Orti sociali, un viaggio tra abbandono e rifiuti. Calestani: "Nessuno qui controlla niente"
A delimitare il lato strada c'è quel che resta di una siepe. Una parte, quella che dà verso il santuario, è stata tagliata in maniera radicale, e un'altra parte è ingiallita. "C'erano nidi, a casa ho ancora le foto - racconta Bruno - e non ho mai capito perché l'hanno ridotta così"
CASALMAGGIORE – Il progetto degli orti sociali – quelli che sorgono tra ferrovia e cimitero – doveva essere un fiore all’occhiello della città. Uno spazio concesso a chi se ne sarebbe poi preso cura. Era stato voluto dalla precedente amministrazione, spinto con forza dal consigliere Calogero Tascarella. A ben vedere, quel che resta – almeno in parte – non è per nulla edificante. Facciamo un giro, con Bruno Calestani – il botanico – che qui ha un suo piccolo appezzamento in cui fa nascere le piante, noci e querce soprattutto che poi giunto il tempo va a trapiantare in golena. Parte dalle ghiande e dalle noci che nel giro di due o tre anni sviluppano un apparato abbastanza forte per essere spostato.
Ma non siamo qui per la sua passione, non siamo qui per il piacere. Lui gli affidatari di quegli appezzamenti li conosce ad uno ad uno. C’è chi per sopraggiunti limiti di età ed acciacchi non riesce più ad occuparsene, e sono quelli giustificati. Ma ci sono quelli abbandonati in cui abbondano rifiuti di ogni tipo e poi c’è quel basamento centrale in cemento che – tra le altre cose – è la più grande delle vergogne. Fatto realizzare per costruirci un capanno degli attrezzi il capanno non fu mai realizzato. Ma la base – quell’orrido cemento in mezzo all’appezzamento di terra – è restato, meta ambita di scaricatori seriali. C’è spazzatura di ogni genere. Plastiche, bottiglie, vestiario. E c’è pure uno spazzettone da cesso.
A delimitare il lato strada c’è quel che resta di una siepe. Una parte, quella che dà verso il santuario, è stata tagliata in maniera radicale, e un’altra parte è ingiallita. “C’erano nidi, a casa ho ancora le foto – racconta Bruno – e non ho mai capito perché l’hanno ridotta così”. Non c’è da consolarsi neppure per la parte che è restata: dalla conformazione nessuno sembra curarsene.
Tra gli appezzamenti abbandonati – racconta Bruno, ma verificheremo – ci sarebbe pure quello un tempo utilizzato dal Concass, prima dell’orto sinergico. E’ uno degli appezzamenti selvaggi tra i tanti. La tundra padana. “Non si chiede tanto – spiega Bruno – ma che almeno ci sia un controllo sui terreni e che quelli abbandonati vengano rimessi a disposizione di chi li vuole o quantomeno vengano tenuti puliti”. Alcuni danno malinconia perché, in mezzo alle erbacce e alle cose abbandonate, c’è pure il segno di quel che è stato. Dalla rete di uno di questi spunta una bella pianta grande di rosmarino. E’ in fiore, ed ha resistito anche all’incuria. In un altro ci sono gli albicocchi. Non resisteranno. Il resto è un insieme indefinito di erbacce ed oblìo.
“Ho segnalato più volte la situazione all’ufficio ambiente – spiega – ma non è mai intervenuto nessuno. Qualcuno mi ha detto di raccoglierli e metterli sulla strada, ma lo devo fare io da solo? E poi qualcuno si è pure stancato”. Stancato della mancanza di controllo e dei continui furti. La situazione che si ripete ad ogni primavera inoltrata non è delle più edificanti. “Alla sera, quando non c’è più nessuno, capita che arrivi gente che non ha neppure l’orto a fare la raccolta. Sono sparite canne per innaffiare, stivali, attrezzi e pure lo stesso frutto della terra. Una sera in cui ero presente ho pure chiamato i carabinieri”.
L’amministrazione attuale ha ereditato il progetto dell’amministrazione precedente e – sentendo Bruno e vedendo lo stato in cui versa il tutto – non ne deve essere stata poi particolarmente felice. E l’impressione complessiva è che – fatti salvi cinque o sei appezzamenti tenuti in maniera straordinaria – il resto sia lo specchio di una città dormiente che accetta tutto. Pure discariche a cielo aperto o progetti che nessuno segue più. Nulla di nuovo sotto il sole. Ma neppure – ci vien da dire – a fianco del cimitero.
“Spero che scriverne serva a qualcosa – ci dice ‘il botanico’ prima di salutarci – anche perché nessuno mi ascolta”.
Ci fa vedere la mora selvatica, il noce e le piccole querce, l’insalata gentile “Che sta soffrendo il freddo notturno”, i segni della talpa “che poi d’estate – ci spiega sorridendo – fa sparire le piantine”, le formiche giganti, le cipolle e la pianta di citronella. C’è un vasto appezzamento a fianco alla massicciata del canale di ortica “Questa è buona per farci il risotto”, e qua e là gli ouartis. Cerca di coglierci in fallo, ma l’ouartis non mi inganna, lo conosco bene. Intanto che parla taglia un po’ di grugnini da portar via, e me li offre “Sono un po’ duri, ma sono buonissimi”. Mi ha corrotto. Ma già lo aveva fatto nel raccontare e nel raccontarmi le storie di quelle piccole piante che poi, col tempo e la costanza, ha contribuito a far diventare giganti di golena…
Nazzareno Condina