Il falò di Torricella e il
Carnevale nelle terre del Po

La tradizione nella tradizione, in un mix di cultura e folclore, in terra di fiume. I giorni del Carnevale, celebrato e festeggiato un po’ ovunque con iniziative per grandi e piccoli, portano anche ad un risveglio delle antiche ed ancestrali tradizioni. Come accade a Torricella del Pizzo, la sera del martedì grasso (4 marzo). Infatti, su iniziativa dell’Amministrazione comunale tornerà l’appuntamento con il “Falò di Carnevale” in località “Vecchio Budri”. Un evento aperto a tutti nel corso del quale si potranno anche gustare vin brulè e tanti dolcetti di Carnevale.
Il falò del martedì grasso, quello col quale si “brucia il Carnevale”, è un rito antico dal chiaro significato propiziatorio, posto a segnare la fine dei giorni di festa dando avvio al tempo della Quaresima. In tanti luoghi, un tempo più di oggi, era anche usanza, in tarda serata, suonare il “campanone” delle chiese, con i rintocchi funebri: un modo per avvertire il popolo invitandolo a lasciare i sollazzi carnevaleschi ed a fare ritorno nelle proprie abitazioni per iniziare la penitenza quaresimale.
Torricella del Pizzo si appresta quindi a vivere questo momento tradizionale, ricco di folclore, mentre nella vicina Motta Baluffi, poche ore prima, al pomeriggio, dalle 14.30, inizierà la festa in maschera col raduno delle mascherine in piazza Gaboardi (piazza del Comune) e da qui la sfilata raggiungerà l’oratorio parrocchiale. Il pomeriggio di festa sarà arricchito dall’animazione col gruppo Educational Planet di Cremona con giochi dio gruppo, balli e sfilata delle maschere.
C’è da dire che, da ormai diversi anni a questa parte, in molti luoghi il Carnevale non è più sentito come un tempo; è una di quelle tradizioni che, pian piano, si sono “annebbiate”. Come giustamente scrive Luciano Dacquati nel suo libro Ròbe de na vòolta – Cinque secoli di tradizioni, usanze, proverbi cremonesi, anticamente l’inizio del Carnevale veniva identificato con la festa di sant’Antonio Abate del 17 gennaio e proprio le sfilate di maschere e carri allegorici erano la nota più saliente e chiassosa del periodo carnevalesco, tanto in città quanto nei centri principali.
Già nel Seicento, un cronista annotava che il giovedì grasso i capi davano ai garzoni la paghetta e in città i festeggiamenti iniziavano già quindici giorni prima del martedì grasso con sfilate lungo il corso; l’ultima sera all’Ave Maria si finiva il corso e a mezzanotte della sera di Carnevale suonava la campana maggiore del Torrazzo: da lì finivano i festeggiamenti, e alla gente veniva indicato di astenersi dal mangiare carni e cibi grassi.
Come scrive ancora Dacquati, l’usanza delle sfilate dei carri mascherati si è mantenuta fino a metà Novecento raggiungendo punte di grande intensità tra il 1930 ed il 1940, con i carri che percorrevano i corsi e dall’alto venivano gettate alla gente “purtugai, caramèle e rudelìne de patùna’.” Ancora oggi è Pescarolo il centro che ospita importanti festeggiamenti mentre in tanti piccoli centri le feste sono prettamente locali ma, come nel caso di Torricella del Pizzo, tengono vive usanze e tradizioni.
Senza dimenticare le mascheràade, memorabili spettacoli che venivano proposti nelle stalle che, un tempo, erano dei veri e propri centri di aggregazione per tante persone che passavano, nelle stalle stesse, intere serate. C’erano mascheràade che richiedevano diversi attori e molto spazi e, per questo, venivano realizzate nelle stalle maggiori, quelle più grandi, che ospitavano rappresentazioni anche di una certa importanza. Tra le diverse rappresentazioni “ripescate” da Luciano Dacquati c’erano la mascheràada dèla fritula, la mascheràada ddèla vàca mòra, la mascheràada del barbeer: tutte iniziative legate alla campagna mentre in città, durante il tempo del Carnevale, si teneva una stagione operistica che era tra le maggiori del Nord Italia.
Carnevale, da sempre, è anche stagione di dolci; tra quelli tipici del cremonese è giusto ricordare i camàandoi, le latuughe, le frìtule e la bertulìna. Quest’ultima è decisamente diventata una rarità ed è realizzata prendendo un po’ di unto, una cipolla, un po’ di sale, un po’ di brodo con dentro gli avanzi della minestra, due o tre fette di polenta, poca farina bianca, una certa quantità di farina gialla, la scorza grattugiata di un limone, un po’ di zucchero; quindi si unge la padella nel camino, con sotto la cenere ben calda e sopra le braci, in modo da avere una cottura lenta ed uniforme. Il meglio sarebbe nell’avere un canino ma ci si può accontentare anche di un forno a gas (con buona pace della bolletta) tenuto a bassa temperatura. Si tratta di specialità tanto gustose quanto genuine nate dalle mani sapienti delle nostre madri e nonne; quelle stesse mani che un tempo, con poche cose, sapevano realizzare bellissimi costumi, sempre originali, diversi tra loro, fatti con amore e passione.
Oggi, nella società attuale, segnata da disarmanti banalità e da fatti puntualmente scontati, nessuno vuole più trovare il tempo per confezionare un costume da Carnevale. Le masse, sempre quelle purtroppo, preferiscono ammucchiarsi nei baracconi in cemento e portare a casa maschere e costumi tutti uguali, tutti scontati, tutti banali, purtroppo.
Passando infine ai detti, ecco quello celebre secondo il quale “Carnevàal bàs, se marìida totii zgalbàs” che significa: che quando carnevale comincia presto anche gli uomini e le donne brutti riescono a trovare marito (o moglie).
Fra detti e proverbi, usanze e tradizioni, folclore e cultura, la tradizione del falò di Torricella del Pizzo porta a rievocare pagine di storia del passato, guardando al futuro e con la speranza, chissà, che col tempo entrambe le rive, la sera del martedì grasso, si possano illuminare con i falò di Carnevale rimarcando, ancora una volta, che il fiume deve unire e mai dividere.
Paolo Panni – Eremita del Po