Le botteghe che chiudono
e i paesi che si spengono
Luoghi che sembrano davvero essere lì ad attendere chi, di nuovo, alzerà le serrande e darà loro nuova vita. Ma purtroppo, per molte di queste vecchie botteghe, la saracinesca non si alzerà più e la ruggine prenderà il largo
Capita sempre più spesso, quando si cammina nei centri dei nostri borghi di campagna, di imbattersi in serrande abbassate, segnate dalla ruggine, coperte dalle ragnatele, con cartelli in piena evidenza che, con i loro “Affittasi” o “Vendesi”non lasciano spazio a dubbi.
Luoghi che sembrano davvero essere lì ad attendere chi, di nuovo, alzerà le serrande e darà loro nuova vita. Ma purtroppo, per molte di queste vecchie botteghe, la saracinesca non si alzerà più e la ruggine prenderà il largo. Restano lì, nel silenzio, in un desolante abbandono, custodi di un tempo che non c’è più; scrigni di memorie andate, contenitori di vicende umane che hanno finito il loro percorso. I tempi cambiano e, per i nostri piccoli villaggi, cambiano in peggio.
Quando si passa di fronte a queste serrande la memoria corre a tempi vissuti e finiti. Quelli in cui al forno del paese trovavi la pizza o la focaccia calda in tarda serata, o al mattino presto col fornaio immerso nella farina, e nel sudore, che ti allungava quanto richiesto dalla finestra sul retro; il salumiere sapeva indicarti il prodotto migliore e ti tagliava il salume secondo le tue esigenze; dall’emporio ti portavano le bottiglie di acqua o di vino a casa sfrecciando per il paese con il carretto attaccato alla bicicletta; la fruttivendola consigliava i prodotti migliori stagione dopo stagione; il calzolaio ti aggiustava le scarpe e solo quando ormai erano irreparabili sentenziava la necessità del cambio; il sarto ti rammendava i pantaloni o il maglione anche all’indomani della sagra del paese; il droghiere ti versava in un sacchetto la quantità di cioccolato in polvere o di sale secondo le tue esigenze…e l’elenco sarebbe ancora lungo. Noi, ragazzini di allora, ci divertivamo ad entrare nei negozi a chiedere, sfacciatamente, se avevano qualche adesivo da regalarci e passavamo ore, nella bottega del maringon (il falegname per chi non conosce il nostro vernacolo) a giocare con gli scarti del legno. Le vie dei nostri paesi erano un pullulare di persone che, a piedi o in bicicletta, portavano le borse colme di spesa. Le vie e le piazze erano dei veri e propri centri commerciali naturali.
Oggi tutto questo non esiste più. Sarebbe fin troppo facile, e lo è, dare ancora una volta la colpa alle scelte fatte dagli incravattati dal deretano piatto e pelato (benpensanti e moralisti, che rifuggo, leggano sempre politici) che, da destra a sinistra e da sinistra a destra passando per il centro (più facce, del resto, di una stessa medaglia) non hanno mai favorito la vita di questi luoghi ma, anzi, la hanno affossata preferendo favorire, ed è evidente, i colossi del grande consumismo, meglio ancora se arrivati dall’estero. Ma le colpe, stavolta, non sono soltanto di chi ha avuto ed ha in mano il “bandolo della matassa”. E’ necessario guardare anche alle nostre scelte personali e chiederci se, a nostra volta, abbiamo delle colpe. Provando a pensare a quante volte abbiamo preferito, e preferiamo, andare a fare un giro nei baracconi in cemento, nelle “cattedrali” del consumismo sfrenato, scelti perché più grandi, più belli, perché c’è tutto e sono più economici (sicuri che lo sia? Sicuri di aver realmente risparmiato e di non esserci portati a casa, ogni volta, cose che, se non le avessimo viste, non sarebbero mai finite nel carrello e non avrebbero neppure sfiorato i nostri pensieri?). Quante volte abbiamo voltato le spalle (sì, proprio così) ai nostri commercianti di paese che erano, e sono, anche i nostri concittadini e, magari, pure nostri amici? Poi è arrivato anche il tempo della grande tecnologia, delle compere online, quelle che si fanno pigiando sui tasti di un “pezzo di ferro” e, in pochi istanti, tutto è fatto. Quante volte ho chiesto ad amici e conoscenti se era assolutamente necessario agire in questo modo e le risposte sono state: “è più comodo”, “è più economico” (anche in questo caso, sicuri che lo sia?) e “ti arriva tutto a casa”…Eggià,, è vero, è più comodo, più semplice, più veloce: come è vero che anche stavolta, così facendo, si sono voltate le spalle ai nostri bottegai (quelli, piccola nota di colore, che a volte chiamavi anche in tarda serata, magari in pieno inverno, col freddo e la nebbia, perché ti mancava qualcosa e loro correvano ad aprire il negozio per accontentarti, anche a costo di scendere in pigiama, magari con qualche malanno addosso o sospendendo impegni, per intascare forse qualche spicciolo), ai nostri concittadini, ai nostri amici (poi però andiamo su qualche “pulpito” a parlare di valori e di amicizia….).
A questi amici dovremmo tutti chiedere “Scusa” per ogni volta in cui abbiamo voltato loro le spalle.
Quando una saracinesca si abbassa per sempre, tutto il paese ne esce più povero, privato non solo di un servizio importante ma ferito nella sua essenza e nel suo valore. Salvo poi lamentarsi e dire “non c’è più niente, è diventato un mortorio”, ma noi non vogliamo avere colpe. Perché queste sono sempre degli altri, no?
Quando passiamo davanti ad una saracinesca chiusa, arrugginita, segnata dai cartelli del “Vendesi” o “Affittasi”, anche se siamo figli di una società che va sempre di corsa, dovremmo fermarci in silenzio, per qualche istante, e farci qualche domanda; dovremmo chiederci quali e quante sono state le nostre scelte sbagliate, le nostre colpe, cosa avremmo potuto fare per evitare che accadesse.
Il maestro Giuseppe Verdi, che prima ancora di essere uno straordinario, eccelso musicista e compositore ed un imprenditore di profonda lungimiranza, era un Uomo (maiuscola voluta) di intelligenza immensa e generosità autentica, diceva “Tornate all’antico e sarà un progresso”. Una frase che sarebbe sufficiente per considerarlo anche un Profeta. Moniti come questi dovrebbero risuonare nella testa, e nel cuore di ogni persona, formando una consapevolezza vera e concreta. La vita e il futuro dei nostri borghi dipendono anzitutto da noi, da ogni singolo cittadino, prima ancora che dalle scelte degli incravattati dal deretano piatto e pelato.
I nostri borghi possano diventare, attraverso le scelte consapevoli di ognuno di noi, luoghi d’arte e di memoria che guardano al presente e al futuro, paesaggi capaci di dare vita ad un viaggio sentimentale e culturale in grado di portare frutti e non parole. Non dormitori ma centri propulsivi, e pulsanti, di un domani, che parte dall’oggi, capace di andare in controtendenza rispetto alle masse. I paesi del Grande fiume possono e devono fare anche questo. Se ognuno si fa protagonista e non spettatore della storia, tornare all’antico potrà essere il valore fondante e il progresso potrà essere una naturale conseguenza e non una flebile speranza: e molte saracinesche potrebbero di nuovo alzarsi.
Eremita del Po, Paolo Panni