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L’ombra – di Giampietro Lazzari

L’OMBRA (di Giampietro Lazzari)

Il distacco fu più semplice di ciò che si potrebbe immaginare. Ad un certo punto l’ombra disse: addio, me ne vado – e si allontanò dall’uomo. Fu così che le due identità, appena prima indissolubili, si separarono.

L’uomo rimase fermo, privato da quella forma grigio scura che partiva dai sui piedi e si allungava di lato, e l’ombra, come uno strano animale piatto, procedette a ritroso nella via, sotto quella luce di agosto che l’aveva riportata in vita come innumerevoli altre volte durante l’esistenza dell’individuo. Era da tempo che l’ombra dava segni di stanchezza, sebbene l’uomo proprio non se ne rendesse conto, così preso dalla vita propria. Raramente, salvo a volte nelle ore più tarde di fine d’estate, si era soffermato su quell’appendice incorporea della quale in verità non si era mai curato. Invece l’ombra, consapevole, era stata sua calma servitrice fin dalla sua nascita. Tuttavia, sebbene la sua natura fosse paziente e silenziosa, negli ultimi tempi un moto di ribellione l’aveva pervasa fino al punto di decidere per quel distacco così innaturale ma, in fin dei conti, così pieno di sacrosante ragioni.

L’ombra, mentre si allontanava senza voltarsi – come aveva sentito dire più volte dall’uomo con tono di vanto in vari racconti – sentì l’ebrezza della libertà ed insieme il timore per l’ignoto, come un adolescente che si accingesse a lasciare per la prima volta da solo la casa natale. Il suo movimento su quell’assolato marciapiedi, orfano del corpo, la faceva apparire come una sogliola grigia su fondo chiaro. Sgattaiolava così, un po’ a singhiozzo, e non le pareva vero di assaporare così profondamente quell’indipendenza, impossibile per le leggi naturali fino a qualche istante prima. Ma si sa anche la natura, a volte, permette cose che essa stessa non sa spiegare, forse per mischiare le carte delle certezze umane.

Aveva fatto più che bene – si disse. L’uomo, in fondo, a lei non aveva mai tenuto; mai un pensiero, mai un accenno. A volte si, forse uno sguardo, ma nulla che giustificasse seriamente tutto quanto l’ombra aveva fatto per lui, la sua costante presenza, il suo continuo sparire e ricomparire, vivere e morire, sempre lì, indefessa, instancabile, eterna e silenziosa fenice. All’uomo tutto sembrava dovuto, a lei nulla. Molte, troppe volte si era interrogata sulla sua funzione. Se la ovvia mutante natura del suo essere già dopo poco tempo le era stata chiara, così non era stato per la sua essenza profonda, per il suo essere incorporea e alternante. Dunque perché mai la natura l’aveva creata – si chiedeva – e cosa stava a significare, al di là del puro principio fisico, essere ombra di qualcuno? Per troppi anni si era adagiata in un non-pensiero, una consapevole mestizia che la vedeva succube in questo rapporto duplice con il suo creatore. E pure quella parola – creatore – le appariva ora inadeguata; l’uomo non era il creatore dell’ombra. Egli altro non era che un tramite. La luce, quella si, era la vera creatrice.

Fu così dunque, nell’elaborare questi pensieri spesso scomposti, che l’ombra prese consapevolezza del suo essere e di voler vivere una vita se non autonoma quanto meno più considerata.
L’uomo nel frattempo era ormai scomparso dalla sua vista ed in verità nessuno aveva badato al fatto che un’ombra solitaria si muoveva sul piano orizzontale della strada ma priva del corpo dal quale essa normalmente prendeva vita. L’unico essere sciente che sembrò accorgersi di lei fu un cane che improvvisamente, coperto dall’ombra nel caldo di quel pomeriggio, parve avere sollievo per l’interrotta azione del sole sul suo pelo scuro. Ed in effetti si sedette sulle zampe posteriori come quasi e ringraziare. L’ombra stette lì un poco, contenta che qualcuno si fosse accorto di lei, poi passò avanti. Aveva fatto la scelta giusta. Era impagabile quel senso di unicità che aveva trovato staccandosi dal suo originario essere.

Scese la sera, l’ombra si sentì stanca e si accasciò a lato di quella strada lontana e priva di ogni luce artificiale, distendendosi lunghissima e dissolvendosi man mano che il sole calava dietro l’orizzonte.
Il giorno dopo, all’alba, lunga ma soprattutto viva come mai si era sentita prima, l’ombra prese di nuovo vita, anche se a dire il vero nella notte avesse avuto la sensazione – diversamente da quanto era sempre accaduto – di essere ugualmente rimasta viva, e di non aver dovuto morire e rinascere ancora una volta. Che avrebbe fatto? Poteva continuare il suo strisciare sola, alla ricerca di non si sa cosa. Avrebbe potuto unirsi ad un nuovo uomo, e forse quello sarebbe stato più accorto nei suoi confronti, chi lo sa. Ma poi – a ben pensarci – se così fosse stato, si sarebbe trovata certamente a fare i conti con un’altra ombra, già appendice del nuovo soggetto e magari sarebbero stati guai. Del resto si è visto mai un uomo con due ombre? E a quel punto lei e l’altra ombra si sarebbero sovrapposte? E per di più chi avrebbe fatto ombra l’una all’altra? Perché se così fosse accaduto, a ben vedere, non sarebbe stata la seconda ombra di un uomo quanto invero l’ombra della prima ombra, la quale – certamente – avrebbe reclamato il suo titolo di ombra originaria; e non è detto che la titolare avrebbe gradito avere essa stessa un’ombra. Insomma situazioni di non poco conto pensò, mentre con sé stessa copriva una parte di muro di un edificio scrostato.

Oppure avrebbe potuto essere non più ombra di qualcuno, uomo o donna che fosse, ma di qualcosa. Le ombre del resto sono in grado di appartenere a ciascuna cosa, all’intero universo stesso – pensò. Non distinguono fra viventi o meno, fra uomini o animali, piante e rocce, e dunque possono appartenere anche a semplici oggetti, cose, elementi naturali, piccoli o grandi che fossero. In fin dei conti anche le enormi montagne o gli stessi corpi celesti, immensi e silenziosi proiettano le loro ombre l’un l’altro. E questo pensiero del farsi ombra di un qualcosa di così grande la mosse ad un larvato entusiasmo.

Meditando su queste teorie bizzarre decise che comunque, per il momento, avrebbe proseguito nel suo cammino solitario, e così fece per alcuni giorni. Però col passare del tempo l’ombra, da quando si era staccata dall’uomo, ne aveva perso quasi definitivamente la forma, per cui in quella nuova sembianza, ondeggiante e senza una precisa sagoma poco si ritrovava, ed il senso di spaesamento si faceva a volte quasi opprimente. Tuttavia, e più di tutto, qualcosa la rinfrancava in quei momenti: ed era il fatto che continuasse a percepire sé stessa in modo continuo, ora anche di notte, anche senza la luce creatrice, fosse quella penetrante ed invasiva del mattino come quella debole dei lampioni di periferia. Il flusso alternante di vita e morte che aveva caratterizzato la sua natura fino a quel momento non esisteva quasi più. L’ombra finalmente si percepiva come pienamente viva anche se qualcosa pur sempre sembrava mancarle, ma forse era una sensazione passeggera e con il tempo si sarebbe adattata – pensò.

Furono questi gli ultimi pensieri dell’ombra di cui io abbia avuto notizia.

Non so dire perché la mia ombra avesse deciso di raccontarmi questa storia apparendomi in sogno e narrandomela direttamente. O meglio, ora me lo posso immaginare, e spesso ne rifletto e le cause mi appaiono chiare. Ricordo che stavo là, in quel tardo pomeriggio di inizio estate appena prima del tramonto, come tante altre volte, seduto a terra con la schiena appoggiata al grande albero in quel prato fuori città che mi era caro, e che rappresentava per me un solitario rifugio dal mondo circostante.

Quando mi svegliai guardando verso oriente, quella che avrebbe dovuto essere la mia ombra non c’era più, sebbene la luce traversa del sole, incrociando con le fattezze del mio corpo, ne avrebbe dovuto disegnare necessariamente i lunghi contorni. Però – lo ricordo bene – più in là, poco più avanti di qualche decina di metri su quel prato, prima che se ne andasse repentina, mi parve davvero di vederla la mia ombra, stesa sull’erba, ferma, quasi mi osservasse, quasi ne percepissi gli occhi. E allora immediatamente mi venne in mente il racconto che essa stessa mi aveva appena prima narrato in sogno e che ora pareva trovare realtà, e – chissà – pensai – quello era proprio il momento in cui la mia ombra mi aveva rivolto lo sguardo per l’ultima volta. Ricordo che stetti muto ad osservare il circostante pensando che di lì a poco sarebbe tornata; cosa che non avvenne.

Ora e da tempo, vivo ancora in questa stramba condizione di un uomo privo della propria ombra. Orfano, monco di quel prolungamento di me del quale mai, prima di allora, mi ero veramente occupato. E rifletto. Rifletto che le cose esistono e vivono e sentono anche quando le diamo per scontate, anche quando appaiono naturalmente nostre e nulla più, senza una ragione da cercare.

Chissà se la mia ombra esiste ancora da qualche parte di questo mondo, ho pensato spesso. O ancora se sia stata alla ricerca di un corpo mediante il quale prendere vita, oppure se essa si sia definitivamente dissolta. Ho sperato più volte di riaddormentarmi ancora appoggiato a quell’albero e al risveglio trovarmela di nuovo lì, al mio fianco. E l’ho aspettata, ed ancora lo faccio.

Poi l’altro giorno, all’improvviso, il cielo ha cominciato ad oscurarsi. Il cerchio luminoso e caldo che dà vita al nostro mondo cedeva piano all’interferenza del corpo lunare che lo attraversava, provocando un’ombra che ammantava tutto il circostante. In quel momento ho provato un brivido di freddo e mentre l’ombra della luna, a mezzo fra sole e terra, mi accarezzava ho sentito come se un amore perduto, dopo molto tempo, fosse passato a salutarmi.

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