Lettere

"Quelle prassi sbagliate
e poco umane durante
il mio ricovero ospedaliero"

da Armida Marina Bozzolini

27 anni e 27 giorni di ospedale: gli occhi di un allettato permettono di vedere e sentire cose che una persona nel pieno delle proprie facoltà fisiche non può immaginare, nemmeno con l’impegno. In questi interminabili e nello stesso tempo fugaci giorni di degenza non ancora completamente terminata, i miei occhi hanno assistito a molte ingiustizie e inefficienze; di fronte alle quali non riesco mai e non voglio far finta di nulla, di fronte alle quali la parte più vera e profonda di me si scatena.

Ciò che mi è ruotato attorno per 27 giorni ha tutte le sembianze di una macchina mal funzionate, di un robot programmato senza controlli di routine. Di una macchina che ci vuole sorridenti, silenziosi, accomodanti e comprensivi, sordi e ciechi di fronte all’assenza del rispetto di un diritto, il diritto alla dignità dell’uomo. Ciò che mi è ruotato attorno in questi giorni pare essere il risultato di una “prassi”, come mi è stato detto parecchie volte. Alle mie domande è stato risposto: “Per prassi facciamo così”.

Ma cos’è questa prassi? Il dizionario mi dice: “Modo di procedere adottato, per consuetudine, in un’attività”. È questa ‘consuetudine’ che mi spaventa, la consuetudine è un modo costante di procedere e operare. È la costanza di una consuetudine che mi spaventa, è il procedere ininterrottamente come soldatini senza porsi domande che mi terrorizza, terrorizza il mio infinito entusiasmo di sguardo al futuro.
In questi giorni ho allenato la mia pazienza, la mia empatia, ho compreso che ‘noi’ siamo tanti e ‘loro’ (chi ci assiste) sono pochi.

Ho imparato a ‘disturbare’ poco, solo quando è strettamente necessario: è notte, all’1.50 suono il campanello. Non conosco il decalogo dell’operatore socio sanitario perfetto, ma posso immaginare che i bisogni di un paziente, incapace di essere autonomo, non debbano aspettare certi tempi. Alle 2.15, dopo 25 minuti, trovo assistenza ai miei bisogni. Piccolo aneddoto questo, piccola goccia in un mare inquinato.
Viste come vanno le cose, chi ha scritto questa ‘prassi’ è senza dubbio troppo lontano dagli occhi di chi è a letto, in carrozzina, da chi vorrebbe provare ad alzarsi ma è capitato nelle mani sbagliate, da chi vorrebbe la vita di prima, da chi vorrebbe solo essere lavato meglio.

Di fronte a questo, una sola domanda mi sorge quasi spontanea in questo vortice di emozioni, di desiderio di riscatto e voglia di rivincita per me e per chi ho conosciuto; ogni giorno, quasi impotente, mi sono chiesta: perché, se chi ha scritto la prassi è troppo lontano dagli occhi di chi la subisce, chi esegue la prassi non ha provato ad accorciare quella distanza? Perché chi ha come destinatari del proprio lavoro le Persone, piuttosto che eseguire i compiti al lavoro come se fossero operazioni matematiche, non ha mai provato a volgere uno sguardo sincero verso chi la prassi è costretto a subirla silenziosamente?

E se Tahar Ben Jelloun, trattando il tema del razzismo, affermava: “È trattando gli altri con dignità che si guadagna il rispetto per se stessi”. Io credo non sia possibile eseguire un buon lavoro seguendo ad occhi chiusi una prassi asettica e silenziosa, credo non sia possibile trattare un uomo con dignità se a guidare l’azione verso di lui è la sola formula scritta. E se ad assisterci abbiamo persone incapaci di guadagnare il rispetto per se stessi, il resto ve lo lascio immaginare.

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