Agricoltura

Agricoltura, alla Fazi di Montichiari
si parla di manodopera. Che manca

Se una volta ad optare per introdurre il robot di mungitura erano stalle con circa 70 capi in mungitura, oggi anche chi munge 150, 200 o 300 capi pensa di fare il salto (o ha già acquistato) il robot per ridurre l’intervento della manodopera

A.A.A. mungitore cercasi. Ma anche trattorista e addetto alla campagna, addetto alla stalla e persino veterinario. Dalla Fazi 2022 che ha calamitato al Centro Fiera di Montichiari per un weekend oltre 38mila presenze si alza l’allarme manodopera.

Non è una novità, invero, e la conferma viene dai dati del 7° Censimento generale dell’Agricoltura condotto da Istat, dal quale si evince fra il 2010 e il 2020 una flessione del 27,3% della manodopera aziendale, scesa a 2,8 milioni di addetti. Nella fase post-Covid, poi, sembra essersi acuita la carenza di giovani da assumere e la manodopera qualificata. Non tutti hanno difficoltà, beninteso, ma non è sempre facile assumere un giovane o sostituire un dipendente, con il rischio che, arrivati a un punto limite, l’unica strada obbligata da percorrere sia quella di bloccare la crescita aziendale.

Una delle opportunità è data dall’automazione e il successo dei robot di mungitura nelle stalle ne è una dimostrazione. Se una volta ad optare per introdurre il robot di mungitura erano stalle con circa 70 capi in mungitura, oggi anche chi munge 150, 200 o 300 capi pensa di fare il salto (o ha già acquistato) il robot per ridurre l’intervento della manodopera.

Sergio Borella è un allevatore di 41 anni di Barbata, in provincia di Bergamo, con una stalla con 170 capi in mungitura e 55 ettari coltivati. “Siamo in cinque che lavorano, ma la scorsa primavera ho provato a cercare un dipendente per la mungitura: non sono riuscito a trovare nessuno”, confessa.

Stessa musica nel segmento della carne bovina. Michele Savoldi, allevatore con 450 capi e 70 ettari a Lonato del Garda (Brescia), conferma la difficoltà a reperire manodopera. “Noi in azienda siamo stati molto fortunati – racconta -. Abbiamo assunto l’anno scorso un giovane italiano di 23 anni, con una grande passione, ma riconosciamo che non è facile trovare personale e qualificato. E questa difficoltà potrebbe condizionare lo sviluppo delle aziende”.

Dai bovini da carne ai suini. Ne parla Andrea Cristini, allevatore di Isorella (Brescia), con un allevamento di 6mila maiali da ingrasso per il circuito della salumeria Dop e la prospettiva di incrementare i numeri del 20% il prossimo anno. “Abbiamo bisogno sempre di più di professionalità per le nuove tecnologie che le stalle e le aziende agricole hanno introdotto, dall’agricoltura 4.0 ai sistemi satellitari, fino all’alimentazione di precisione – dice Cristini -. Forse dovremmo intensificare i rapporti con gli istituti tecnici agrari e aprire le porte delle aziende ai giovani, così da fare vedere che tipo di lavoro cerchiamo e cosa offriamo”.

Un dialogo più intenso con le scuole è l’auspicio avanzato anche da Mauro Donda, direttore generale dell’Associazione italiana allevatori, che ben conosce il problema della carenza di manodopera e, inaspettatamente, rilancia su un altro tema delicato: la mancanza di veterinari per gli animali da reddito.

“Purtroppo abbiamo visto negli ultimi anni uno spostamento degli studenti universitari dai corsi di veterinaria per i grandi animali da reddito agli animali da affezione – dice Donda -. Ma gli allevamenti hanno bisogno di assistenza veterinaria anche nell’accompagnamento degli strumenti di benessere animale e non solo nella parte legata alla cura della mandria”.

Il rapporto diretto fra studenti e allevamento anche per l’Aia può essere una strategia in grado di conquistare nuovi adepti in un mercato che sconta, forse e talvolta, poca propensione al sacrificio, come qualche operatore incontrato nei corridoi della Fazi lascia intendere.

Non dovrebbe essere, infatti, una difficoltà legata agli aspetti economici, perché gli stipendi netti partono da offerte generose, corredate di tredicesima, quattordicesima e un mese di ferie retribuite. Che si tratti, a questo punto, di un cambio culturale? I giovani non vogliono più lavorare nel fine settimana? Qualcuno lo sospetta, ma nessuno ha la certezza. Pesano forse non tanto il tempo lavorato, che per la stalla di solito si aggira fra le sei ore e mezzo e le sette ore, ma il fatto che siano spezzate su due turni al mattino

Resta il fatto che l’automazione in parte assiste in modo provvidenziale l’imprenditore, ma non sempre è così. Lo spiega Fabio Giacopuzzi, allevatore di Buttapietra (Verona), che conduce una stalla da 80 capi in mungitura e coltiva circa 80 ettari, dei quali circa 7 sono dedicati all’ortofrutta in serra. “Anche nel settore ortofrutticolo ci sono notevoli difficoltà di reperire manodopera e la robotizzazione è molto presente nelle fasi di controllo e operative post-raccolta, assai meno nel processo di crescita e raccolta precedente – osserva Giacopuzzi -. Nel giro di un decennio, poi, abbiamo visto anche che è cambiata la provenienza dei lavoratori. Se prima erano, almeno nelle nostre parti, per lo più lavoratori dell’Est Europa, oggi sono stati sostituiti da indiani o pakistani”.

Una delle soluzioni, secondo Fabio Perini, presidente di FedAgriPesca Confcooperative Lombardia, è quella di “puntare sulla formazione, per elevare la professionalità e valorizzare i lavoratori”. Anche accordi internazionali potrebbero rivelarsi utili per consentire agli addetti stagionali di restare occupati per tutto l’anno, magari su piattaforme diverse. “La Spagna recentemente ha stretto un accordo con alcuni Paesi dell’America Latina per poter impiegare la manodopera in agricoltura nelle fasi di raccolta nella Penisola Iberica, per poi lasciarle ritornare in Sudamerica per completare il ciclo di raccolto nell’Emisfero Sud, sfruttando così le stagioni rovesciate e dando piena occupazione agli addetti”.

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