Arte

I Corpi nudi e la libertà, a Bologna la
mostra che l'Iran non avrebbe fatto

A Bologna la mostra di 4 artiste iraniane che hanno lasciato l'Iran per poter essere libere di esprimersi

Allestita in un mese, la mostra organizzata da Genus Bononiae in occasione di Art City potrebbe rivelarsi un piccolo caso, per il potenziale delle opere esposte e per la loro carica simbolica: quattro artiste iraniane, che hanno scelto da tempo di vivere, studiare e lavorare a Bologna (si sono tutte formate all’Accademia delle Belle arti), riflettono su libertà, verginità, nudità femminile, rapporto con la natura e riuso di oggetti quotidiani e di elementi naturali. “Voci dall’abisso” si chiama la mostra, a cura di Mauro Baldassari, allestita al terzo piano di Palazzo Fava dal 2 al 5 febbraio: una finestra sul mondo creativo orientale e nello stesso tempo un messaggio di speranza.

UNA RISPOSTA CREATIVA AGLI EVENTI DEGLI ULTIMI MESI IN IRAN – “Questo momento di crisi del mio Paese ha forzato desiderio di unirsi per dimostrare che popolo iraniano è molto di più della sua situazione politica attuale”, spiega Khorshid Pouyan, autrice di di grandi nudi femminili su lana (In_quiete) che a Teheran, dove il controllo sulle artiste donne è molto stretto, avrebbero quasi sicuramente dovuto fare i conti con la censura. Dunque, l’esposizione non è solo la risposta creativa “urgente e indifferibile” agli eventi degli ultimi mesi in Iran, ma anche gesto di ribellione ad un’oppressione che ha radici lontane. Nella collettiva di Palazzo Fava emergono con forza le singole personalità delle artiste, anche la cultura persiana è fortemente presente nelle opere, sia nei temi che nelle tecniche utilizzate.

LE OPERE E LE TECNICHE – Nell’opera di Pegah Pasyar il richiamo alla libertà è rappresentato simbolicamente dagli specchi che fanno da base alle sculture realizzate in cartapesta e creta: la memoria visiva corre alla scultura del Cristo Velato di Giuseppe Sanmartino a Napoli, ma il velo in questo caso sembra alludere al soffocamento delle voci. Reyhaneh Alikhani recupera l’antichissima tecnica dei tappeti kilim per attualizzarne il messaggio, utilizzando strumenti di lavoro contemporanei e rimandi all’arte del ‘900, in un lento ricamare su forme precostituite che trasforma gli oggetti utilizzati.

Nella serie Trame, le seghe, da strumento distruttivo, diventano telai della tessitura in lana, che rappresenta nel suo ordito l’albero del melograno, simbolo della vita. La verginità evocata nella coppia Trame Pure mette a confronto la cultura repressiva in oriente con quella democratica dell’occidente. La natura è il motore della creazione del lavoro di Golzar Sanganian, che nelle sue composizioni dà nuova vita a foglie, rami, alghe. Pouyan, infine, lavora sulle figure umane. La rappresentazione del vuoto è l’elemento principale della sua ricerca.

“ABBIAMO LASCIATO L’IRAN PER ESPRIMERCI LIBERAMENTE” – “L’arte è un mezzo di espressione e di comunicazione connaturato all’essere umano. Ancora più per queste artiste il desiderio di comunicare diventa urgenza. Abbiamo assistito negli ultimi mesi a numerosissime manifestazioni che hanno voluto portare l’attenzione sulla situazione in Iran, ma questa è la prima volta che l’Italia ospita una collettiva di artiste iraniane, e come istituzione culturale siamo felici di dare loro voce e spazio”, spiega il presidente di genus Bononiae, Filippo Sassoli de’ Bianchi. Pasyar, Alikhani, Sanganian e Pouyan hanno tutte scelto di non tornare stabilmente nel loro Paese per poter continuare ad esprimersi liberamente come artiste. “C’è chi rimane là adeguandosi, aggirando la censura con la creatività, e chi, come noi, non poteva, ma non abbiamo paura“, conclude Pounyan.

Marcella Piretti (Agenzia DIRE)

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