Chiesa

Domani é Sant'Antonio Abate:
tra festa, tradizioni e storia

Possa il glorioso Sant’Antonio Abate, fondatore del monachesimo cristiano, primo degli abati ma anche uno dei più illustri anacoreti della storia della Chiesa, illuminare la mente di chi, forse per far piacere ad amici e parenti, intende portare avanti scelte e iniziative che nulla hanno a che vedere con i saperi e con le ricchezze ereditate dai nostri padri

Riposano, almeno in apparenza, le campagne sull’una e sull’altra riva del Grande fiume, tra l’Oglio e il Po. Nell’attesa dei nuovi raccolti e di tornare a sentire il canto dei grilli e delle cicale, si ritrovano unite ancora una volta bel segno della fede, del folclore della tradizione, per celebrare la ricorrenza di Sant’Antonio Abate, uno dei momenti più sentiti ed attesi (se non il principale) tra le popolazioni contadine.

Una ricorrenza fatta di ritualità che si dipanano tra il sacro ed il profano, fatta di una fede popolare che affonda le sue radici nella cosiddetta notte dei tempi. Una tradizione antica, costellata di saperi, ma anche di simboli, leggende e tradizioni, tutte legate al celebre santo protettore degli animali domestici, del bestiame, del lavoro del contadino, del fuoco e delle malattie della pelle.

La festa forse più popolare e più antica di quelle celebrate nelle campagne che si distendono tra le due sponde del Grande fiume, una di quelle tradizioni sempre rimaste vive tra le popolazioni delle nostre campagne, ma che certamente meriterebbe di essere valorizzata e promossa, anche per unire le popolazioni rivierasche del Po.

In ogni caso, una giornata sempre molto attesa e sentita nelle nostre campagne; l’occasione per sottolineare, una volta in più, il valore e l’importanza della nostra agricoltura, ma anche quella straordinaria passione e quella speciale cura con cui gli agricoltori seguono i propri allevamenti, l’importanza del loro lavoro che assicura cibo e benessere alle nostre comunità, nonostante decisioni, spesso insensate se non addirittura scellerate compiute a livello europeo da coloro che vorrebbero promuovere cibi sintetici ed altre diavolerie, a scapito dei nostri prodotti d’eccellenza, calpestando e insultando il lavoro di quegli agricoltori che, spesso portando avanti tradizioni secolari delle loro famiglie, lavorano notte e giorno, senza sosta per il bene delle nostre terre.

Possa il glorioso Sant’Antonio Abate, fondatore del monachesimo cristiano, primo degli abati ma anche uno dei più illustri anacoreti della storia della Chiesa, illuminare la mente di chi, forse per far piacere ad amici e parenti, intende portare avanti scelte e iniziative che nulla hanno a che vedere con i saperi e con le ricchezze ereditate dai nostri padri.

Attingendo, a piene mani, fra le tradizioni, è doveroso ricordare che già per la vigilia di questa ricorrenza, e quindi il 16 gennaio, è sempre stata una speciale usanza quella di pulire attentamente la stalla, i pollai, i giacigli e le gabbie degli animali. Una sera, quella della vigilia appunto, in cui è meglio non restare ad ascoltare gli animali perché si dice che parlino tra loro confidandosi anche i maltrattamenti e le crudeltà degli uomini. Crudeltà che, purtroppo, in questi giorni solo per altro salite apertamente e tristemente alla ribalta.

Sono parole arcane, segrete, difficili da comprendere: per questo non vanno ascoltate e gli animali non devono essere disturbati; anche perchè si racconta che nei secoli passati, chi l’ha fatto, sarebbe poi morto. Sempre per la vigilia, un tempo, anche il contadino più miscredente celebrava un rito singolare accendendo un cero di fronte all’immagine del santo nell’edicola a lui dedicata e posta, abitualmente, sopra l’ingresso principale delle stalle, recitando un rosario seguito da specifiche giaculatorie mediante le quali veniva invocata.

Su tutte le famiglie di animali, di grande come di piccola taglia, suino incluso, esistenti nella sua proprietà, una specie di protezione del santo stesso. A lui si chiedeva inoltre di difendere tutti, la casa e le cose, specie il fienile (una delle ragioni per cui, generalmente, nelle immagini del santo compare anche il fuoco).

Nel giorno del Santo (17 gennaio) è quindi usanza, in numerose località, benedire gli animali, le stalle e gli allevamenti, oltre al sale e al pane (di cui si ciberanno poi gli animali) durante le cerimonie religiose. Tante sono le località in cui i parroci si recano di persona, nelle aziende agricole e negli allevamenti, per impartire la benedizione. Per Sant’Antonio, va ricordato, non si devono uccidere gli animali, e quindi ci si è sempre guardati bene dall’immolare, ad esempio, una gallina o un coniglio.

Chi lo ha fatto, sempre secondo la tradizione, avrebbe visto ben presto i propri allevamenti decimati da qualche epidemia. La sera di Sant’Antonio, anche e soprattutto in terra lombarda, sono poi famosi i falò propiziatori che vedono mescolarsi tradizione sacra e pagana. I falò simboleggiano la volontà di bruciare il vecchio e il negativo ma, secondo altri usi, anche il

gettare tra le fiamme una lista dei desideri da benedire con il fuoco. Un modo anche per celebrare o per “accelerare” la fine dell’inverno. La ricorrenza del celebre asceta è da sempre accompagnata da una serie di riti molto antichi, legati strettamente alla vita contadina, che fanno di Antonio Abate un vero e proprio “santo” del popolo.

Santo notoriamente considerato anche come protettore contro le epidemie di certe malattie, sia dell’uomo, che degli animali. E’ invocato, in particolare, come protettore del bestiame ma anche per scongiurare gli incendi, e non a caso il suo nome è legato ad una forma di herpes nota come “fuoco di Sant’Antonio” o “fuoco sacro”. Antonio Abate è anche considerato il patrono del fuoco e diversi riti che riguardano la sua figura testimoniano un forte legame con le culture precristiane, soprattutto quella celtica.

E’ nota infatti l’importanza che rivestiva presso i Celti il rituale legato al fuoco come elemento beneaugurante. Nato a Coma, nel cuore dell’Egitto, intorno al 250, a vent’anni abbandonò ogni cosa per vivere dapprima in una plaga deserta e poi sulle rive del Mar Rosso, dove condusse vita anacoretica per più di 80 anni: morì, infatti, ultracentenario nel 356. Già in vita accorrevano da lui, attratti dalla fama di santità, pellegrini e bisognosi di tutto l’Oriente. Anche l’imperatore Costantino e i suoi figli, pare, ne cercarono il consiglio. La sua vita è raccontata da un discepolo, sant’Atanasio, che contribuì a farne conoscere l’esempio in tutta la Chiesa. Per due volte lasciò il suo romitaggio. La prima per confortare i cristiani di Alessandria perseguitati da Massimino Daia. La seconda, su invito di Atanasio, per esortarli alla fedeltà verso il Concilio di Nicea.

I suoi discepoli tramandarono alla Chiesa la sua sapienza, raccolta in 120 detti e in 20 lettere; nella Lettera 8, Sant’Antonio scrisse ai suoi “Chiedete con cuore sincero quel grande Spirito di fuoco che io stesso ho ricevuto, ed esso vi sarà dato”.

Nel 561 fu scoperto il suo sepolcro e le reliquie cominciarono un lungo viaggiare nel tempo, da Alessandria a Costantinopoli, fino in Francia nell’XI secolo a Motte-Saint-Didier, dove fu costruita una chiesa in suo onore. In questa chiesa a venerarne le reliquie, affluivano folle di malati, soprattutto di ergotismo canceroso, causato dall’avvelenamento di un fungo presente nella segala, usata per fare il pane.

Il morbo era conosciuto sin dall’antichità come “ignis sacer” per il bruciore che provocava; per ospitare tutti gli ammalati che giungevano, si costruì un ospedale e una Confraternita di religiosi, l’antico Ordine ospedaliero degli “Antoniani”; il villaggio prese il nome di Saint-Antoine di Viennois. Il Papa accordò loro il privilegio di allevare maiali per uso proprio e a spese della comunità, per cui i porcellini potevano circolare liberamente fra cortili e strade, nessuno li toccava se portavano una campanella di riconoscimento. Il loro grasso veniva usato per curare l’ergotismo, che venne chiamato “il male di s. Antonio” e poi “fuoco di s. Antonio” (herpes zoster); per questo nella religiosità popolare, il maiale cominciò ad essere associato al grande eremita egiziano, poi fu considerato il santo patrono dei maiali e per estensione di tutti gli animali domestici e della stalla.

Nella sua iconografia compare oltre al maialino con la campanella, anche il bastone degli eremiti a forma di T, la “tau” ultima lettera dell’alfabeto ebraico e quindi allusione alle cose ultime e al destino. Nel giorno della sua festa liturgica, si benedicono le stalle e si portano a benedire gli animali domestici; in alcuni paesi di origine celtica, Sant’Antonio assunse le funzioni della divinità della rinascita e della luce, Lug, il garante di nuova vita, a cui erano consacrati cinghiali e maiali, così s. Antonio venne rappresentato in varie opere d’arte con ai piedi un cinghiale. Altro aspetto molto importante è la devozione nei confronti del santo per la guarigione de quella dolorosa malattia comunemente nota come “Fuoco di Sant’Antonio”. Una malattia per altro piuttosto comune, così chiamata perchè per la guarigione veniva invocato Sant’Antonio Abate al quale, da sempre, sono riconosciute potenti capacità taumaturgiche. Il cosiddetto Fuoco di Sant’Antonio è l’herpes zoster, ovvero una malattia virale che interessa la cute e le terminazioni nervose.

Lo scatenarsi del fuoco di Sant’Antonio sembra avere come causa la riattivazione del virus della varicella infantile. Quando si viene infettati per la prima volta dal virus, spesso da bambini, si sviluppa la varicella; successivamente il virus permane nell’organismo in uno stato di latenza e può riattivarsi (ad esempio in caso di stress o di eccessiva esposizione al sole) portando allo scatenarsi del Fuoco di Sant’Antonio.

Trattandosi dello stesso virus della varicella, è necessario prestare attenzione a non entrare in contatto con soggetti con eruzione da fuoco di Sant’Antonio, soprattutto se si rientra in categorie a rischio come bambini piccoli, donne in gravidanza e pazienti immunodepressi: se non si è già immuni alla varicella (per vaccinazione o per infezione precedente) si rischia di contrarla.

Se invece si ha già avuto la varicella o si è stati vaccinati, non c’è pericolo ad entrare in contatto con un soggetto con Fuoco di Sant’Antonio. Nel nome Herpes Zoster si ritrovano parte di quelli che sono i sintomi principali. Le due parole tradotte dal greco significano “serpente” e “cintura” e descrivono appunto quella che è una malattia dolorosa. Il fuoco di Sant’Antonio è paragonabile ad un serpente di fuoco che si annida all’interno del corpo, presenta strascichi lunghi e invalidanti. Si manifesta attraverso una vera e propria eruzione cutanea molto dolorosa fatta di vescicole e nella maggior parte dei casi interessa solo un lato del corpo. Tuttora il celebre asceta è invocato per la guarigione da questa malattia.

Senza dimenticare poi i detti popolari, uno su tutti “Par Sant’Antoni Abà, un’ura sunà”, a significare l’allungamento significativo che le ore di luce hanno ormai subito dalla notte del solstizio del 21 dicembre. Tanti altri sono poi i detti che, da sempre, si tramandano in terra cremonese e casalasca:”Per Sant Antòni se cùr i serióoi se inpiena li bùti e i benasòoi” (Se piove per S. Antonio ci sarà una vendemmia abbondante); “Sant Antòni el fà i póont e San Pàaol el i a ròomp” (Per S. Antonio si fanno i ponti di ghiaccio, ma durano poco: infatti per S. Paolo – 25 gennaio – si scioglieranno); “Per Sant Antòni dèla bàarba biàanca se ghè mìia giàs, la néef ne la màanca” (in questo caso c’è la conferma della rigidità di metà gennaio: se non c’è ghiaccio, certo non manca la neve); “Acqua de fòs, acqua de bìs, Sant Antòni la benedìs” (graziosa e breve preghiera che rivolgevano i contadini assetati che bevevano l’acqua di un fosso: S. Antonio, protettore degli animali, garantiva ad essi che non fosse avvelenata); “Sàant Antòni dèla bàarba bianca, fàme truàa chél che me màanca” (S. Antonio Abate, tra le sue tante doti, era ritenuto capace anche di far trovare le cose smarrite); “Sàant Antòni gluriùus; fìi végner bòon el me murùus che l’è rabìit tama ’n demòni, fème ’sta gràsia, Sàant Antòni” (Altra qualità dell’Abate era quella di far tornare la pace tra gli amanti arrabbiati); “Sàant Antòni chisulèer, el vèen al dersèt de genèer: in che méès végnel?” (indovinello che si faceva ai bambini cercando di confonderli). Fra tradizione e folclore, fede e cultura, diversi sono gli appuntamenti in programma, in occasione di questa ricorrenza, nelle terre tra l’Oglio e il Po. Per citarne alcune ecco che a Stagno Lombardo mercoledì 17, alle 19, in chiesa sarà celebrata la messa seguita dalla cena nel salone dell’oratorio mentre in giornata il parroco benedirà gli allevamenti.

A Isola Dovarese, sempre mercoledì 17, il parroco passerà nelle stalle per la benedizione degli allevamenti mentre la benedizione degli animali domestici si terrà sabato, 20 gennaio, alle 16.45, sul sagrato della chiesa mentre dalle 19 in poi, in oratorio, si terrà la festa di Sant’Antonio Abate con serata gastronomica. Sulla sponda emiliana del Grande fiume, a Vidalenzo di Polesine Zibello, mercoledì 17, su iniziativa dei monaci benedettini “Custodi del Divino Amore”, alle 16 sarà recitato il rosario seguito, alle 16.30, dalla messa mentre domenica 21, alle 10.30, durante la messa domenicale si terrà la benedizione del pane e degli animali. Diversi gli appuntamenti in programma poi nell’Unità pastorale di Pieveottoville, Ragazzola e Stagno Parmense: mercoledì 17 gennaio messeaalle 10 nell’oratorio di sant’Antonio Abate a Pieveottoville e, alle 16.30, benedizione degli animali in piazza, sempre a Pieveottoville. Lo stesso giorno e anche giovedì 18 gennaio il parroco don Benjamin Ayena benedirà le aziende agricole e gli allevamenti. Infine, domenica 21 gennaio, nelle parrocchie di Pieveottoville, Ragazzola e Stagno, al termine delle messe festive si terrà la benedizione degli alimenti per gli animali. A Mezzano Rondani sarà celebrata la messa alle 10 mentre a Vedole, sabato 20 gennaio,

alle 15.30 sarà celebrata la messa seguita dalla benedizione degli animali mentre mercoledì 17 i sacerdoti della zona di Mezzani passeranno a benedire stalle e animali. A Colorno, sabato 20, alle 20.45, nella Sala Juventus, appuntamento con la tradizionale “Tombola di Sant’Antonio”. A Busseto, nella collegiata di San Bartolomeo,, nella quale è esposta una bellissima statua lignea del Santo vestito con paramenti da abate mitrato secondo i costumi liturgici medioevali, la messa sarà celebrata mercoledì 17 gennaio alle 7.15, 10.30 e 18 con la benedizione del sale. A quest’ultima funzione seguirà la processione con le fiaccole fino alla sede degli Alpini, dove sarà impartita la benedizione ai trattori e agli animali. Gli Alpini offriranno ai partecipanti un piatto di gnocchi.

Nel pomeriggio alle 15, 16 e 17 sul sagrato della collegiata saranno benedetti gli animali domestici. Come ogni festa che si rispetti non può nemmeno mancare il lato gastronomico. Piatto forte di questa tradizione sono gli gnocchi. A Zibello da qualche anno ormai hanno preso forza gli gnocchi aperti, un piatto davvero gustoso nato dalla sapienza popolare e “protetto” oggi da un marchio comunale. Gli gnocchi aperti sono molto simili alle orecchiette, ma a differenza della pasta pugliese qui c’è anche la farina oltre alla semola. Dalla loro forma, originata da un movimento sapiente ed esperto. quindi, il nome. Le specialità gastronomiche per il 17 gennaio sono comunque numerose e in gran parte d’Italia questo è il giorno in cui si benedicono pani e panini, che garantiscono protezione dalle malattie.

Nelle ricette per sant’Antonio Abate che si preparano nel giorno di festa dominano carne e cotiche di maiale In alcune zone della Lombardia (nel Pavese, ma anche nel Lodigiano) si preparano le offelle, biscotti dalla tipica forma ovale fatti da un impasto di ingredienti genuini come farina di frumento, uova, burro, zucchero e olio d’oliva. Nel Bresciano il 17 gennaio è il giorno del Chisöl, una sorta di ciambella che mette insieme la friabilità della torta sbrisolona e la morbidezza delle classiche torte da forno, originariamente cotta in una pentola sulle braci e fondamentale, secondo la leggenda, anche per scongiurare il rischio di incidenti domestici in caso di nevicate; inoltre, sempre dalla Lombardia due tipi di tortelli, i tortelli fritti (simili a castagnole) e i tortelli di sant’Antonio, che invece ricordano i bocconotti meridionali. In Emilia Romagna spiccano inoltre le ciabatte di sant’Antonio Abate (biscotti a forma di calzari fatti con frolla chiara e frolla al cacao, decorati con gocce di cioccolato o glassa).

Ci sono poi le cosiddette note dolenti, dato che in alcune località questa festa, sempre molto sentita, negli anni ha perso vigore per le cause più disparate. A Santa Croce di Polesine Zibello, ad esempio, pur trattandosi di festa votiva, da anni è finita nel dimenticatoio e nulla viene organizzato. A Zibello la statua del fondatore del monachesimo giace in una vecchia soffitta della chiesa parrocchiale ed è stata tirata fuori, in via eccezionale, ormai diversi anni fa quando il santo è stato utilizzato per assumere le sembianze di San Giuseppe (ruolo al quale, ci sia consentito, ha assolto sicuramente con piacere) in un presepio a grandezza naturale, divenuto però una “meteora”, durato un solo anno e soppiantato da un nuovissimo e più semplice presepio con statue “made in China”, con buona pace del vecchio e grande presepio meccanico finito, a sua volta, in soffitta. Va addirittura peggio in terra cremonese dove, da anni, versa in totale disuso la bella chiesa di Sant’Antonio d’Anniata. Edificio, questo, che spicca sulla via Mantova, a fianco del quale sfrecciano tutti i giorni migliaia e migliaia di mezzi. Chissà se coloro che sono alla guida sanno di transitare a ridosso di un luogo dalla storia bella e significativa. Chissà se qualcuno, mercoledì 17, si fermerà almeno per deporre un lume di fronte alla chiesa ridando “vita”, almeno per un giorno, al luogo nella ricorrenza del santo titolare. Al momento pare che gli unici ad avere in considerazione questo luogo sono i fotoamatori appassionati di posti abbandonati che, in qualche occasione, si sono fermati per immortalarlo. Un modo, questo, per averne almeno una semplice memoria fotografica. Con l’auspicio che, col tempo, possa essere rivalutato e tornare al suo originario utilizzo. La località, pur nelle sue modeste dimensioni, ha appunto una storia rilevante.

Va ricordato che nel 1451 Sant’Antonio d’Anniata è elencato, con la denominazione Villa Daniata, tra le “terre” del territorio cremonese e godeva di esenzioni fiscali, in quanto “tenuta” dal precettore dell’abbazia di Sant’Antonio (Elenco comuni contado di Cremona, 1451). Sant’Antonio d’Anniata è elencato tra i comuni del Contado di Cremona nel 1562 (Repertorio scritture contado di Cremona, sec. XVI-XVIII) ed elencato sempre tra i comuni del Contado nel 1634 (Oppizzone 1644).

Nel “Compartimento territoriale specificante le cassine” del 1751 Sant’Antonio d’Anniata era una comunità della provincia inferiore cremonese, dato confermato anche dalle risposte ai 45 quesiti della giunta del censimento, datate 1751 (Compartimento Ducato di Milano, 1751; Risposte ai 45 quesiti, 1751; cart. 3058). Dalle risposte ai 45 quesiti emerge che la comunità, non infeudata, era amministrata dal fittabile dell’abbazia di Sant’Antonio d’Anniata, proprietaria di quasi tutto il perticato, che svolgeva le funzioni di deputato al governo del comune; unico ufficiale del comune era il console. Alla metà del XVIII secolo il comune era sottoposto alla giurisdizione del podestà di Cremona e il console, tutore dell’ordine pubblico, prestava giuramento alla banca criminale della provincia inferiore della curia pretoria.

All’epoca la comunità contava meno di 100 anime (Risposte ai 45 quesiti, 1751; cart, 3058) Nel compartimento territoriale, pubblicato con editto datato 10 giugno 1757, risulta aggregato a Pessina (editto 10 giugno 1757). Il centro prende il nome dal locale oratorio dedicato a S. Antonio Abate costruito verso la metà del XIV secolo da alcuni frati antoniani della regola di S. Agostino di Cremona che vi possedevano dei fondi.

Trasformato sul finire del ‘500 in commenda, fu conferito a cardinali e grandi personaggi. La riforma amministrativa della Lombardia decisa dall’imperatrice Maria Teresa nel 1757 soppresse il comune annettendolo a Pessina Cremonese, ma una speciale dispensa continuò a configurarlo separatamente ai fini censuari, con confini ufficialmente definiti. Dieci anni più tardi, mel 1767 il conte monsignor Carlo de Villana Perlas lo fece riedificare nelle forme attuali e la chiesa fu restaurata nel 1846. Molte, infine, le notizie che si possono ricavare in quella “pietra miliare” di storia locale che è la “Descrizione dello stato fisico-politico- statistico-storico-biografico della Provincia e Diocesi di Cremona” di don Angelo Grandi che ricorda che il luogo era definito anche come “Sant’Antonio della Mata o Matha” e, parlando dei restauri dell’oratorio avvenuti nel 1846 grazie all’iniziativa del proprietario terriero Giuseppe Negri da Milano, ed evidenzia che nel timpano è effigiato il santo titolare mentre l’aula a navata unica è impreziosita da finestre a vetri colorati e la volta fregiata a chiaroscuro con medaglie eseguite dal Longhi e l’altare in marmo bianco. Inoltre, la sagrestia con belle suppellettili e pregevoli abiti sacerdotali. In più il campanile dotato di orologio.

In particolare don Grandi esalta l’opera munifica di Giuseppe Negri, nella cura e nell’organizzazione anche dei fabbricati esterni. “L’esistenza di questo villaggio – scrive ancora il sacerdote – risale per lo meno al XIV secolo, risultando da una lapide posta nell’antica facciata dell’attuale oratorio sacro à s.Antonio abate, ictata in una memoria mss. di G.Battaglia parroco in Pessina circa l’ultima metà dello scorso secolo, esistente presso l’archivio parrocchiale di detto luogo, che l’oratorio e chiesa che fosse venne costrutta a tre navi dai frati, detti Ospitalieri di S.Antonio abate o Antoniani sotto la regola di S.Agostino, che avevano convento con ospitale in Cremona, ed un ospizio per 6 od 8 monaci in questo villaggio di loro proprietà in un col latifondo, e che l’accennata chiesa fu nel 1350 consacrata da Ugolino Ardengherio vescovo di Cremona.

Vuolsi parimenti che questa chiesa fosse costituita in parrocchia diretta dagli stessi monaci, a cui presiedeva un abate, ed avesse soggetti alla parrocchiale sua giurisdizione i villaggi di Pessina e di Stilo dè Mariani”. Don Grandi ricorda quindi che a Pessina si trovava anche i frati Carmelitani con un oratorio privato, dove successivamente sorse la proprietà del nobile cavaliere signor Baroli. “Soppressi i monaci Antoniani sul declinare del secolo XVI – scrive di nuovo don Grandi – la chiesa abaziale di S.Antonio abate venne mutata in commenda e conferita a cardinali e gran signori, e forse a quest’epoca cessò di essere anche parrocchia, ridotta a frazione della nuova eretta parrocchiale di Pessina. A tempi dell’imperatore Carlo VI ebbe a commendatore monsignor Carlo de Villana Perlas, di nazione spagnuolo e figlio del gran cancelliere del detto imperatore.

Per ordine di monsignor Perlas nel 1767 la chiesa di S.Antonio abate venne sotto diverso disegno costrutta e ridotta com’è di presente ad una sola nave col titolo di oratorio. Dell’antica chiesa sussiste ancora una traccia nei pilastri compresi nella nuova parete, che veggonsi nell’interno della bella ed elegante casa del signor Negri. Ripetendo il villaggio la sua denominazione del Santo che quivi è venerato – si legge ancora – sembra che niuna relazione si abbia l’aggiunto nome d’Anniata a quello di Sant’Antonio, e siamo tentati a crederlo piuttosto un travisamento di parola, che, invece della vera applicata in antico della Mata, col progredir del tempo corrompendono la voce sia erratamente pronunciato d’Anniata per della Mata.

Ciò che ci appaja non inverosimile lo si deduce dall’uso che mai sempre s’è praticato per distinguere un luogo dall’altro, di aggiungere cioè una denominazione qualunque d’un paese il nome del fondatore o del proprietario, ed a quella di un Santo, come nel nostro caso, applicare il nome del casato da cui deriva, o del luogo ov’ebbe la culla, o quello in cui si segnalò per integrità di vita o sapere, oppur del luogo ove avvenne la morte, ed in fine ove trasportare furono le sacre ceneri. Nessuna cronica pertanto ci pone sott’occhio che esistito abbia una famiglia per nome Anniata; né il nobile ed illustre casato di S.Antonio abate ebbe così nomavasi, non la terra in cui ebbe i natali, chiamata Coma, vicino ad Eraclea città d’Egitto; non il luogo ove fondò un monastero o spirava l’anima, appellato Colzin, monte vicino al golfo arabico o mar Rosso; sibbene il luogo ove per ultimo venner collocate le sacre di lui spoglie chiamasi Mata o Matha, terra presso a Vienna di Francia.

Ce ne porge di ciò fede il cremonese Merula nel suo libro portante il titolo ‘Santuario di Cremona’, il quale narrando in compendio della gesta di S.Antonio abate, dice: ‘Che certo Jocelino gran barone della città di Vienna nel Delfinato, trasportò intorno al 1070 da Costantinopoli le sacre ceneri del Santo alla predetta città, e nel 1096 recandosi in Francia il pontefice Urbano II per animare i principi cristiani a mover guerra contro i Turchi, ordinò che quel sacro corpo fosse con maggior onore e riverenza posto in alcuna chiesa, ed essendo morto il detto Jocelino, che lo possedeva, gli eredi elessero per quest’effetto una lor terra detta la Mata, che poi del Santo ne prese il nome, innalzando a di lui onore una chiesa’. Dell’esposto appare facile il poter ammettere che a questo villaggio gli convenga meglio l’applicazione di S.Antonio della Mata, dal luogo ove riposte sono e venerate le insigni reliquie del Santo anacoreta”. Alla fine la denominazione non è mai mutata ed ancora oggi la località si chiama Sant’Antonio d’Anniata, un luogo tanto piccolo nel suo insieme ma dalla storia del tutto importante. Senza dimenticare, infine, a Cappella di Casalmaggiore, la bella edicola votiva dedicata a Sant’Antonio Abate, restaurata pochi anni fa grazie alla lodevole e speciale iniziativa di un gruppo di parrocchiani. Un altro luogo in cui, mercoledì 17, fermarsi magari in silenzio, per recitare una preghiera e lasciare un piccolo lume.

Eremita del Po, Paolo Panni

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