Cultura

Le Chiese che non ci sono più:
tra leggende e storia del fiume

La notte di Natale sul fiume, un lume e l'ascolto di vecchie campane, anche e solo nella memoria. Secoli di adattamenti alla forza del grande padre, tra paesi scomparsi e campanili sommersi dalle acque...

La notte di Natale portate e lasciate un lume sulla riva del Po, che sia quella di destra o quella di sinistra non importa. Portate un lume, lasciatelo acceso e mettetevi in silenzio, anche al buio, ad ascoltare la voce ed i silenzi del fiume. Sarà un modo per vivere un Natale essenziale e povero (come dovrebbe essere), ripercorrendo pagine di storia e facendovi magari trasportare un po’ anche dalla fantasia: necessaria, come il silenzio, per provare ad ascoltare le campane della chiesa sommersa di Stagno Parmense. Facendo così rivivere la leggenda, ma anche la storia. Riportando in vita, almeno per una notte, anche solo per qualche secondo, le altre chiese sommerse da secoli dal fiume.

Luoghi che, in tempi remoti, quando ancora ci su trovava a pregare a lume di candela, hanno ospitato i nostri “padri” tanto nei momenti lieti quanto in quelli tristi. Chiese che, molto prima che noi venissimo al mondo, hanno visto celebrare la nascita di Gesù e l’hanno annunciata col suono delle loro campane. Luoghi della memoria, oggi, che possono rivivere, almeno la notte di Natale, se ci ricorderemo di portare e di lasciare un lume in riva al Po, per ricordarle e rendere omaggio anche a coloro che ci hanno preceduti.

Nel medio Po, tra il Parmense, il Cremonese ed il Piacentino, sono numerosi i luoghi sacri che, nel corso dei secoli, sono stati distrutti dalla furia delle acque del Po e dai suoi mutamenti. Una storia che ha il suo inevitabile centro a Stagno di Roccabianca, laddove storia e leggenda si fondono in un meraviglioso intreccio, straordinariamente e diffusamente descritto dal padre dell’etnologia parmigiana, l’indimenticato don Enrico Dall’Olio nel suo “Leggende Parmigiane”, eccezionale e preziosa raccolta di antiche fiabe sostenuta dalla Fondazione Cariparma e pubblicata, una prima volta, nel 1995 da Grafiche Step. Raccolta impreziosita dalla maestria grafica di Alberto Nodolini e dalle magnifiche illustrazioni di Peppo Monica.

Una leggenda, come detto, e come spesso accade, nata dalla storia. Che è quella di ben due chiese parrocchiali distrutte. La prima, angusta e cadente, messa alla prova dal fiume, nel 1675 fu demolita per far posto ad una più ampia e decorosa. Dell’iniziativa si fecero promotori, il 13 marzo 1675 gli uomini e i deputati della comunità insieme al prevosto don Aurelio Scutari (prevosto a Stagno dal 1669 al 1693), ricordato come parroco esemplare, amato e stimato dalla sua gente per la bontà e le chiare virtù sacerdotali. Don Scutari, che nella realizzazione della chiesa ebbe appunto la capacità di coinvolgere uomini e deputati della comunità ed ebbe la consolazione di veder sorgere il nuovo tempio, per la realizzazione del quale si prese a modello la vicina chiesa di Roccabianca.

I lavori incontrarono dei momenti di sospensione per mancanza di mezzi economici ma, alla fine, vennero ultimati (e furono affidati al capomastro cremonese Giannantonio Avanzini) con il sacro edificio provvisto anche di organo, orologio e decorazioni. Ad abbellire la chiesa fu chiamato nientemeno che Ferdinando Galli Bibiena morto il quale nel 1743 l’opera fu ultimata dal figlio del celebre pittore.

La chiesa, che nel 1800 distava circa un chilometro dal Po, non durò molto e infatti crollò tra l’ottobre e il novembre 1846 per corrosione delle acque del Po. Alla fine gli abitanti di Stagno rimasero senza chiesa per circa vent’anni e la nuova parrocchiale, quella attuale, fu realizzata tra il 1863 ed il 1864 e venne aperta al culto nel 1865. Oggetto, per altro, di recenti ed importanti restauri, il sacro edificio conserva memorie tangibili della precedente chiesa distrutta dal fiume, come la pala dell’altare maggiore, raffigurante i patroni, i santi Cipriano e Giustina, realizzata da Ferdinando Galli Bibiena (1657-1743), un “Battesimo di Nostro Signore” (olio su tela d’ignoto pittore del secolo XVII) ed un bel confessionale in noce intagliato (di fine secolo XVII) con quattro colonne a spirale che sostengono una trabeazione sulla quale sono adattate cinque statuine che decoravano un antico pulpito, raffiguranti gli Evangelisti e Cristo alla colonna.

Da queste vicende storiche, legate alle chiese (in particolare la seconda) “divorate” dal fiume è nata la leggenda popolare, poi ripresa e scritta da don Enrico Dall’Olio (scomparso nel 2014 all’età di 85 anni) che, tra le altre cose, ha avuto lo straordinario merito di aver raccolto e trascritto, appunto, i racconti popolari, mettendoci il cuore, l’intelligenza, la pazienza di saper studiare, conservare e divulgare le tradizioni locali, i racconti, sia nelle valli dell’Appennino che nelle lande della pianura. Ha avuto, don Dall’Olio, la grande capacità di raccogliere le testimonianze orali degli anziani, conservandole attraverso la scrittura, lasciandole così ai posteri, aggiungendoci l’amore che ha sempre avuto per le sue e nostre terre e, in particolare, per quelle valli che percorse in lungo e in largo durante la sua instancabile e preziosa missione di parroco, sempre in mezzo alla gente, e di custode degli antichi saperi. Lui, figlio di contadini della Bassa, parroco in villaggi di collina e di montagna, con i suoi libri ha dato vita a veri e propri atti d’amore per le terre del fiume e dei monti, con uno stile semplice e profondo al tempo stesso, senz’altro inarrivabile.

La leggenda nata a Stagno, relativa alle campane sommerse in Po che suonano per Natale, ecco che prendendo spunto dalla storia delle chiese distrutte dal fiume, e dal fatto che il paese per almeno vent’anni rimase senza una propria chiesa, la fantasia popolare ha portato a raccontare che in una remota vigilia di Natale la furia delle acque sconvolse Stagno portando rovina e lutti al punto che anche l’Angelo che, sempre secondo la credenza popolare, veglia su tutte le chiese del mondo, atterrito abbandonò la guglia del campanile per salire verso il cielo cercando un luogo più sicuro.

Ancora una volta il grande e vecchio Eridano, come accaduto in innumerevoli occasioni, aveva dimostrato il suo incontrastato dominio sulle sue terre, divorando uomini e cose, stendendo un ampio manto melmoso e solo poche persone in quella occasione si salvarono divenendo testimoni del fatto che la bella chiesa e la case circostanti si inabissarono in Po.

L’Angelo che sospeso a mezz’aria aveva a sua volta assistito alla catastrofe, andò oltre le nubi per poi prostrarsi davanti a Dio raccontandogli (anche se non c’era bosogno) quello che era accaduto, presentandogli le sofferenze di quella povera gente di campagna, vittime della furia del fiume che li aveva lasciati senza casa e senza chiesa e senza il suono delle campane che scandivano le loro giornate, il trascorrere del tempo, accompagnando le gioie e i dolori degli uomini.

Erano, insomma, parte integrante e importante della loro vita e l’accaduto li aveva a maggior ragione sconvolti. Inizialmente non pareva poterci essere rimedio e, alla gente, non erano rimasti che tristezza e sconforto, pianto e rassegnazione. Nonostante questo il popolo del fiume si diede subito da fare per recuperare e sgomberare i materiali e gli oggetti disseminati un po’ ovunque dalla furia del fiume.

I pochi superstiti ricordarono che quello era il giorno di Natale e, in modo sublime e misterioso, si ritrovarono uniti, nell’ora in cui in passato assistevano alla messa, sulle rive del fiume, laddove in precedenza si trovava la loro amata chiesetta. Presi dalla commozione si inginocchiarono e non lasciarono spazio ad alcun moto di rabbia ma, anzi, elevarono a Dio le preghiere e i canti della tradizione natalizia, baciando quella terra che aveva visto il sacrificio dei loro fratelli. D’improvviso le acque divennero trasparenti e il sole, più splendente che mai, illuminò il fondo del Po dove, come per incanto, apparvero la chiesa col suo campanile e le case, col silenzio e lo stupore delle persone che venne rotto da uno scampanio soave e dolcissimo, un concerto così melodioso che mai prima d’ora si era sentito.

L’autore di tutto questo non poteva che essere l’Angelo inviato dal Signore a scuotere le campane per alleviare il dolore della gente, infondendo loro nuovo coraggio e rinnovata speranza, lasciandosi alle spalle le prove date dalla sventura, animati invece dalla forza e dalla tenacia necessarie per riprendere subito a riedificare il loro villaggio e la loro chiesa, memori del fatto che con la fede, la speranza, il coraggio e la carità si superano i dolori e le sventure. Una fiaba bellissima, nata dalla storia, contenente un grande messaggio, come accade per tutti i migliori racconti popolari.

Ma la vicenda di Stagno Parmense è simile appunto alla storia di altri centri del medio Po. Tra questi, a due passi da Stagno, anche Ragazzola dove, ancora una volta, storia e leggenda si fondono. A Ragazzola si dice che nel luogo dove oggi sorge il “budri”, a ridosso dell’argine maestro, si trovassero un tempo la vecchia chiesa e il cimitero del paese, che sarebbero stati distrutti durante una inondazione, tanto improvvisa quanto tremenda del Po e che in quel momento si trovasse, all’interno del sacro edificio, una ragazza, che sarebbe stata risucchiata dall’acqua e dal fango, insieme a tutta la chiesa, sprofondando così nel sottosuolo. Da qui e, quindi, dal – ragazza sola – sarebbe nato il nome del paese: Ragazzola.

Ma le narrazioni popolari sembrano non concordare troppo tra loro. Un’altra leggenda, infatti, dice che nella vecchia chiesa vi fosse in corso un matrimonio clandestino, o comunque contrastato dai familiari degli sposi, e che in quel momento fu la piena dirompente e improvvisa del Po a spazzare via tutto, originando comunque, poi, il nome del paese. Infine, altra leggenda, vuole invece che una devastante inondazione del Po abbia spazzato via tutto il paese, uccidendo i suoi abitanti. Secondo questa leggenda rimase in vita soltanto una ragazza. Da qui il nome Ragazzola. Narrazioni, dunque, che non concordano tra loro, ma che hanno anche alcuni elementi in comune: su tutti il fatto che, all’origine della vicenda vi sia stata una piena del Po; la presenza di una chiesa e, comunque, di un fatto talmente importante da aver creato l’elemento di base per dare il nome al paese.

Cosa c’è di vero e cosa di falso? Domanda a cui, come sempre, è difficile dare una risposta. Dicerie popolari e pezzi di storia, ancora una volta, si mescolano. Un mix affascinante, misterioso, che rende ancora più interessante la storia e l’importanza del “budri”. Della presunta chiesa che sorgeva laddove oggi si trova il “budri”, va precisato, sembra non essere mai stato trovato nulla, nemmeno un mattone, neppure durante le arature dei campi circostanti. Ma di questo sacro edificio si parla, e di piene, va aggiunto, ce ne sono state tante.

Verrebbe da pensare a quella devastante del 1801, passata decisamente alla storia per Ragazzola. Ma all’epoca il paese portava già questo nome e quindi sembra necessario dover andare ancora più indietro nel tempo. Così, attingendo direttamente agli archivi e alla storia della Bassa Parmense, emerge che le maggiori piene del Po sono avvenute negli anni 1152, 1280, 1294, 1386, 1394, 1454, 1467, 1470, 1474, 1480, 1680, 1685, 1687, 1702, 1741, 1755, 1758, 1763, 1765, 1772, 1801, a cui si aggiungono quelle più recenti degli anni 1951, 1977, 1994 e 2000.

Tra le maggiori spiccano quella del 1741 (in occasione della quale, per mettere in guardia le popolazioni, le campane suonarono a martello per tre giorni); quella del 1474, che durò qualcosa come cinquanta giorni, e quella del 1680. In occasione di quest’ultimo evento calamitoso il Po corrose circa duecento biolche parmigiane di terreno e, sette anni dopo, altre trecento. Addirittura il fiume in quegli anni, a causa delle grandi piene, deviò il proprio corso giungendo in prossimità della vecchia chiesa (forse quella dove oggi sorge il “budri”?) e dell’osteria.

La nuova chiesa fu realizzata a circa un chilometro di distanza e la vecchia, storia alla mano, fu lasciata andare in rovina (rimasero solo, sempre storia alla mano, il sagrato con poca terra e una maestà dove si trovava la Madonna del Rosario).

Non è da escludere che la leggenda del “budri” di Ragazzola affondi le proprie radici ad una di queste inondazioni, in particolare a quelle del 1680 e del 1687. C’è da aggiungere, e lo confermano anche i testi storici, che Ragazzola ebbe senz’altro una chiesa in epoca remota, ma a livello di documentazioni ufficiali la prima figura in una pergamena cremonese (L.Astegiano: Codex diplomaticus Cremonae) datata 27 giugno 1271 (allora Ragazzola faceva parte della diocesi di Cremona). Si tratta di un foglio che parla di una lite intercorsa tra Umberto De Grondono, chierico e sindaco del monastero di Castione Marchesi, e la nobile famiglia dei Sommi, feudatari del vescovo di Cremona.

In quella documentazione il borgo è definito come “Carpeneta” o “Carpaneto”, ben diverso quindi dal successivo “Ragazzola”. Se dunque, da una parte, è certo che nel XIII secolo la borgata aveva il nome di “Carpeneta” o “Carpaneto”, è altrettanto vero che nei secoli successivi la denominazione è stata radicalmente modificata in “Ragazzola”.

Da cosa è stata causata questa modifica? Forse da un fatto storico da cui è poi nata la leggenda? Sempre attingendo alle fonti storiche, a proposito della vecchia chiesa, è certo che fu fatta costruire dalla nobile famiglia Pallavicino che ne aveva il giuspatronato (questo significa che erano i Pallavicino a vantare il diritto di presentazione del sacerdote che doveva reggerla). La nomina finale spettava, tuttavia, al capitolo della collegiata di Pieveottoville, chiesa matrice del distretto.

Vi è poi, passando a tempi molto più recenti, un altro fatto storico, molto tragico, legato ancora una volta a questo specchio d’acqua. E’ noto, localmente, che dopo il secondo conflitto mondiale, numerose armi, ordigni e munizioni varie, furono gettati tra le sue acque per farli sparire. Nel 1951, pochi mesi prima della storica alluvione del Po, due ragazzi del paese trovarono, proprio nei pressi del “budri” alcuni ordigni, rimanendo uccisi dalla loro improvvisa esplosione. Un fatto molto tragico, per la piccola borgata rivierasca, passato chiaramente alla storia e legato, ancora una volta, a questo specchio d’acqua che oggi rischia la scomparsa a causa delle perduranti e continue “secche” del Po e, soprattutto, della scarsità di precipitazioni.

Passando sulla sponda lombarda, è di particolare interesse la storia della vecchia chiesa di Brancere, per la quale è sufficiente attingere al sito della parrocchia di Stagno Lombardo, grazie alle memorie lasciate da don Remo Caraffini, “rispolverate” e valorizzate dall’attuale parroco don Pierluigi Vei. Qui si evidenzia che nel 1756 l’antica chiesa del Real Ordine Costantiniano o Costantinopoliano della Steccata di Parma era costruita nei pressi di San Giuliano/Soarza e, a causa dell’inondazione del Po di quell’anno, venne abbandonata e finì per essere distrutta.

Sempre nelle memorie di don Caraffini si rileva che nel 1801 un’altra grande alluvione allagò la chiesa rimanendovi per 22 giorni e cinque anni più tardi di nuovo il Po sommerse il “nuovo” cimitero benedetto nel 1791 rendendo inservibili chiesa e canonica.

Il territorio di Brancere, come altri vicini dell’Emilia Romagna (in particolare quelli di Olza, Castelletto, Tinazzo e Marianne) subì, nel corso del tempo, i pesanti effetti delle erosioni operate dal Grande fiume. Nel 1813 una nuova chiesa fu costruita, con annessi cimitero e casa parrocchiale, oltre l’argine maestro, grazie alla donazione dell’avvocato Coppini, proprietario della Cascina Rondanina, su disegno dell’architetto cremonese Domenico Voghera (fratello del più famoso architetto Luigi) e venne consacrata il 2 maggio 1813, con asse della chiesa in direzione Nord-Sud e facciata rivolta a Sud. Nel 1867 la chiesa subì importanti lavori ma solo un anno più tardi, nel 1868, subì una nuova inondazione del Po con le acque che si ritirarono solo sei giorni dopo. In quello stesso anno venne definitivamente soppresso il Comune di Brancere, inglobato in quello di Stagno Lombardo.

Tra le inondazioni che colpirono il paese e i suoi edifici sacri, da ricordare anche quelle del 1801, 1806, 1917 e 1926, ma anche quella del 1833. A quest’ultima è legato il quadro miracoloso del “Nazareno” (che si conserva in parrocchia) accompagnato anche dalle annotazioni autografe del parroco dell’epoca che parla di tre miracoli e ne evidenzia la storia.

A riguardo, in quaderni dell’Archivio Parrocchiale, don Remo Caraffini trascrive una nota del Parroco del 1870: “Nell’anno 1833 il fiume Po ingoiò varie possessioni che si trovavano in prossimità al fiume. Confinante con queste vi era anche quella del Conte Prosperi Tedeschi Baldini, di Piacenza, proprietario della cascina Ferrara. Uomo molto religioso fece un voto implorando che venisse risparmiata la sua ed essendo stata di fatto preservata la sua terra con la sua cascina, soddisfece al voto fatto facendo dipingere un artistico quadro rappresentante la Sacra Immagine di Gesù Nazareno, riscattata dai Padri Scapolari dalle mani dei Barbari Mori e Maomettani nella città di Fez in Africa [Marocco] e lo donò alla chiesa di Brancere e lo fece collocare sull’altare di S.Antonio di Padova nel giorno 15 di Settembre del 1833, giorno di domenica, in cui venne benedetta la Sacra Immagine, che ancora è lievito fermentatore di vita morale e religiosa in questa popolazione rurale”.

A Vacomare, antico borgo scomparso da secoli, totalmente eroso dal Po, sorgeva invece uno Xenodochio (vale a dire una struttura di appoggio ai viaggi nel Medioevo, adibito a ospizio per pellegrini e forestieri) con chiesa intitolata a Santa Maria di Spineta. Chiesa e xenodochio di cui da tempo (come del resto del borgo) si sono perse le tracce .

Di Vacomare, della chiesa di Santa Maria di Spineta e dello Xenodochio si parla diffusamente nei libri della collana “Nelle terre dei Pallavicino” del compianto professor Carlo Soliani, insigne studioso di storia dei nostri territori, autore di importanti pubblicazioni. In un atto del 1334, Matteo Da Segalaria, sacerdote di Parma e titolare di un beneficio nella chiesa di Pieveottoville, per incarico del vescovo di Cremona, Ugolino di San Marco, inserì nel possesso dell’ospedale di Santa Maria di Spineta, situato appunto in Vacomare, e dei relativi diritti spirituali, Antonio Riccardi di Crema, precedentemente eletto rettore e amministratore del medesimo ospedale dallo stesso vescovo mediante investitura ad anello aureo.

Nel 1336, invece, Pietro Giovanni Tagliabuoi donò ai frati del Consorzio dello Spirito Santo di Cremona una pezza di terra di due pertiche, coltivata a viti, posta nel territorio di Santa Croce Oltre Po, in località Vacomare (con atto notarile firmato da Corrado Lacma). Nel 1358 la signorina Agnesina, figlia del fu Antonio Bottioni detto “Inthocus”, legò agli stessi frati del Consorzio dello Spirito Santo di Cremona, due pezze di terra, una delle quali in località Vacomare.

Altri atti relativi a terreni di Vacomare risalgono agli 1361, 1367, 1371, 1374 e 1376. E’ inoltre ceto che lo Xenodochio esisteva ancora nel 1385 e pagava all’Episcopio di Cremona il censo di “Libram unam cere nove”. Interessante anche un atto del novembre 1458 in cui Cabrino, Galeotto, Duxino Sommi, a proprio nome ed anche a nome di Aimerico, Cristoforo e Giorgio Sommi, chiedono il rinnovo dell’investitura dei feudi ai loro antecessori, e in particolare di Pieveottoville con i relativi diritti di riscossione delle decime nei luoghi di Parasacco, Zibello, Isola Guidoni, Vacomare, Po Morto, Saliceta, Ardola di Altavilla, Isolello e Carpaneta, a Giovanni Maria Imerici di Ferrara, luogotenente di Bernardo Rossi, eletto amministratore dell’episcopio e futuro vescovo di Cremona, e a don Filippo Schelini, vicario del suddetto vescovo.

A due passi da Cremona, importanti furono i mutamenti del corso del Po che interessarono, in modo particolare, la dirimpettaia zona del basso piacentino dal 1816-21 fino al 1978, come si può osservare anche dai rilievi che emergono dalla sovrapposizione del primo catasto ordinato da Napoleone Bonaparte (1816-21) con le mappe eseguite dall’Istituto Geografico Militare datate 1974.

Tutto è ampiamente e minuziosamente descritto anche nell’Enciclopedia Diocesana Fidentina di Dario Soresina: tre volumi, in tutto, che non possono mancare a coloro che intendono approfondire meglio la storia dei territori, dell’una e dell’altra riva, bagnati dal Po. Per quanto riguarda Monticelli d’Ongina, internandosi con potenza nel torrente Chiavenna, il Po creò un vero e proprio smembramento che interessò soprattutto le località Castelletto o Rottino (che scomparve praticamente del tutto a causa della progressiva erosione culminata nel 1868) e Tinazzo, sommersa con le sue case e la chiesa dedicata alla Beata Vergine del Tinazzo nel medesimo anno. Si formò così un’isola, poi divenuta penisola, detta America del Seminario, posta tra lo scomparso Rottino e la parte rimasta dell’Isola Mezzadra.

Determinando inoltre una diversa e più ampia ansa, il Po lasciò in direzione Nord Ovest un ampio arenile entrato a far parte di Isola Serafini. Il nuovo corso del Po, fissandosi lungo l’asse Nord Est partendo dal Tinazzo di Monticelli d’Ongina, sommerse gran parte della frazione di Olza, ch unitamente alla chiesa parrocchiale scomparve definitivamente durante l’alluvione dell’autunno 1857. Da evidenziare comunque che, per la costante minaccia delle acque, l’abitato era già andato a spostarsi gradualmente nella zona più interna, quella delle cosiddette Campagne d’Olza.

Per l’allargamento dell’ansa in direzione Nord Ovest, nel 1839 il Po tagliò di fatto a metà l’Isola Mezzadra, che faceva parte della parrocchia di Olza nonostante fosse situata nell’Oltrepò e, ridotta notevolmente in ampiezza, nel 1854 passò sotto la giurisdizione della provincia e della diocesi di Cremona. L’esondazione del 1839 creò il presupposto ai mutamenti che si verificarono durante le successive alluvioni per la rottura di argini e l’indebolimento di altre difese.

Grazie alle memorie dell’epoca conservate nell’archivio parrocchiale di Olza, è noto che in quell’anno il fiume ruppe gli argini dell’Isola dei Guerci, sommergendola quasi interamente. Dalla stessa Isola dei Guerci le acque strariparono invadendo, ad Olza, le località Mortesino (fino all’argine del Tavello), e Marianne, raggiungendo la vecchia chiesa, difesa dal Tavello e già lambita per la prima volta dalle acque del Grande fiume nel 1801. Proprio davanti alla chiesa il Po creò una grande erosione, successivamente colmata da un bosco detto di Santa Valeria.

Tra questo e la riva si formò un canale in cui le acque, raccogliendosi copiosamente, avrebbero poi dilagato durante l’alluvione del 6 ottobre 1868. Dopo il Castelletto, Olza fu il paese che subì i maggiori danni causati dagli straripamenti del Po il quale, oltre a spazzare via ogni traccia di Olzula Vetula, centro attivo di commercio e vi vita, ne ridusse considerevolmente il territorio.

Da notare che fino ai primi decenni del Novecento il campanile della vecchia chiesa distrutta era visibile sul lato cremonese ed era, di fatto, il solo superstite della furia devastante delle acque. La chiesa di Olza, di remota fondazione, faceva parte della pieve di San Giuliano e, nel secolo XI fu compresa nella giurisdizione della chiesa di Sant’Agata in Cremona che, per un certo raggio, si estendeva anche nell’Oltrepò. Olza era allora un attivo centro di commercio che gravitava ampiamente su Cremona ed il benessere degli abitanti è dimostrato anche dai tanti benefici e legati che furono eretti e fondati nelle sue due chiese.

Dalle pergamene cremonesi pubblicate da Lorenzo Astegiano si rileva che la chiesa di Olzula Vetula possedeva, e mantenne, nei secoli X, XI e XII, cospicue proprietà terriere e che ben provvista era anche l’altra chiesa olzanese di San Lorenzo, scomparsa da secoli. Le ampie erosioni operate dal fiume Po sottrassero alla chiesa gran parte del suo patrimonio e quando, nel 1436, fu sottratta alla chiesa cremonese di Sant’Agata per passare alla collegiata di Busseto, la sua importanza era già venuta meno.

Nel 1470 passò poi sotto la giurisdizione della collegiata di Monticelli d’Ongina divenendo una semplice chiesa filiale curata, inizialmente retta da sacerdoti incaricati della cura d’anime dal prevosto di Monticelli. Fu con l’erezione della diocesi di Borgo San Donnino (l’attuale Fidenza), nel 1601, che la parrocchia acquistò la propria autonomia. I maggiori danni al paese, e alla chiesa, furono causati dal fiume nel secolo XIX. Un registro di memorie iniziate dal priore don Antonio Ricci (1773-1826) e proseguite poi dai suoi successori descrive i danni provocati dalle diverse alluvioni che interessarono una vasta fascia di terreno nell’area compresa proprio tra Olza, Castelletto e Tinazzo, con queste ultime due ormai scomparse.

Come già evidenziato, gran parte del vecchio abitato di Olza fu sommerso dal fiume rendendo inevitabile il graduale spostamento del paese in una zona più interna e quindi più sicura. Anche per questo, in passato, la chiesa era comunemente definita “delle campagne d’Olza” e non più “di Olza”. Il pericolo di ulteriori e più gravi danni veniva rilevato anche nel 1875 dal parroco don Andrea Sperzagni (nato nella stessa Olza nel 1821) che, nelle sue memorie, annotava che il Po premeva in modo minaccioso contro l’abitato erodendo il terreno per un tratto di quasi tre miglia dal cosiddetto Rottino fino alle case di Olza, internandosi poi con forza nello scolo del Tinazzo e in località Marianne.

Questa costante minaccia, motivo continuo di preoccupazione tra la gente, fu poi sventata con il rafforzamento degli argini. Opera, quest’ultima, attuata grazie al concreto interessamento del parroco don Valentino Guzzoni che sollecitò ed ottenne l’intervento dello Stato. Delle varie chiese di Olza coinvolte nell’azione distruttiva del Po non si hanno moltissime notizie. Una chiesa fu demolita nel 1677 e, quindi, riedificata per iniziativa del priore Simone Ferrari e consacrata l’8 giugno 1687 dal vescovo di Fidenza monsignor Nicolò Caranza. Il sacro edificio non durò nemmeno due secoli; fu infatti pesantemente danneggiato dall’azione del fiume e, quindi, raso al suolo nell’agosto del 1858 per essere sostituito dalla chiesa odierna, realizzata tra il 1864 ed il 1866 e dedicata a Santa Valeria Vergine e Martire.

Tra le località scomparse della Bassa Piacentina spicca anche il Castelletto la cui parrocchia era dedicata a San Nicola di Bari. Era detta anche del Rottino e si trovava nell’area compresa tra il Po e Isola Serafini. In una carta topografica diocesana di inizio Ottocento è indicata nella zona monticellese più vicina al fiume.

Oggi la località Rottino, di fatto la sola superstite della scomparsa parrocchia di Castelletto, si trova nella zona Sud est di Isola Serafini, mentre Isola Mezzadri, che faceva parte della parrocchia di Castelletto, dipende civilmente ed ecclesiasticamente da Cremona.

Nel 1800 la popolazione di Castelletto era di 370 persone, scese a 291 nel 1840 ed a 93 nel 1868. Nel 1913 erano appena una trentina. Nel 1723 chiesa e canonica del Castelletto furono demolite dalla furia delle acque ed era, quello, solo l’inizio di una catastrofe che nel secolo successivo aveva poi coinvolto tutta la fascia tra il Rottino e Olza.

Da allora, per la costanza dei parroci e della popolazione, furono erette in parrocchia tre altre chiese e quattro oratori. Edifici tutti spazzati via, nel tempo, dal Po. L’ultima chiesa crollò nel 1879 ed un ulteriore progetto di ricostruzione della parrocchiale incontrò l’opposizione dell’autorità pubblica nonostante fosse già stato dato inizio ai lavori. Con decreto regio del 2 luglio 1890 ne fu ordinata la sospensione destinando al prevosto del Castelletto (allora era don Carlo Cavezzali) la cappella e l’altare del Santissimo Sacramento nella collegiata di Monticelli d’Ongina dove avrebbe potuto comunque continuare tutte le funzioni riguardanti la cura delle anime che gli erano state affidate.

Proprio per la situazione che si era venuta a creare, don Cavezzali, prevosto di Castelletto dal 1882, non risiedette un solo giorno in parrocchia. Stessa scelta la fece il suo successore, don Pio Massari, che gli succedette nel 1901. Formalmente la parrocchia continuò ad esistere e fu solo il 31 dicembre 1904 che l’autorità ecclesiastica diocesana decretò la soppressione.

Nel 1913 la parrocchia fu trasferita a Villa Diversi, nuova parrocchia istituita il 6 maggio 1913 e dedicata a San Nicola di Bari e San Giuseppe e durata nemmeno mezzo secolo. Infatti venne a sua volta soppressa nel 1968. Sempre a due passi da Cremona non va dimenticata la chiesa parrocchiale vecchia di Castelvetro Piacentino di cui si ha memoria nei più antichi atti cremonesi pubblicati dall’Astegiano. Fu danneggiata gravemente dalle acque del ramo vivo del Po denominato “Pausiolo” che scorreva nelle vicinanze e venne demolita nel 1710.

Sorgeva sul lato di destra dell’odierna via Magra e vi era anteposto un ampio piazzale. Il Pausiolo era appunto un ramo vivo del Grande fiume che, col tempo, confluì, restringendosi, nello scolo Morta che, tagliando la località di mezzano Chitantolo la rendeva un’isola, sfiorava la piazza della chiesa di Castelvetro e confluiva bel Po all’altezza di San Giuliano. Da evidenziare che sia la chiesa di Croce Sano Spirito (posta in località Bissine) che quella di Castelvetro, situata nella prima curva di via Morta, dovettero essere demolite a causa dei danni causati dalle piene del Po. Tenendo conto dell’instabilità del grande fiume in epoche ormai remote, degli spostamenti del suo letto principale, delle inondazioni e dei continui fenomeni di erosione e di accessione, è facile immaginare il territorio di Croce santo Spirito di Castelvetro, dirimpettaio a Cremona, come una distesa di boschi e di acquitrini intercalati da aree coltivate.

Tra l’altro dalla riva del Po aveva inizio la strada per Piacenza con diramazioni per altri centri del Piacentino e del Parmense; vi transitavano anche i pellegrini diretti a Roma e questo spiega la presenza di un ospedale (uno Xenodochio) inteso come luogo di sosta per i romei, vicino ad un convento di monache che possedeva in zona importanti proprietà.

Era sicuramente il monastero di Santa Maria delle Monache (S.Maria de Monacabus) citato nel 1221 in un atto di conferma dell’investitura del vescovo di Cremona, a titolo onorifico, di molte terre ai suoi vassalli Dovara. La chiesa di Croce Santo Spirito compare per la prima volta in una pergamena datata 2 agosto 1163 riguardante una investitura da parte dei consoli di Cremona a favore di Deghelde de Natali Boldenzo, in nome suo e del fratello Nuvolello e di Petanalupo, di due iugeri di terra ultra Padum prope ecclesia S.Spiritus. Che Croce Santo Spirito continuasse anche successivamente a far parte di Cremona è provato da atti del 1250 in cui si parla di “burgo Spiritus Sancti (Cremona)”.

Va aggiunto che solitamente gli ospizi per pellegrini attigui ad una chiesa ne assumevano il titolo e, infatti, lo Xenodochio di Croce Santo Spirito era detto dello Spirito Santo perché questa era la dedicazione della chiesa. Fu fondato dai monaci Agostiniani di Cremona e sorse prima che, nel 1180, Guido di Montpellier, istituisse in Francia, con finalità ospitaliere, l’Ordine dello Spirito Santo che si propagò poi in numerose località italiane.

L’ospedale successivamente fu ceduto dagli Agostiniani a una comunità di religiosi la cui presenza è documentata, localmente, dalla seconda metà del XII secolo. Ma ospedale e monastero non ebbero vita lunga e furono distrutti quasi certamente da una piena del Po. In quanto alla chiesa parrocchiale vecchia di Croce Santo Spirito, questa fu edificata tra la fine dell’XI secolo e l’inizio del XII e fu gravemente danneggiata dal ramo vivo del Po, il già citato Pausiolo e venne demolita nel 1763.

In paese, in prossimità del Po, si trovava anche un oratorio dedicato a Sant’Agnese di cui non è nota l’epoca di costruzione né quella in cui scomparve, ma è certa l’esistenza nel 1620 perché citato dal Merula nella sua opera “Santuario di Cremona”. Fu certamente eretto da pescatori e barcaioli del luogo e dipendeva dal monastero di San Pietro al Po in Cremona.

Nella vicina Fogarole (frazione di Monticelli d’Ongina) esisteva invece un oratorio mariano, detto del Sabbione, annoverato come il primo edificio sacro del paese, costruito in epoca imprecisata dagli abitanti insieme a barcaioli e pescatori. Si parla anche di una chiesa di Santa Maria Madre del Signore ma era probabilmente lo stesso oratorio del Sabbione, citato nella bolla di Eugenio IV del 1436 con la quale veniva eretta la collegiata di Busseto.

Sempre a Fogarole la chiesa parrocchiale vecchia fu costruita agli inizi del XVI secolo e, dopo i gravi danni arrecati dalle piene del Po, fu demolita nel 1903 ad eccezione del campanile che, tuttavia, seguì la stessa sorte nel 1929. A Monticelli d’Ongina le memorie parlano anche della chiesa di San Nicola degli Arciboldi, probabilmente la stessa chiesa in precedenza denominata San Nicola dè Furegoni.

Era la parrocchiale di Castelletto e, in seguito all’erosione del Po, l’edificio fu più volte distrutto e poi ricostruito finchè, nel 1882, il Governo pose il veto alla continuazione dei lavori di costruzione dell’ultima chiesa. Una chiesa di trovava anche a Isola dei Corradi e non ne è nota l’intitolazione, ma è certo che si trovava in una di quelle che erano le isole ormai scomparse del Po.

Del tutto avvolta dal mistero, sempre in territorio di Monticelli d’Ongina, è la chiesa di San Pietro di cui si parla in antichi documenti. Era senz’altro una chiesa campestre ma di essa si conosce solo il titolo, per altro incompleto, e non si sa dove si trovasse esattamente né tantomeno quando fu costruita né quando scomparve. Fu quasi certamente distrutta dal Po anche la chiesa di San Gioacchino del Bosco, citata nel sinodo di monsignor Gherardo Zandemaria del 1728.

Il fiume distrusse anche la chiesa della Beata Vergine al Tinazzo nata dalla venerazione popolare per una immagine della Madonna del Rosario dipinta su un muricciolo accanto ad uno stagno. Questa chiesa fu eretta nel 1660 e le memorie parlano di bella ed ampia costruzione che divenne, tra l’altro, un attivo centro di devozione mariana. Ma a causa delle inondazioni del Po i danni furono pesanti e il sacro edificio fu demolito per ordinanza vescovile su istanza dell’Opera parrocchiale di Monticelli d’Ongina.

C’è poi l’ampio capitolo dedicato a Polesine di San Vito e a Polesine Dè Manfredi. Quest’ultimo, con la sua chiesa dedicata a san Michele (paese e chiesa sono scomparsi da secoli) si trovava nei pressi di Stagno Parmense mentre Polesine di San Vito era situato invece nelle immediate vicinanze dell’attuale Polesine Parmense.

Polesine dè Manfredi con chiesa dedicata a San Martino sottoposta alla giurisdizione della pieve di San Genesio (San Secondo Parmense) e Polesine di San Vito con chiesa dedicata ai santi Vito e Modesto, sottoposta alla pieve di Cucullo (Pieveottoville) in diocesi, allora, di Cremona. Polesine dè Manfredi scomparve a causa delle erosioni create dal Po: il Della Torre, in un suo manoscritto del 1564 che elenca le chiese, i monasteri ed i benefici esistenti a quella data nella diocesi di Parma cita la sua chiesa quale “Ecclesia Polesini curata”, da molti anni occupata dai cremonesi aggiungendo la seguente postilla “Quae noncupabatur Polesini Manfredorum et erat in Parmensi, sed Ecclesia et tita villa fluit a flumine Padi consumpta et exportata: ideo de ea nulla est habenda ratio”. L’ultimo atto che faccia esplicito riferimento al paese è del 12 luglio 1219 (L. Astegiano: Codex diplomaticus Cremonae, vol.II, pag.137) e riguarda il pagamento di dazi al vescovo di Cremona, che esercitava nella zona anche potere temporale.

Nell’opera dell’Astegiano tanti sono i riferimenti anche a Polesine di San Vito, a partire dal 1186, ma in nessuna delle pergamene comunali pubblicate è citata la sua chiesa, tradizionalmente ritenuta di antica fondazione. Bisogna arrivare alla bolla di Eugenio IV del 9 luglio 1436 che vederla figurare, per la prima volta, accanto alle chiese della diocesi cremonese, che erano sottoposte alla collegiata di Busseto, eretta su istanza di Orlando Pallavicino, feudatario del luogo, e da lui ampiamente beneficiata.

La storia informa che la prima chiesa parrocchiale di Polesine di San Vito venne demolita nel 1400 perchè gravemente danneggiata dalle acque del Po. La successiva, costruita intorno al 1400 in sostituzione della precedente, fu a sua volta distrutta dalle acque del Po nel 1720. Va ricordato che agli inizi del XVI secolo il fiume spostò il suo letto più a sud, fino a lambire le fondamenta della rocca, che nel 1547 crollò e la stessa sorte toccò pochi anni dopo anche alla chiesa costruita da Giovan Manfredo nei pressi dello stesso maniero Successivamente il fiume riprese il suo corso e il borgo di Polesine rifiorì, con la costruzione di abitazioni e di due palazzi marchionali; la situazione precipitò ancora agli inizi del XVIII secolo, quando il Po deviò nuovamente verso sud e, straripando, distrusse nel 1720 la cinquecentesca chiesa di San Vito e, alcuni anni dopo, il palazzo delle Fosse, residenza di Vito Modesto Pallavicino.

Quest’ultimo finanziò i lavori di costruzione di una nuova chiesa (l’attuale) in una posizione più distante dalla riva, fulcro dello sviluppo successivo del paese. Vito Modesto morì nel 1731, nominando erede universale il “ventre pregnante” della moglie, che tuttavia partorì una femmina, Dorotea e, quindi, il feudo fu assorbito dalla Camera ducale di Parma, che lo assegnò, unitamente a Borgo San Donnino, alla duchessa Enrichetta d’Este, vedova del duca di Parma e Piacenza Antonio Farnese.

Nei pressi di Zibello e Pieve d’Olmi, invece, è totalmente scomparsa, da secoli, “inghiottita” dal Po, la località di Isola dei Bozardi con la sua chiesetta campestre di San Domenico e, nella vicina Pieveottoville, non resta traccia nemmeno della pieve di Santa Maria di Cucullo. A Maria era dedicata anche la chiesa di Caprariola, altro borgo completamente “cancellato” dall’azione e dai mutamenti del Po.

Scendendo di nuovo a valle non si può certo dimenticare il borgo di Cella, anticamente situato sulla sponda sinistra del Po, a due passi da Casalmaggiore; successivamente passato sulla riva destra a causa dei mutamenti del corso del Po, per poi essere del tutto “spazzato via” dal maggiore dei corsi d’acqua italiani.

Dell’esistenza di Cella restano, come preziosa testimonianza, alcune carte oltre ai registri parrocchiali (conservati a Colorno) che terminano con un battesimo datato 1764 effettuato in una abitazione privata dove era stato trasferito tutto il necessario per somministrare i sacramenti, visto che ormai buona parte di Cella era già stata distrutta dal Po.

Tra le carte spicca una preziosa mappa delle ville del Parmense facenti parte del Marchesato di Colorno, disegnata nel 1780 da Paolo Gozzi, geografo del Duca di Parma. Nella mappa, riportata anche sull’Enciclopedia Diocesana Fidentina di Dario Soresina e conservata nell’Archivio della Diocesi di Fidenza, spicca l’ubicazione della scomparsa di Cella di Colorno in alto a sinistra, in mezzo al Grande fiume.

La parrocchia era dedicata a San Pietro Apostolo, esisteva già in tempi molto remoti ed apparteneva alla diocesi di Cremona dalla quale passò nel 1601 a quella emiliana di Borgo San Donnino (l’attuale Fidenza), come tutte le parrocchie situate nell’Oltrepò cremonese (sia piacentino che parmense) comprese fino ad allora nella giurisdizione spirituale cremonese.

Era, in pratica, una parrocchia della diocesi di Cremona che, in seguito ai mutamenti del corso del Po, passò in sponda destra finendo nel marchesato di Colorno. Nel 1767, dopo una secolare erosione, le acque del Po strariparono sommergendo il territorio della parrocchia di Cella, la cui estensione, per altro, si era già molto ridotta. Pure la chiesa di San Pietro crollò sotto la spinta delle acque che si riversarono sul paese provenendo dai due corsi del fiume che si erano incrociati alle Giare di Coltaro.

Nella cartina geografica del Gozzi, datata 1780, la rettoria di Cella è indicata come scomparsa nel mezzo del Po. Una postilla inserita sopra la curvatura del fiume nel territorio dello Stato Cremonese avverte che la giara (terreno ghiaioso) di Cella, di proprietà marchionale, fu rovinata tra il 1760 e il 1778. In quest’ultimo anno la parrocchia era ormai quasi interamente scomparsa, ma ancora restava un appezzamento di terreno a sua volta sottoposto alle erosioni praticate dal Po.

Nel 1836 il vescovo monsignor Luigi Sanvitale ne decise l’alienazione a Giuseppe Ferrari di Colorno e, con provvedimento dell’11 luglio dello stesso anno, destinò il ricavato alla sagrestia della chiesa cittadina di San Pietro Apostolo. La parrocchia di Cella era compresa nel vicariato foraneo di Pieveottoville ed il primo parroco di cui si conosce il nome è don Angelo Tei, il quale rimase in carica fino al 1634. Non è noto se in quell’anno don Tei morì o, semplicemente, rinunciò al mandato pastorale. Fatto sta che gli succedette don Bartolomeo Mambriani, rettore dall’11 agosto 1634 al 15 aprile 1637, anno in cui rinunciò. Dal 16 aprile 1637 al 10 ottobre 1656 fu rettore don Francesco Antonio Aloni, che a sua volta rinunciò e, dall’11 ottobre 1656 al 1692 a guidare la parrocchia, fino alla morte, fu don Francesco Bodria. Rettore dal 30 ottobre 1692 al 1730 (anno della morte) fu quindi don Pierangelo Ferrarini.

Ultimo parroco fu don Fabrizio Vallara, rettore dall’8 febbraio 1730 al 1767 quando rinunciò.

In pieno territorio casalasco, da circa mezzo secolo, tra Cella Dati e Motta Baluffi, in quella fetta di terra attraversata dal canale Navarolo, in località Navarra, è del tutto crollata la vecchia chiesa di “Navèra” che era dedicata a Maria Vergine e, da quanto riportano le fonti storiche, era stata eretta nel XVI secolo, in segno di ringraziamento a Maria per un evento ritenuto miracoloso avvenuto in occasione di una piena del Grande fiume che, va ricordato, secoli fa aveva il suo corso posto molto più a Nord rispetto all’area in cui scorre oggi. Sempre in terra Casalasca, a Viadana, l’attuale chiesa di San Martino è, di fatto, amdata a “sostituire” quella precedente che secoli fa sorgeva un chilometro circa a sud dell’argine in una ghiara, rintracciabile in cartine posteriori, tra il Po e Mezzano del Vescovo di Parma.

Nel 1571 l’allora chiesa di San Martino fu ingoiata dall’ennesima alluvione e ne fu ricostruita una nuova in posizione più protetta ove sorge appunto l’attuale. Chissà che la gente del fiume, da Polesine Zibello a Stagno di Roccabianca, passando per Brancere, Olza, Soarza, Viadana, Motta Baluffi e per tutti quei centri che, nei secoli, hanno visto le loro chiese distrutte dal fiume, la Notte di Natale non trovino un attimo per recarsi sul fiume, per recitare una preghiera, accendere un lume ed intonare un canto, magari da una sponda all’altra.

Forse sentiranno di nuovo il dolce suono delle campane sommerse delle loro chiese, quelle vissute e costruite dai nostri antenati che, tra quelle mura hanno celebrato tanti Natali, a lume di candela ma hanno anche gioito per i momenti lieti e pianto per quelli tristi. Intorno al fiume, e sul fiume, nel solco della storia che si ripete e si rinnova, quel Bambino che viene sorriderà, come e più di prima, alle genti del Po: e le campane, sì, suoneranno. Basterà ascoltarle e lasciare un lume, anche per quelli che oggi il Natale lo celebrano dal Cielo..

Eremita del Po, Paolo Panni

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