due o tre si parla di calcio e di quel giorno dove si è andati in trasferta a casa loro e qualcuno sembra riconoscersi. Pacche sulle spalle, sorrisi. I più attenti esaminano accuratamente i cavalli altrui alla ricerca di qualche accessorio sconosciuto.
– Accidenti questo coprifaro cromato proprio non lo avevo mai visto. Bello!
Uno estrae un panino dal sudario di stagnola. In effetti ci è venuta fame ora.
Ripartiamo in comitiva ma dopo poco le carovane si dividono. Ci salutiamo con le dita a “V” nel gesto di Churchill ma anche di Vespa, usando smodatamente i nostri ridicoli clacson. Mi pare che attiriamo simpatia anche se un automobilista, ostruito da quel nugolo di moto, ci manda a quel paese con gesti evidenti.
Entriamo in una altra cittadina che ha già cominciato il suo brulichio.
Ci siamo quasi ragazzi, ci siamo quasi…
La vespa del compagno che mi precede sbanda paurosamente da una parte all’altra poi rallenta e si affloscia. Gomma bucata. Quella dietro per fortuna. Se ti capita che il cavallo ti si azzoppi nei garretti davanti di solito si cade, e ti va bene se ti rompi solo tu. Se ti si rompesse il cavallo sarebbe un guaio.
Ci si ferma in una via non grande ma trafficata, tra il limite della sede stradale ed un largo marciapiede dove si affacciano gli esercizi che stanno per aprire.
– Accidenti, proprio adesso che stiamo per arrivare!
Ci togliamo i giubbini. Ne usiamo un paio da stendere come protezione per non graffiare la fiancata del cavallo che viene adagiato disteso su di un lato. Tolgo gli attrezzi dal bauletto. Una chiave ed un cacciavite; straordinaria officina portatile che ha il pregio della sufficienza e della leggerezza.
La ruota sta proprio tra la testa del blocco – caldissima – e la marmitta ancora di più. In due usiamo un fazzoletto per proteggere le mani che operano per smontare la ruota e sostituirla, ma un po’ ci bruciamo la pelle. Il cavallo pare non soffra. Però a pancia in giù perde un poco di benzina che cola dal sottosella. Vabbè…i giubbini odoreranno di strada per tutti i prossimi giorni. Nulla di che; terrà lontani gli insetti.
Un omino con le mani dietro la schiena, in piedi davanti ad una ricevitoria del lotto, ci guarda come fossimo meccanici della formula1.
– Raghezzi, avete bucato la gomma? – ci chiede con quell’inconfondibile accento dalle “e” così strette che sembrano “i”.
– Si, vaca boia! (perché non si vede?!) – Rispondiamo in due senza togliere lo sguardo dal malato in sala chirurgica.
– Appena dopo la guerra ce l’avevo anch’io la lambretta. Poi mi son sposato e mia moglie ma l’ha fatta dar via…poi ho preso un’apecar..
– Beh allora era meglio non sposarsi! – gli risponde uno di noi.
Il vecchio ride, annuisce e fa un fischio ad un tizio alla vetrina di fianco.
– Ginoo, dagli uno straccio qua ai raghezzi, che fan fatica con sta lambretta..
Esce il Gino e ci allunga un paio di stracci che san di pesce. Ringraziamo. Dopo che il cavallo si è rialzato sulle due zampe, ci fa entrare e ci fa lavare le mani unte e escoriate dal calore dentro una vasca di fianco ad una cassa di anguille. In alto appeso c’è un pesce spada imbalsamato più vecchio di Moby Dick. Il calore del vecchio Sud. Ringraziamo tanto, ma veramente tanto. Stranezze delle pescherie e delle lambrette; che non sono vespe.

Ancora in sella. Stanchezza e fame. Ma ci siamo ormai e l’aria fresca del mattino adesso ci galvanizza. Le campagne sono piene di frutti ma i colori sono ancora i nostri. Attraversiamo paesi dalle case basse, tagliati in mezzo da un’unica via; sembrano proprio quelli dell’Arizona. Non manca il negozio col tizio dal grembiule che vende tutto. Dalle sementi, ai badili, ai barili di dinamite, alle esche vive. Sgasiamo, e forse un po’ troppo, ma non stiamo più nella pelle. Incrociamo ancora carovane come le nostre in senso contrario. Pionieri di ritorno. Forse non han fatto fortuna, chissà.
Entriamo nella prima località della costa. Un enorme cartello stradale in alto, come all’entrata di un forte, ce lo dice a lettere cubitali dove siamo. In italiano, e anche in tedesco.
Percorriamo la via che porta al lungo mare. Una fila che pare infinita di alberghi, hotel, zimmer-frei. Poi bar, gelaterie, negozi di articoli da spiaggia con le ciabatte appese fuori e la mucca carolina gonfiabile. E ancora pizzerie, gelaterie, edicole con le cartoline sui trespoli. Tutto si impossessa dei nostri occhi. Già molti con l’asciugamano sulla spalla ciabattano in un’unica direzione. Siamo rapiti da quel gran bazar tanto che a momenti non tamponiamo un pedalò con su due che ridono e che ha inchiodato improvvisamente davanti a noi. Imparate a guidare! Maledizione a voi e alla vostra doppia bici della malora!
Ci siamo. Già vediamo la sabbia fine ammucchiata nello spazio tra la strada e il rialzo del marciapiedi ed in ogni altro anfratto dove gira un poco d’aria. Ecco il nostro Eldorado!
L’acqua blu davanti a noi, appena dopo la banchina della passeggiata e il tratto di spiaggia. È passata pure la fame. Ci fermiamo.
– Maah, e l’albergo?..
– L’albergo? Ma chissenefrega ci penseremo dopo!
Spegniamo i cavalli. Ci spogliamo subito. Lasciamo i vestiti sulla sella, in un attimo calziamo il costume. Corriamo fortissimo sulla sabbia che scotta alzando una nuvola di polvere e poi dentro.
Schizzi d’acqua tra le gambe, le nostre schiene e le mani alzate.

Stop. Click. Lo scatto di un’istantanea bellissima.
L’ho salvata dentro di me. Non la perderò mai.

Giampietro Lazzari

 

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