Cultura

Nelle terre del grande fiume: santi
tradizione e saggezza popolare

Nelle terre del Grande fiume, sull’una e sull’altra riva, le nevicate da qualche anno a questa parte sono ormai diventate un fatto raro e limitato a qualche sporadica spruzzata. Lo scorso fine settimana si è rivista la galaverna, che al primo raggio di sole si è rapidamente disciolta e ben altra cosa erano gli inverni di un tempo quando le temperature scendevano abbondantemente sotto zero e nevicate abbondanti, anche nelle fertili terre tra l’Oglio e il Po, non erano certo una rarità e, in più di un caso, iniziavano sin dalla fine di ottobre e si protraevano fino a marzo inoltrato, facendo per altro bene alla terra.

Sono cambiati i tempi ed è cambiato anche il clima. Sono soltanto un ricordo, ormai, gli inverni con le famiglie contadine radunate nella stalla o intorno al focolare domestico, mentre sui vetri delle finestre si formavano i fiori di ghiaccio a causa delle temperature esterne decisamente rigide (quelli sì che erano inverni polari o siberiani per usare termini che oggi, assolutamente a sproposito, si utilizzano in alcuni titoli a dir poco sensazionalistici e fuorvianti); sembra non andare più nemmeno di moda leggere una bella fiaba ai bambini per farli addormentare e sono finiti nelle soffitte i vecchi scaldini, vale dire i preti con le padelle che si usavano per mettere il fuoco a letto come dicevano i nostri nonni.

Nelle abitazioni, nelle cascine e nelle corti rurali, fino ad alcuni decenni fa non esisteva il riscaldamento capace di portare il caldo in tutta la casa. La grande cucina solitamente aveva il camino e il fuoco scaldava solo quell’ambiente che diventava, per molti mesi all’anno, il cuore della casa.

In tavola pochi e poveri pasti, pieni di genuinità, nati da mani sapienti e generose, frutto di antichi saperi con le radici affondate nella notte dei tempi. Qualche fetta di polenta, il pane fatto in casa, magari una zuppa e, nel migliore dei casi, un po’ di salame, una minestra che i nostri nonni allungavano col vino rosso nato dai vecchi filari.

In qualche caso, la canna fumaria in muratura che attraversava in verticale le camera del piano superiore, dava un po’ di tepore, che nelle ore delle notti invernali lentamente scemava. Ecco che per togliere il gelo alle lenzuola, nelle stanze da letto, sempre fredde, si usava il prete, telaio di legno da infilare sotto le lenzuola e le coperte, nel quale si appoggiava la suora, o padellina colma di braci nascoste nella cenere per non provocare rischi di incendi e per non far dipanare nell’ambiente eccessive quantità di fumo.

C’era naturalmente un prete per ogni letto e, di solito, dopo cena si incaricava sempre qualcuno di sistemare il tutto nei letti. Azione che nessuno voleva fare, perchè non era piacevole salire con la candela o una piccola lucerna lungo scale fredde e buie.

Le braci, e a questo punto è doveroso precisarlo, erano quelle date dalla legna, il più antico e naturale combustibile al mondo, posta nei camini e nelle stufe. Cosa che oggi qualche scienziato dell’ultima ora, almeno in terra emiliana, da qualche tempo ha pensato di vietare sostenendo che l’uso di camini e stufe a legna creerebbe inquinamento. Ogni commento su queste povere menti tutt’altro che illuminate è da considerarsi profondamente superfluo per non scadere nell’offesa (che sarebbe inevitabile) a carico di chi, forse nottetempo, partorisce certe facezie.

Se è vero che la natura prima o poi si riprende i suoi spazi e mette tutto a posto, c’è da sperare vivamente che metta a posto anche la mente di chi, in modo inaudito oltre che ridicolo, tenta vanamente di sostenere che la legna creerebbe inquinamento e fa in modo di persuadere la gente a suon di minacce di multe e sanzioni varie perché oggi, del resto, il comportamento dei politicanti, dilettanti allo sbaraglio, è quello di sistemare i bilanci facendo cassa in ogni modo, anche multando chi utilizza i cosiddetti rimedi naturali (come quello della legna per scaldarsi). Sostenere che la legna inquina e si dovrebbero utilizzare metodi moderni e dispendiosi fa pensare alla malafede, più che all’ignoranza, di chi porta avanti queste idee.

Sono dunque, purtroppo, cambiati i tempi, sono cambiate le persone con ruoli di responsabilità (obiettivamente non si vedono persone, dall’una e dall’altra parte, vagamente capaci di saper gestire le sorti e il futuro di un Paese sempre più allo sbaraglio e in mano a poteri esteri); sono cambiati i comportamenti ed è anche cambiata la gente, sempre più abituata a seguire convintamente la massa senza mai provare ad usare la ragione e sempre più interessata ad argomenti di poco conto che vengono propinati sui vari teleschermi, anziché provare a chiedersi quali sono i veri problemi che oggi dilaniano la società e mettono sul lastrico (questo sì) sempre più persone.

Piccola considerazione: se si tornasse a usare il prete per scaldarsi anziché lo scaldasonno, se si usassero stufe e camini a legna (andarsi a fare la legna d’estate magari fa anche bene ed è una buona palestra) anziché moderni marchingegni a luce o a gas; se si tornasse a fare la pasta a mano anziché utilizzare diavolerie elettriche; se si usassero le vecchie stufe e cucine economiche a legna invece di quelle a lice e a gas, forse i bollettoni che arrivano di questi tempi subirebbero un considerevole calo a beneficio delle tasche di tutti.

Difficile vero farsi queste domande? C’è da sperare che si possano tutelare almeno le tradizioni, le identità delle nostre terre come patrimonio irrinunciabile, inalienabile, di inestimabile valore.

Una di queste tradizioni ce la siamo appena lasciata alle spalle ed è quella di Sant’Antonio Abate, celebrato sull’una e sull’altra riva del Po e dell’Oglio con numerose iniziative tra sacro e profano, tutte accomunate tra loro dal loro valore antico, immerso nei saperi di un tempo.

Tra benedizioni di animali, del sale e del pane, cene e pranzi a base di gnocchi e altre specialità della festa, la ricorrenza di Sant’Antonio Abate, in numerose località è stata rispettata e rinnovata con una buona partecipazione di persone celebrando così uno dei cosiddetti santi Mercanti della neve.

Questi devono il singolare nome al fatto che, i giorni in cui si ricordano, erano solitamente, in passato, quelli più nevosi dell’anno, ma anche quelli che aprono le porte ad uno spiraglio di primavera. Una tradizione antica che rimanda al grande, speciale e genuino mondo dei contadini, i quali, privi delle previsioni meteo, avevano il loro almanacco legato al calendario ma anche ai mutamenti climatici stagionali dei loro territori.

Tra i Mercanti della neve, Sant’Ilario celebrato il 13 gennaio, patrono della città di Parma; San Mauro (15 gennaio) col detto “San Màur, un frad dal diaul”; Sant’Antonio Abate (17 gennaio), col motto “Sant Antoni, un frad dal demòni” e San Sebastiano (20 gennaio) con i detti “San Sebastian, un frad da can” e “San Sebastian, un’ira in man”.

In occasione di queste ricorrenze si usano spesso i falò (altra cosa che rischia purtroppo di scomparire a causa di quelle menti non illuminate che sostengono la facezia secondo la quale la legna, del tutto naturale, inquinerebbe) simboleggiano la volontà di bruciare il vecchio e il negativo ma, secondo altri usi, anche il gettare tra le fiamme una lista dei desideri da benedire con il fuoco. Un modo anche per celebrare o per “accelerare” la fine dell’inverno.

Da non dimenticare anche quel vecchio detto che recita: “Sant’Antonio dalla barba bianca, se non piove la neve non manca”. Trascorsa, da pochi giorni, una delle più celebri ricorrenze invernali, ecco arrivare, il 20 gennaio, quella di San Sebastiano. Santo che, secondo la tradizione popolare ha “la viola in mano”, come a voler indicare l’intravedersi dei primissimi segni della primavera (con uno dei fiori che maggiormente la simboleggiano).

Stando sempre alle tradizioni dei nostri vecchi, si dice che per San Sebastiano le galline ricomincino a deporre le uova mentre per Sant’Agnese (21 gennaio), annoverata come Sant’Antonio e San Mauro tra i Mercanti della neve, il freddo è per le siepi e per San Vincenzo (22 gennaio) l’inverno mette i denti. Per Sant’Emerenziana (23 gennaio) se non piove il grano è a rischio e per San Francesco di Sales e San Feliciano (24 gennaio) se non piove fa poco grano. Tanto per restare in tema meteorologico, il 25 gennaio, per la Conversione di San Paolo, se è sereno ci saranno buoni raccolti; se piove o nevica ci sarà la carestia; in caso di nebbia sarà l’annuncio, purtroppo, di una moria di animali e se ci sarà la tempesta, addirittura, sarà annunciatrice di una guerra tra i popoli.

Arrivano poi, dal 29 gennaio al primo febbraio, i famigerati Giorni della merla, ritenuti, per la sapienza popolare, i più freddi dell’anno. Proprio nel cremonese è antica tradizione quella dei cosiddetti Canti della merla. In particolare a Cornaleto, Crotta d’Adda, Formigara, Gombito, Pizzighettone, Soresina, San Bassano, Trigolo, e altri, da sempre, si usa riunirsi dinnanzi a un grande falò o sul sagrato di una chiesa o in riva al fiume Adda, a seconda della tradizione, per intonare insieme al coro abbigliato con abiti contadini (le donne con gonna e scialle, gli uomini con tabarro e cappello) e degustare vino e cibi tradizionali.

I testi delle canzoni differiscono leggermente da un paese all’altro, ma mantengono come denominatore comune i temi dell’inverno e dell’amore. Chissà che questa tradizione non possa essere ripresa, allargandosi anche al Grande fiume, coinvolgendone entrambe le sponde. Auspicio che era già stato espresso un paio di anni fa, naturalmente inascoltato (nulla di cui stupirsi).

In Febbraio ecco arrivare, il 2, la festa della Candelora (la Presentazione di Gesù al Tempio), evento che si ritenga segni, per lo più, la fine dell’inverno. E’ per altro in questa occasione, in realtà, che andrebbero smontati i presepi che invece, un po’ tutti, sbagliando, hanno tolto in fretta e furia dopo l’Epifania.

Dal punto di vita pagano la Candelora ha a che vedere con la purificazione e con i riti propiziatori per la fertilità della terra e rientra a pieno titolo tra gli otto Sabba (Shamain, Yule, Imbolc, Oestara, Beltane, Litha, Lammas e Mabon) che sono le principali festività del nostro calendario in cui vengono celebrati i solstizi, gli equinozi e altre ricorrenze legate alla Natura (a cui si sovrappongono le festività religiose).

La Candelora è festeggiata il 2 febbraio, proprio perché, in base al calendario astronomico, questo è il giorno che fa finire l’inverno e che inaugura la primavera.

E’ quindi un momento di passaggio, tra l’inverno/buio/”morte” e la primavera/luce/risveglio. Un celebre proverbio, citato anche da San Giovanni Paolo II, dice “Candelora dell’inverno semo fora”, ossia il 2 febbraio l’inverno può considerarsi finito. Il proverbio però continua “Ma se piove e tira vento, dell’inverno semo dentro”, vale a dire che se il 2 febbraio il tempo è brutto, l’inverno durerà almeno un altro mese.

In questo senso la Candelora è anche legata ad alcune feste di origine agreste, in molti Paesi europei, infatti, si cucinano piatti specifici, che vengono offerti alla natura o alle fate, come in Francia. Il primo antichissimo proverbio latino sulla Candelora dice: “Si Purificatio nivibus – Pasqua floribus Si Purificatio floribus . Pasqua nivibus”. Significa cioè che se il 2 febbraio è freddo e nevoso, la Pasqua sarà bella. Se invece il 2 febbraio fa bel tempo, a Pasqua nevicherà. Quella della Candelora, meglio conosciuta, sull’una e sull’altra riva del Po come la Sarjòla è da sempre un appuntamento molto sentito nelle nostre campagne.

E’ sempre stata convinzione diffusa il fatto che la candela ricevuta dal sacerdote, una volta portata a casa, possa esercitare benefici influssi contro le forze del male. Anche per questo la si è sempre utilizzata al capezzale dei moribondi, accendendola inoltre per la nascita di un bimbo. Ripetendo ed emulando il rito che si svolge in chiesa per la festa di San Biagio, protettore della gola, il più anziano/a della famiglia, fin dai tempi antichi, incrociava due candele benedette, a digiuno, poggiandole all’altezza della gola di chi manifestava dolori, facendogliele baciare in segno di devozione. D’estate, in occasione di temporali, per evitare grandinate, inoltre si è sempre bruciato l’ulivo benedetto la Domenica delle Palme utilizzando la candela della Sarjòla. Ma anche le bestemmie sono sempre state immunizzate da eventuali epidemie con la stessa candela.

Passata la ricorrenza della Candelora, il giorno seguente (3 febbraio) ecco un altro appuntamento legato ad un Santo tipicamente invernale, anche lui annoverato tra i Mercanti della neve: San Biagio, venerato tanto in Oriente quanto in Occidente, ben popolare anche tra le due rive del Grande fiume. Popolarissimo e diffuso, per questa ricorrenza come dicevamo poc’anzi, è il rito della benedizione della gola, fatta dai sacerdoti poggiandovi due candele incrociate oppure ungendola e facendo una croce con l’olio benedetto, sempre invocando la sua intercessione.

Altra tradizione legata a questa ricorrenza è quella di mangiare il panettone di San Biagio. Per l’occasione, e per rispettare la ricorrenza, il panettone dovrebbe essere quello avanzato dopo le recenti festività natalizie. Due giorni più tardi, il 5 febbraio, la festa di Sant’Agata va, in qualche modo, a suggellare il carnet dei santi invernali e dei mercanti della neve . Mentre il sonno della fertile terra padana continua, tutte queste tradizioni possano vivere e rifiorire. I Santi dell’inverno, tra devozione e folclore, misteri e leggende, fede e genius loci, possano accompagnare e illuminare le nostre giornate e rinsavire le menti, piuttosto annebbiate, di chi è chiamato a prendere decisioni.

Siano celebrati sempre, questi santi, sull’una e sull’altra riva del Grande fiume, affinchè le tradizioni ed i saperi popolari possano continuare a risplendere nei nostri giorni, nel nostro agire, nelle nostre terre e nella nostra quotidianità di gente della fertile campagna tra l’Oglio e il Po.

Eremita del Po, Paolo Panni

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