Mille Luci: le Mine Vaganti e una
bimba dall'Infanzia all'età adulta
E’ quasi l’alba, la bambina tra poco si sveglierà con un bagaglio di freschi e saggi consigli, alla fatine non resta che salutarla mentre ancora dorme, mentre qualche lacrima di malinconia scende sui loro volti
A distanza di una settimana ci par giusto parlare dello spettacolo MILLE LUCI, organizzato dalla Associazione MIA e portato in scena dalla Compagnia Le Mine Vaganti, sabato scorso nel nostro teatro. La trama, o narrazione che dir si voglia, tratta di tre fatine naïf che si assumono il compito di accompagnare una bambina dall’infanzia all’età adulta. Lo fanno insinuandosi nella sua mente durante il sonno attraverso un sogno fatto di immagini, canto, ballo e sketch che hanno il compito di trasferire nell’anima della bimba validi valori e allontanarne il superfluo e l’effimero. I sogni, per dirla alla Jung, sono prodotti mentali che cercano di comunicare con noi svelandoci le nostre paure e i nostri desideri profondi e, se tenuti vivi, sono anche il motore che spinge a realizzare progetti di vita concreti, sono il legame tra fisico e metafisico, tra corpo e anima, tra conscio e inconscio. Nei sogni dei fanciulli spesso c’è quello di diventare grandi così come nei grandi c’è il sogno di tornare bambini. Questa è la sensazione che si avverte nella prima e nell’ultima scena: una bambina che nel sonno sogna di crescere e tre fatine, che per starle accanto e guidarla nel cammino evolutivo, si lasciano andare con gioia e naturalezza a comportamenti fanciulleschi. Accanto al letto della bimba una valigia che via via viene riempita di storie narrate, di esperienze e di consigli che le saranno utili non solo per diventare grande ma nella vita in generale. La pièce si sviluppa in una serie di quadri che, in maniera ironica, frizzante e divertente inscenano i migliori suggerimenti da donare una creatura che sta facendo il suo ingresso nel mondo degli adulti: il volersi bene, l’amare il proprio corpo per come è, il non perdere sé stesse per un amore tossico, il rifuggire il pensiero comune, il pettegolezzo, il giudizio, la cattiveria e le ricette preconfezionate offerteci dai media, dalla TV, dalla réclame. Emblematico il titolo che rimanda ad un celebre programma televisivo degli anni settanta, quando il cabaret di pregio cominciava a lasciare il posto a palinsesti più commerciali; la sigla stessa di chiusura “Non gioco più” cantata da Mina, che pareva preannunciare il suo ritiro dal teleschermo, lasciava intendere che qualcosa stava cambiando, che la nostra vita cominciava a perdere genuinità. Le Mine Vaganti portano sul palcoscenico la TV coi suoi tormentoni e stereotipi in maniera esilarante mettendo a nudo un mondo fasullo fatto di lustrini ipnotici, da cui la bambina deve stare in guardia. Lo spettatore assiste a una carrellata di cambi di scena, costumi e piani di recitazione che vanno dal canto alla prosa, dal ballo al mimo, dal serio al semiserio con l’abile maestria di alleggerire i momenti di commozione con inaspettate e ilari incursioni. Attrici e attori frizzanti si muovono senza tempi morti, tra onirico e reale, tra fiaba e racconto, tra cabaret e commedia con estrema naturalezza sicché il messaggio passa netto e chiaro senza grevità alcuna. E’ quasi l’alba, la bambina tra poco si sveglierà con un bagaglio di freschi e saggi consigli, alla fatine non resta che salutarla mentre ancora dorme, mentre qualche lacrima di malinconia scende sui loro volti.
Giovanna Anversa (Foto: Tiziano Schiroli)