Il vescovo Napolioni: "La Pasqua
insegni a rimetterci in cammino"
Un’intervista che spazia dal significato dell’anno giubilare alle crisi internazionali, dagli eccessi indotti dal consumismo, alla città universitaria. Tanti gli spunti di riflessione che emergono dalle parole del vescovo Antonio Napolioni intervistato da Simone Arrighi, direttore di Cremonaoggi.it e CR1, in occasione della Pasqua. Un vescovo che chiede, a un certo punto, di evitare di essere chiamato con l’appellativo tradizionale di “Sua Eccellenza”, perchè sto “insegnando a tutte le parrocchie che va superato”.
In questi mesi, com’è evoluto l’Anno Giubilare 2025?
“Bene, perché quello che ci interessa è l’incontro. L’incontro avviene andando a Roma, ma anche portando una croce in una casa di riposo, incrociando gli sguardi di uomini e donne, anziani, famiglie, bambini che davvero vogliono essere “pellegrini di speranza”, come dice il motto del Giubileo. Rimetterci in cammino, perché la paura paralizza e la speranza rimette in moto. E vedere che c’è tanta gente che non vuole essere spettatrice passiva di un’autodistruzione, ma protagonista di un cammino di cambiamento… forse sono già troppo ottimista, però lo vedo. La fede è il valore aggiunto che Cristo rende possibile per dire ‘Io sono il liberatore, io sono la fonte della speranza’. Quindi abbiamo vissuto davvero dei bei momenti”.
Il pellegrinaggio di speranza verso Roma com’è stato?
“È stato bello, perché è stato un momento di grande comunione tra noi: parrocchie diverse, gente che non si conosceva, tanti sacerdoti, e poi comunione con i pellegrini. Ho sottolineato molto il valore di quelle due ore di attesa per entrare nella Porta Santa. Fare i passi lentamente, educarci al desiderio, preparare il cuore a un incontro, vale più del gesto in sé. Ci ha reinsegnato che la vita è attesa. Si torna a casa non con dei risultati, ma con una riapertura del cuore. Questo l’hanno percepito tutti. Quindi è stata un’esperienza di grazia che poi si rinnova anche nei gesti che compiamo qui, in casa nostra”.
A proposito di gesti, Don Antonio, è stata anche una Quaresima di lavori per la Caritas Cremonese. La Diocesi di Cremona ha vissuto una grande realizzazione con la Casa dell’Accoglienza?
“Sì, mi ha fatto piacere che, andando in una piccola scuola materna, i bambini abbiano regalato le loro offerte per i bambini che saranno accolti nella Casa dell’Accoglienza. Così anche in un’altra parrocchia. Stiamo riuscendo a far capire che non esiste semplicemente un’istituzione che assicura servizi, ma esistono delle comunità che hanno capito di aver bisogno di altri fratelli e sorelle. Non dimentichiamo il calo demografico tremendo che stiamo vivendo, e quindi il bisogno di accogliere famiglie giovani, coppie giovani, bambini anche di altre culture, con i quali costruire il mondo di domani. La Casa dell’Accoglienza è questo laboratorio, questo cantiere di speranza che si deve moltiplicare nel territorio, così che tutte le nostre strutture, anche un po’ decrepite, rivivano. Penso a una parrocchia dove non abbiamo più potuto assicurare il parroco residente: c’è una famiglia che abita alla casa parrocchiale ed è arrivata per dare un segno di speranza a quella comunità. Sono tante le aperture che possiamo compiere, e questo ci mette al lavoro tutti”.
Ha parlato di giovani. Per alcuni, viene considerata una sorta di emergenza, non solo demografica ma anche sociale. Come vede la situazione sul territorio cremonese, anche alla luce dei recenti episodi di cronaca?
“Io chiederei ai media e a chi fa commenti sulla realtà di riproporzionare il giudizio, perché fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce. Il proverbio antico si traduce anche in dati che le autorità preposte alla sicurezza ci hanno fornito. Mi pare si stia esagerando nell’allarme. Con questo non dico che la sicurezza non sia un valore, ma io vedo tanti ragazzi e giovani che vogliono studiare, impegnarsi, che vanno in oratorio. Non saranno gli oratori pieni di 40 anni fa, ma hanno un altro ritmo di vita. Allora siamo noi che dobbiamo abitare fraternamente i loro tempi e spazi di vita, per ascoltare le loro sofferenze, sogni, difficoltà. Hanno bisogno di adulti. Il problema non sono i giovani. Il problema siamo noi adulti”.
Come si sta muovendo la Diocesi di Cremona verso il mondo giovanile, anche in occasione dell’anno giubilare?
“Registriamo segnali anche straordinari. Fra qualche giorno parteciperemo al Giubileo degli adolescenti con più di 800 ragazzi che scenderanno a Roma con due treni speciali. Ma non è solo quel giorno che ci sta a cuore. Ci sta a cuore una quotidianità di rapporto. Non basta delegare al bravo prete giovane. Occorre una rete di famiglie che testimoni una passione educativa puntuale, rispetto alle esigenze dei ragazzi. Dove questo avviene, le comunità rifioriscono. Dove non avviene, si resta a puntellare schemi anacronistici e i giovani vanno altrove. Sarebbe bello che le loro esperienze le vivessero con adulti che li camminano a fianco. Un piccolo sogno: magari a Capodanno, con la comunità di Taizé, riusciremo ad andare a Parigi con un bel gruppo di giovani e adulti”.
Cremona ha davanti una grande sfida, tra pochi mesi, con la nascita del nuovo campus universitario. Come vede questa realtà?
“Sono felicissimo. Mi rallegro per l’intervento della Fondazione Arvedi Buschini, per la sinergia tra università e istituzioni. Venendo da Camerino, dove l’università è la grande azienda del territorio, raccomando alla comunità di non guardare da lontano gli universitari. Devono sentirsi a casa, in una città felice di vederli crescere. Non devono crearsi due mondi: una Cremona universitaria e una Cremona che al massimo li sfrutta economicamente. Cremona deve sposare con entusiasmo questa presenza, senza rinnegare la sua identità. Questa può essere un’occasione di giubileo anche per Cremona”.
Durante il periodo quaresimale, avete attivato iniziative per raggiungere anche chi non poteva partecipare fisicamente alle messe. Ci racconta qualcosa?
“Sì, poi la mattina di Pasqua, come quella di Natale, per me è un momento chiave: l’Eucaristia nel carcere. Lì il bisogno di liberazione interiore e di accoglienza è fortissimo. Guardarsi negli occhi con uomini che hanno vissuto pagine buie ma hanno diritto alla luce… questa è la chiave del Giubileo: non un’autoconsolazione, ma un riscatto della dignità. Non aspettare che vengano, ma andare noi a portare la Buona Notizia, sulle orme di Gesù. Io chiedo perdono perché non lo faccio abbastanza. Ma dobbiamo riprogettarci tutti come “Chiesa in uscita”, come ci chiede il Papa”.
Nella sua omelia della Domenica delle Palme ha citato alcuni casi di cronaca, come l’anziana ludopatica. La preoccupano queste emergenze sociali?
“Mi preoccupa molto questo bisogno di consumo. L’economia fiorisce, ma non si può creare un consumo che distrugge la persona. Creare bisogni falsi, dipendenze. La nostra è una società – o peggio, un mercato – che crea schiavitù moderne. Vendiamo antidepressivi fasulli: dal cioccolato alla droga, dalla dipendenza sessuale a quella digitale. È uno sfruttamento della fragilità umana che abbrutisce. Dobbiamo ribellarci a questo demone. I bambini sono i primi ad essere condizionati. Le forme di introversione nei ragazzi devono preoccuparci. Ben vengano le proposte educative, ma anche correzioni di rotta, anche da parte di chi fa cassa su queste realtà. È scandaloso che nel nostro tempo si debba ancora trattare la donna come strumento di gratificazione erotica, a basso prezzo, e magari con guadagni per lo Stato”.
Guardando a un panorama più ampio, ci sono emergenze planetarie, guerre, conflitti. Come si pone la Chiesa di fronte a queste realtà?
“La Chiesa, per bocca del Papa – e speriamo non solo per bocca del Papa – deve tenere alta la guardia. Bisogna scandalizzarsi per ciò che viene dalle divisioni tra cristiani e religioni. Quando si usa Dio per giustificare l’odio, Dio non può benedire. È una bestemmia. Dobbiamo riproporre le vie del dialogo, della convivenza pacifica. Tra israeliani e palestinesi c’erano tante realtà di convivenza che ora sono bruciate. Ci vorranno decenni per ricominciare. La Chiesa deve riaffermare il disegno di Dio: la fratellanza universale. In paradiso ci saremo tutti insieme. Cominciamo adesso. Un po’ di purgatorio ora, per evitare l’inferno della distruzione e dello spreco in armi”.
Don Antonio, un ultimo pensiero. Un augurio a tutta la Diocesi di Cremona e oltre. Cosa ci insegna la vicenda di Papa Francesco?
“Ci insegna – lo dico con una battuta – che la vita è dura, ma è bella. La Pasqua insegna qualcosa di semplice: c’è il Venerdì Santo, la fragilità, la morte. Ma la morte non deve avere l’ultima parola. C’è una bellezza più grande, una porta che si spalanca. Guardando Papa Francesco, anche le mie pigrizie fanno un esame di coscienza. Mi rinnamoro delle briciole di vita che ho davanti giorno per giorno. È quello che auguro a tutte le nostre famiglie, comunità, persone: non diamo mai l’ultima parola alla fine. Il fine è l’amore, la pienezza del dono di sé. Il Papa ce ne sta dando ancora un bell’esempio”.
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