Cultura

25 aprile: i partigiani Rino
Ramelli e Ernesto Macchidani

Oglioponews mette in evidenza, oggi, la storia di due partigiani emiliani, Rino Ramelli (classe 1925) ed Ernesto Macchidani (classe 1926) le cui vicende hanno toccato e interessato anche i territori del cremonese

In foto Rino Ramelli e Ernesto Macchidani

Nel giorno in cui si celebra il 78esimo anniversario della Liberazione e si ripercorrono, quindi, le pagine della Resistenza, partendo dal fatto che questa, come tante altre “pagine di storia”, è stata fatta e costruita dagli uomini, anche dei nostri territori, grazie a Oglioponews.it si mette in evidenza, oggi, la storia di due partigiani emiliani, Rino Ramelli (classe 1925) ed Ernesto Macchidani (classe 1926) le cui vicende hanno toccato e interessato anche i territori del cremonese.

I fatti sono ben evidenziati nel volume “Storie – La Resistenza bussetana e i suoi protagonisti” pubblicato esattamente dieci anni fa, nel 2013, dal professor Adriano Concari, presidente dell’Anpi di Busseto. I fatti legati a Rino Ramelli (Fio), partigiano della 78esima Brigata Garibaldi “Sap” (Distaccamento Morsia) iniziano il 18 settembre 1943 quando in seguito ad un attacco aereo con conseguente mitragliamento, gli distrugge il fienile di casa, a Frescarolo di Busseto. In quello stesso mese venne chiamato alle armi, proprio mentre si stava formando la Repubblica di Salò, e rimase militare fino ai primi di giugno del 1944, quando scappò.

Non ancora 18enne venne messo al Distretto di Parma, in via Padre Onorio, nei pressi di via XXII Luglio, come sedentario. Lì c’erano molte guardie da fare: alla porta, al casermone, ad una chiesa vecchia dove erano alloggiati alcuni carriarmati, e si trovavano tutti gli uffici. “Una sera – si legge nel libro del professor Concari – il suo turno di guardia è con altri commilitoni alla chiesa; solo che, mentre uno fuori dalla porta vigila, in una stanzetta interna cinque o sei soldati si mettono a ballare accompagnati dalla fisarmonica che Rino ha preso con sé e ha imparato a suonare per diletto. Disgrazia vuole tuttavia che arrivino le ronde di guardia guidate da un maresciallo, che non ha la nomea di cattivo. Sarà, però fa rapporto, così dopo due giorni è spedito via treno a Treviso. È nella città veneta che succede il fatto che spinge Rino a scappare. Svolge mansioni di cuciniere e per fare da mangiare gli serve della legna. Va quindi nel bosco in divisa, ma fa un caldo tremendo, che lo induce a togliersi la giacca ed ad arrotolarsi le maniche della camicia. Sta raccogliendo dei paletti piantati lungo un sentiero, allorchè un capitano lo sorprende in questa tenuta fuori ordinanza. Sul momento il graduato non gli dice niente, ma dopo Rino viene a sapere che vogliono comminargli venti giorni di prigione. A quel punto scappa e se ne torna a casa. Al paese, Frescarolo, sempre in quel periodo durante uno dei vari bombardamenti lanciano due piccole bombe nei pressi della chiesa. Per fortuna non fanno danni, perché cadono nella Fossa Parmigiana. Alcuni ritengono tuttavia che quelle bombe siano state lanciate in quel punto volontariamente, per far crollare il ponte che attraversa il canale. A casa – si evidenzia il volume – Rino deve evitare il ritorno in caserma. “Ho fatto dei lavori da matto, eh! Beh non fa niente!”, dice.

Tramite il padre del suo amico Mario Solari, con l’aiuto della signora Balestra, amica coi Tedeschi, viene accolta la sua richiesta d’iscrizione nella Todt. È una soluzione temporaneamente ideale: i due aggiustano le biciclette dei Tedeschi a casa del Solari, scavavano buche, tagliano argini, ecc. Con loro lavorano altri di Frescarolo: Remo Chiusa, Aldo Reparati, Sergio Caffarra e via dicendo. Consapevole comunque della sua situazione precaria conseguente alla sua diserzione, chè se l’avessero preso l’avrebbero fucilato, Rino nel Settembre del 1944 s’iscrive nei partigiani, pur continuando a lavorare per i Tedeschi”.

Ed è a questo punto che “entra in gioco” il territorio cremonese. Infatti “il 17 Gennaio 1945 – si spiega nel libro – si reca a Cremona in bicicletta, passando il Po col traghetto a Polesine, per consegnare una lettera ad un partigiano di nome Righetto; prende con sé anche l’amata fisarmonica per farla aggiustare da Carubelli. I partigiani mandano Rino, perché lo considerano la persona più sicura, la meno sospettabile, ingaggiato com’è nella Todt. L’ingresso in Cremona non presenta nessuna difficoltà. Dopo però hanno inizio i problemi. Fatta la consegna, fuoriuscendo dalla città, viene fermato: “Abbiamo ordine questi qui di arrestare tutti”.

Lo mettono in una caserma e la mattina dopo, verso le nove, lo pongono di fronte all’aut aut: o vai in Germania o firmi per la Divisione Monterosa, di stanza a Vercelli. Firma. Alla sera partenza, ma, appena fuori dalla stazione, cominciano a piovere degli spezzoni, quindi anche la linea ferroviaria viene bombardata poco più avanti. Non si va oltre, la ferrovia è bloccata. Col chiarore degli scoppi e il controllo delle guardie repubblicane, sebbene siano le nove di sera passate e ci sia già buio, ogni possibilità di fuga è preclusa. Rino fa ritorno in caserma a piedi alle tre di notte e verso la mattina comincia a nevicare. Fiocca per tutto il giorno e, mentre spala la neve nel cortile, Rino continua a guardare la caserma e così fa anche il giorno successivo, notando che in effetti si tratta di due caserme, una nuova e una vecchia, divise da un muro. Rino e gli altri prigionieri si trovano in quella vecchia, vuota tranne loro. Medita allora un piano d’evasione. Osserva innanzitutto che ci sono le inferriate nei marciapiedi, pertanto le caserme sotto hanno le volte che consentono di uscire nella contrada. Scende allora a più riprese negli scantinati, dove trova diversi pagliericci dei soldati e numerose biscie, ma soprattutto un portone sbarrato da una trave, che, secondo lui, è quello che immette all’esterno.

Avuto dai suoi compagni un coltellino, col quale riesce a tagliare la trave, facendo leva con la schiena, apre pertanto il portone. Avanzando, scorge un tunnel che sale e porta nell’altra caserma di fianco e quindi in contrada. La sera – si legge – Rino è nel tunnel e, per risalirlo, si deve togliere le scarpe e mettersele in spalla. Calatosi nel cortile della caserma nuova, rimesse le scarpe, spossato giace in un angolo tappezzato dalle cacarelle dei topi. Non gli resta che scalare una mura abbastanza alta per saltare in strada. Cosa che fa ammonticchiando delle brande. Arrivato in cima, deve però desistere dal suo proposito, perché, complice una bella luna piena e un gruppetto di persone che incuriosite lo additano, la cosa risulta troppo rischiosa. S’arrampica allora su un muretto divisorio, oltre il quale c’è un palazzone, nel cui cortile atterra proprio sopra uno dei tanti ortini di guerra con tanto di rete sopra e munito di lucchetto. Guadagna così l’uscita, varcando un enorme portone.

Si trova ora dalle parti della stazione e, badando sempre di camminare dove c’è l’ombra, Rino raggiunge il negozio di Carubelli, dove ha lasciato la fisarmonica. Quegli però ha paura e gli concede ospitalità solo per qualche ora, da mezzanotte circa fino alle quattro, dopodichè Rino s’incammina e arriva al punto in cui c’era il posto di blocco all’arrivo a Cremona, un gabbiotto di legno eretto nei campi con un ponticello che porta in strada. Non sa che fare. Arriva uno in bicicletta; Rino lo ferma e gli chiede se c’è dentro qualcuno nella garritta. L’uomo, che è un bergamino, lo rassicura dicendogli che il controllo sarebbe giunto più tardi, verso le sette.

Al traghetto del Po ci sono alcuni uomini che tagliano delle piante e le portano in spalla su un barcone. Rino riconosce qualcuno di Polesine. Senza frapporre indugio e a dispetto del tabarro che indossa, invece della giacca da lavoro, afferra una pianta insieme ad un altro e la posa sul barcone, poi la barca parte con sopra in piedi un Tedesco di guardia, il quale s’accorge dell’intruso, minaccia pure di far rapporto e però gli occhi li chiude tutti e due.

In mezzo al fiume inoltre cominciano a volteggiare sopra di loro degli aerei, una volta, due volte, poi scompaiono. Rino arriva a casa dopo l’una. “Oh –fa la madre- sei qui? E tuo padre?”. “Non so mica niente di mio padre”. Allora la Corina gli dice che quella mattina il genitore è partito per Cremona per andare nella caserma dov’era prigioniero, perché là c’è il Maggiore Alessandro Carrara di Busseto. Costui sa della fuga di Rino e si rivolge al signor Giacomo con queste parole: “Che vada via subito, che suo figlio è scappato, perché se se ne accorgono la mettono dentro!”.

Ormai – si sottolinea nel volume del professor Concari – Rino è bruciato. Sta a casa qualche giorno, poi capisce che l’unica via di salvezza è salire in montagna. È Enzo Rossi che recluta gli aspiranti partigiani e tiene i collegamenti. Un giorno prende Rino con sé e va al Cantonale, un podere vicino al canale Rigosa, dai fratelli Bertozzi, per convincerli a salire in montagna. Fa leva sul fatto che uno dei due fratelli è marito della sorella di un partigiano di Ardola, Attilio Demaldè Barlèn, ma essi non lo seguono. A Frescarolo sono in quattro a partire: Enzo Rossi, Giannino Canella, Enrico Ravecchi e Rino Ramelli. Dovrebbe andare con loro anche Sergio Caffarra, però la sera prima della partenza i suoi genitori lo dissuadono.

Verso la fine del Gennaio 1945 Rino, nome di battaglia Fio, è dunque sui monti, a Pellegrino, e la prima scena che gli si presenta davanti agli occhi è quella del piccolo campo di concentramento recintato, verso il quale si muove lentamente, scortato dai partigiani, un gruppetto di soldati tedeschi rassegnati, sul cui volto è dipinta la delusione per una guerra ormai perduta.

A Pellegrino Fio sta solamente un giorno, poi a piedi si porta a Pione di Bardi, dove sono in tanti, troppi, e c’è un sacco di neve. Alloggia in uno stanzone basso, quadrato, brutto, e quando entra ritrova un suo amico del Distretto di Parma, Valentino Raboni Edera, che ha conosciuto sul treno, allorchè da Parma l’hanno mandato a Treviso. Il Comandante del suo Distaccamento, il Morsia, forte di una trentina di Sappisti, è un tenente di Collecchio, Umberto Varacca Olio.

Un aspetto della vita partigiana che lo colpisce è il vettovagliamento, la ricerca del mangiare: succedono cose di ogni genere! Dopo i sequestri si danno delle ricevute, ma che valore hanno? Già i contadini, quando si trebbia, su dieci quintali di frumento ne possono tenere due; se poi arrivano anche i partigiani a prenderne, resta poca roba. A rimetterci di più sono quelli della collina, dove i salumifici ricevono spesso le visite dei ribelli. In montagna inoltre la gente è spaventata dalla loro presenza, perché dopo arrivano i rastrellamenti e allora sono dolori. C’è poi anche chi ne approfitta, si spaccia per partigiano per rubare”.

Il resto della storia lo si lascia, di seguito, tutto direttamente a quanto riportato dal professor Concari nel suo meritevole e prezioso lavoro: “S’avvicina la fine della guerra e Fio è coinvolto col suo Distaccamento, il Morsia, in una rocambolesca azione contro i Tedeschi a Fontanellato. La vicenda è compresa nei documenti ufficiali della 78a Brigata Garibaldi S. A. P., ma noi seguiamo il racconto del partigiano, autore di un vivido réportage del combattimento, ricco di dettagli inediti. Due squadre del Morsia per un totale di tredici combattenti partono la mattina del 18 Aprile 1945 da Pieve Cusignano alla volta di Fontanellato, guidate da Ferdinando Gaibazzi Eugenio, un sergente di S. Secondo passato nei partigiani, che la sera prima propone di andare a prendere la Brigata Nera del suo paese, ma l’idea viene accantonata.

I tredici del Morsia, impossessatisi per strada di un rimorchio azionato da un motorino messo assieme alla bell’e meglio, s’avviano dunque, ma appena avanti un po’ compare in cielo un aereo americano, che dopo due o tre giravolte comincia a mitragliare. I partigiani fanno appena in tempo a ripararsi in una casa vicina, però il rimorchio è ridotto ai minimi termini. Scampato il pericolo, ripartono a piedi. Giunti nei pressi di Toccalmatto, imboccano una stradazza, chiamata Stradone Farnese, quindi procedono fino a Paroletta. Lì arriva una donna, informandoli che i Tedeschi stanno portando via il frumento dal Consorzio Agrario di Fontanellato. Non sia mai detto, è il pensiero concorde dei Sappisti.

Appena oltrepassata la Fossaccia Scannabecco, il canale tra Paroletta e Fontanellato, Eugenio stabilisce il piano d’attacco: “Sei vanno su di qui e sette di là!”. La prima squadra, quella dei sei, deve seguire una stradina ad Est, poi girare a gomito e portarsi a Nord di Fontanellato. La seconda squadra dei sette, fra i quali c’è Fio, deve invece procedere sulla provinciale e assaltare il paese dal lato opposto. Eugenio, che pure è un comunista sfegatato, vuole Fio con sé, pur conoscendo il suo diverso orientamento politico: lui ha il Bren, Fio tiene lo zaino con dentro le munizioni. Separandosi dall’altra squadra, ordina ancora: “Aspettiamo voi altri che avete la strada più lunga, prima di attaccare. Noi stiamo fermi; quando sentiamo sparare, vuol dire che siete arrivati al posto”.

La seconda squadra non è ancora al posto, che si sente la mitraglia dei Tedeschi. Qualcuno ha tradito! O la staffetta che era una spia o… perché, se no, non può esserci un contrattacco così repentino. A quel punto, cessato l’effetto sorpresa, Fio e i suoi compagni cominciano a sparare anche loro con l’intento di penetrare in paese. Guidati dal sergente che ha coraggio da vendere, avanzano fino all’incrocio principale, da cui ci si immette in contrada verso la Rocca dei Sanvitale. C’è lì una specie di fossa ove buttarsi dentro in caso di mitragliamento e c’è pure una casa, dove abita un conoscente di Fio, il quale vi entra col sergente e sale al piano superiore.

Sono le 11 circa del mattino. Non si sente più niente. L’istinto fa dire a Fio: “Scappiamo, scappiamo! Perché, se no, qui…”. “Cosa vuoi scappare? –gli risponde il sergente- Di là non c’è più nessuno”. “Questi ci fanno la pelle, eh!”. “Ah, non ci facciamo mica ammazzare! Li ammazziamo noi prima!”. “Ah, ma io non ho mica il coraggio”. “Ah, è lo stesso!”. Dopo un po’ comincia la sparatoria contro la casa, il granaio dove si trovano i due partigiani viene centrato, le foratte del tetto vanno in frantumi. In mezzo al frumento e alla melica, nel turbinìo del gran polverone che si alza, Fio corre da una finestra all’altra con il moschetto tirando qualche colpo, ma si stanno esaurendo le munizioni e allora occorre cercare una via di scampo.

Dalla finestra di una casa vicino un borghese in camicia bianca spara addosso a loro con un mitra. Un maresciallo tedesco, quando scopre che sono solo in due, dà ordine ai suoi di farsi sotto con lui di corsa davanti, che ha adocchiata la fossa in cui gettarsi per sparare meglio, ma il sergente lo centra e quello cade morto dentro la buca. Quando poi decidono di squagliarsela, Eugenio parte per primo e Fio lo segue. In un attimo sono giù dalle scale e lì intravedono da una porta aperta un mucchio di gente nella cantina che piange e in una confusione da matti implora: “Andate via di qui, andate via di qui, so no ci ammazzano tutti!”.

I due girano dietro la casa, saltano una siepe, poi via. Attraversata la strada, finiscono quindi nelle scuole e lì creano altri guai, perché nell’edificio ci sono dentro le maestre coi bambini, che li pregano d’allontanarsi subito, suggerendo loro di dirigersi verso l’Ospedale. Anche le suore però li supplicano di andarsene. Allora si dirigono per i campi verso Cannetolo e dalle persone che incontrano apprendono che ci sono due o tre della loro squadra su un ponte che attendono soccorso.

Il Comando di Salso già avvisato manda due camions pieni di partigiani che nel giro di 15 minuti li raggiungono. Seduti sui parafanghi, Fio e i suoi compagni ritornano in Fontanellato. Di Tedeschi non c’è più l’ombra. Arrivano invero due camionette coi militi della X MAS, che però scorgendo i Sappisti fanno prontamente dietrofront. L’altra squadra del Morsia si ricongiunge anch’essa al Distaccamento a Cannetolo. Dei Sappisti rimangono feriti Massimo Laurini Passero in modo grave, Giuseppe Vagnotti Rosa di Zibello e Giannino Canella Fiero più leggermente, Canella colpito di striscio alla testa, Vagnotti con la perdita di tre dita.

Fio è ancora assieme ad Enzo Rossi e Giannino Canella in quell’azione. Si dividono appena dopo e il distacco è dovuto a motivi politici. Rossi e Canella entrano infatti in un altro Distaccamento, sempre in quella zona, più affine alla loro ideologia, formato principalmente di comunisti. Fio vive male questa nuova situazione: si arriva al punto, dice, che, quando lui e quelli del suo gruppo escono alla sera di pattugliamento, sono presi di mira, intimiditi con colpi di fucile, anche se sparati sopra le loro teste, dagli altri che li considerano dei democristiani.

Cominciano ad affacciarsi le divisioni ideologiche. Proprio quel giorno dell’attacco a Fontanellato Fio viene a casa a Frescarolo, ma il giorno dopo con la bicicletta ritorna a Pieve Cusignano ed è subito spedito a Fornovo, dove, dicono, hanno formato una “sacca”. Giunto sul posto con un camioncino, si posiziona col suo Distaccamento sulla riva sinistra del Taro, sta in ballo per un paio di giorni e spara un po’ contro i nazifascisti che tentano qualche sortita in avanti, ma che poi, vista l’inanità dei loro tentativi e non volendo mica morire tutti, si arrendono.

Fino al 29 Aprile Fio è ancora su in montagna, poi rientra a casa. Non finisce però qui. La guerra è terminata, ma nel periodo immediatamente successivo bisogna vigilare e allora lo mandano a fare il Presidio con il Distaccamento Morsia per una decina di giorni a Polesine, perché non ci sono più né le Guardie municipali né i Carabinieri, niente. Tutti i luoghi sono presidiati dai partigiani e il professor Annibale Ballarini, il partigiano Bongiorno, Comandante in capo della 78a Brigata Garibaldi SAP regge tutta la zona della Bassa parmense; dipendono da lui tutti i Comuni. Insomma il Presidio diventa un servizio pubblico indispensabile.

Dopo una quindicina di giorni dalla fine della guerra, dicono che c’è d’andare a Zibello a prendere i cavalli, mezzo cavallo per ogni partigiano. A Frescarolo sono in quattro, perciò due cavalli in totale. Enrico Ravecchi però non c’è, si trova malato a Casteggio, dove si è stabilito al seguito di un capitano, il quale smessi i panni militari inizia l’attività di viticoltore producendo un vino rinomato, il “Freccia Rossa” e coinvolgendo nell’impresa anche Ravecchi, che nel corso degli anni farà fortuna. Neppure Rino, accordatosi col Ravecchi per spartire con lui il cavallo di loro spettanza, non può recarsi a Zibello per ritirare la bestia, dovendo lavorare. Vanno pertanto Canella e Rossi col patto di condurre a casa i due cavalli da spartire fra tutti e quattro. A tarda sera davanti all’osteria di Vernizzi arrivano Rossi su un cavallo e Canella con due biciclette. “E l’altro cavallo?”. “Ehhh”. Dopo qualche giorno, una mattina piovigginosa, Rino va in bicicletta a Soragna, al Comando Sappista dentro le scuole, e racconta a tutti, c’è anche Bongiorno, la storia del cavallo sparito. Alla fine s’accontenta di una bicicletta presa in magazzino. Così, per non passare proprio da fesso! La guerra è ormai alle spalle. Lui ha altro a cui pensare, deve lavorare”.

Per quanto riguarda invece Ernesto Macchidani (Ettore), classe 1926, partigiano della 141esima Brigata “Castagnetti”, Distaccamento Ciregna, nell’Ottobre del 1944, come si evidenzia sempre nel libro del professor Concari fu al centro di una spericolata spy story che lo vede protagonista insieme ad altri partigiani di Busseto e dintorni. Ettore (questo era il suo nome da partigiano) inoltre il 19 Febbraio 1945 venne anche ferito in uno scontro coi nazifascisti a Velleia nel Piacentino e in quel frangente fu curato dal dottor Pietro Cavaciuti, Ufficiale medico della “Val d’Arda”, nell’Infermeria partigiana di Rustighni.

“Ritornando al Settembre 1943 – scrive Adriano Concari – Ernesto si trova per una breve vacanza presso i suoi nonni a Brescia e proprio l’8 di quel mese si reca a Verona per andare a trovare un suo caro amico, Rinèn Caffarra, che è da poco tempo in quella città come recluta e che consegna ad Ernesto i suoi abiti borghesi per riportarli a casa a Busseto. Tornato a Brescia dai nonni, Ernesto apprende la notizia dell’armistizio! Entusiasta ed euforico perché tutto sembra ormai finito, il mattino dopo Ernesto decide di ritornare a Busseto contro il parere dei nonni, che giustamente temono rivalse da parte dei Tedeschi. Intraprende così il viaggio che però quasi subito s’interrompe, a causa degli attacchi tedeschi alla linea ferroviaria, a metà strada fra Brescia e Cremona: tutti a piedi! Arrivato comunque a Cremona con un amico di strada, si lascia convincere dallo stesso, che non vuole stare solo, a passare per il centro della città e ad attraversare il Po sul ponte ferroviario vicino al quale il suo compagno abita, mentre Ernesto istintivamente avrebbe preferito andare dalla parte opposta verso l’attracco per Polesine e di lì arrivare a casa.

Il ponte però è controllato e i due s’imbattono in un posto di blocco tedesco: troppo tardi per far marcia indietro; sono avvistati; la tensione è tanta, ma bisogna far finta di niente. Con calma si avvicinano. Un giovane soldato prende di mira Ernesto, mentre il compagno passa; lo canzona e vuole ispezionare il suo bagaglio, ride e gli butta la valigia aperta con fare sprezzante giù dall’argine con le sue cose e gli abiti del Caffarra che si rovesciano. Gli intima quindi di andare a raccoglierli.

Ernesto va e raccatta velocemente tutto, poi torna dal soldato che gli fa cenno d’andarsene e, per essere più convincente, quando il nostro gli gira le spalle, gli dà un calcio nel sedere. Ernesto s’avvia con il cuore in gola per il timore di qualche altro dispetto o peggio, ma i Tedeschi continuano a ridere, forse della sua goffaggine, però è salvo e si sente straordinariamente libero!

Dopo l’8 Settembre 1943 – prosegue il professor Concari – i Tedeschi s’impadroniscono di tutto, portando via gli uomini e mandandoli nei campi di concentramento. A Busseto una mattina, sono le 8 circa, Ernesto sta andando a lavorare, quando supera dei Tedeschi che poi ridono alle sue spalle. Arrivato nei pressi dell’Albergo Sole, vede un furgoncino e i Tedeschi che stanno caricando delle persone. Capisce allora perché quelli che ha incrociato prima non lo hanno preso: sta infatti già andando in bocca al lupo! A quel punto si mette a correre verso la stazione. Lo vedono, urlano, lo rincorrono. Uno di loro lo acciuffa e lo trascina per il colletto sino al furgone. Portano tutti a Cremona per far loro raccogliere le armi sotto i filari.

Una seconda volta lo mettono ad aggiustare la ferrovia Cremona-Fidenza per quindici giorni. Scappa allora di nuovo e a quel punto decide di andare in montagna. I documenti che Ernesto esibisce gettano luce sulla sua vita da partigiano, in particolare rendono palese, se mai ve ne fosse bisogno, la correttezza del suo operato.

Siamo nell’Ottobre del 1944 ed Ettore, è questo il suo nome di battaglia, che è entrato a far parte della 141a Brigata Piacentina “Castagnetti”, Divisione Val d’Arda “W. Bersani”, è inviato dal Comando della Divisione medesima, come attestano il Comandante Prati e il Comandante del suo Distaccamento “Ciregna” Guido Carini, “a Busseto affinchè, arruolandosi nella locale b. n., procacciasse armi e munizioni per sé e per i nostri uomini, dato che allora armi e munizioni scarseggiavano. Il Partigiano Macchidani portava a termine il compito assegnatogli in modo esemplare e nel periodo di tempo concessogli”.

A conferma di come stanno veramente le cose -si può capire infatti la perplessità della gente che non sa del doppio gioco e può equivocare sul repentino voltafaccia di Ettore- c’è tra le carte di Ernesto un’altra importante dichiarazione di supporto all’attestato precedente a firma di Ennio Tessoni, suo compagno di Distaccamento, il quale convalida l’effettivo svolgimento della missione compiuta non solo da Ettore, ma anche da Sergio Dalledonne, da suo fratello Isolo Tessoni e da Carlo Antelmi, mentre Ennio funge da staffetta di collegamento tra gli infiltrati nella Brigata Nera di Busseto e il Distaccamento.

Scrive il Tessoni: “Il giorno 24 Ottobre 1944 essendosi reso necessario il mio rifugio nella zona partigiana fui dal Macchidani Ernesto accompagnato sino ai primi presidi di patrioti, dopo che lo stesso Macchidani mi ebbe armato di moschetto, munizioni e bombe a mano trafugate ai fascisti di Busseto. Il Macchidani stesso con i compagni, dopo essersi armati, tornarono al distaccamento portando così a termine il compito loro affidato. Quanto sopra affermato può essere confermato dal gruppo partigiano di Bersano comandato da Sivelli Mario”.

Quanta storia di vita quotidiana c’è in queste parole, che attestano tuttavia la straordinarietà degli eventi che allora accadono! Ma non è finita: anche il segretario dell’ANPI di Busseto, Jaurès Gatti, nel 1947 avvalora la veridicità dei fatti, parlando di una missione brillantemente portata a termine e durata dal 12 al 30 Ottobre 1944. La conclusione della sua certificazione taglia la testa al toro: “Il partigiano Macchidani, ferito per la lotta di Liberazione, è in possesso del Riconoscimento rilasciato dalla apposita Commissione Riconoscimento Qualifica Partigiani e Patrioti con anzianità di servizio 1° ottobre 1944. Ciò dimostra che egli già faceva parte delle forze Partigiane nel periodo della sua immissione nella b. n. di Busseto”.

Ecco quindi servito chi avesse voluto allora o ancora oggi intendesse dubitare della condotta adamantina di Ettore, persona schiva, appartata in cui batte un cuore di autentico, esemplare partigiano!”

Due vicende che interessano quindi, attraverso il solco della storia, anche il Cremonese e il Grande fiume. sapientemente riprese dal professor Concari che ha avuto il grande merito (non il primo), da straordinario custode della storia quale è da sempre, di lasciare memoria scritta di fatti che, diversamente, sarebbero potuti finire nel “dimenticatoio”.

Eremita del Po, Paolo Panni

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