Cultura

Pietro Pecchioni, il più insigne
traghettatore del grande fiume

Doveroso parlarne perché gli uomini del Po vanno ricordati tutti. Oggi è possibile farlo grazie alla preziosa indicazione di Gaetano Mistura, ex sindaco di Zibello, insigne studioso di storia locale

Si è più volte scritto di traghetti e traghettatori del Grande fiume. Un mestiere, quello del traghettatore, ormai scomparso, che in passato ha dato “da mangiare” a parecchie famiglie dell’una e dell’altra riva. Del resto il fiume, in passato più di oggi, per tanti è sempre stato fonte di vita. Tra i grandi traghettatori una menzione particolare la merita, sena dubbio, Pietro Pecchioni, sepolto nel cimitero della Villetta a Parma, dove è ricordato con tanto di busto ed una artistica tomba. Doveroso parlarne perché gli uomini del Po vanno ricordati tutti. Oggi è possibile farlo grazie alla preziosa indicazione di Gaetano Mistura, ex sindaco di Zibello, insigne studioso di storia locale che, nei giorni scorsi, si è anche recato personalmente al cimitero della Villetta, rendendo omaggio a pecchioni e realizzando le foto che, con piacere, pubblichiamo con un “Grazie” grande, ancora una volta, a Gaetano Mistura per la sua preziosa e speciale collaborazione e, soprattutto, per l’impegno che, da sempre, porta avanti nello studio, nella valorizzazione e nella divulgazione della storia dei nostri territori.

Di Pietro Pecchioni, nato a Sarmato (Piacenza) nel 1828 e morto a Parma nel 1908, si parla ampiamente nel “Dizionario biografico dei parmigiani illustri” di Roberto Lasagni.

Nacque da Luigi, costruttore di barche e traghettatore sul Po. Seguendo il mestiere del padre, il Pecchioni ebbe modo sin da giovane di trovarsi a contatto colla numerosa schiera di esuli e di patrioti che passava clandestinamente il confine, per portarsi in Piemonte o in terra straniera. A vent’anni il Pecchioni si arruolò nelle guardie di Finanza del Ducato, corpo che accolse molti simpatizzanti del movimento mazziniano, tra cui diversi affiliati della Giovine Italia. Fu destinato, come doganiere, al porto di Sacca, presso Colorno, a due passi quindi da Casalmaggiore. Partecipò alle più rischiose imprese che i mazziniani prepararono per sollevare lo Stato parmense, governato da Carlo di Borbone. Alla congiura contro Carlo di Borbone il Pecchioni partecipò attivamente: fu tra coloro che, appostati presso la Porta di San Michele, avrebbero dovuto (21 marzo 1854) attentare alla vita del Sovrano. Il Pecchioni fu affiancato da un’altra guardia di finanza, Luigi Facconi, entrambi armati di stili fabbricati dal fabbro Pelagatti. Il duca doveva transitare di là per recarsi a Modena, secondo informazioni avute dal postiglione ducale Pattini, confidente dei congiurati. Ma la carrozza passò troppo rapida e il colpo mancò. Il Pecchioni riuscì ad allontanarsi e a riprendere il suo posto a Sacca.

La domenica successiva (26 marzo), giorno fissato per un nuovo attentato, si portò di nuovo a Parma e si appostò con gli altri congiurati lungo il presumibile cammino che il duca avrebbe dovuto fare per rientrare a palazzo dopo la consueta passeggiata lungo lo Stradone. Raggiunta strada Santa Lucia (oggi via Cavour), all’altezza della chiesa omonima, Carlo di Borbone venne pugnalato da Antonio Carra, appostato nella via con Ranzoni. Il Pecchioni anche quella volta si eclissò subito, rivestì la divisa e tornò al suo servizio di doganiere. Il Pecchioni partecipò anche all’insurrezione del 22 luglio, che, per incapacità dei capi, per mancanza di organizzazione e per leggerezza degli iniziatori che non seppero nemmeno tenere segreta la cosa, venne al suo nascere soffocata nel sangue.

Il Pecchioni combatté nei pressi della caserma delle guardie di Finanza e riuscì a sfuggire all’accerchiamento delle truppe. La repressione fu feroce. Due soldati, Mario Bacchini di Borgo San Donnino e Baldassarre Poli di Parma, che avevano fatto causa comune con gli insorti, furono immediatamente fucilati. Gli altri tredici morti della giornata furono vittime della ferocia delle truppe. Numerosissimi furono gli arresti, tra cui quello di Emilio Mattei che venne catturato gravemente ferito alle gambe. Alla gendarmeria ducale non sfuggì il contributo dato alla sommossa dalle guardie di Finanza e il 27 luglio vennero arrestati diversi militi di quel corpo, tra i quali il Pecchioni e l’Adorni.

Seguirono le feroci inquisizioni del Krauss, chiamato appositamente da Mantova come esperto in quel genere di istruttorie. Il 5 agosto vennero fucilati Mattei, Adorni, Facconi e Boncompagni. Il Mattei, non potendosi reggere sulle gambe fratturate, venne fucilato legato a una barella sollevata in alto. Nel secondo gruppo di inquisiti vi fu il Pecchioni, accusato di aver partecipato non solo alla sommossa ma anche alla congiura contro il Duca. Per un mese tenne fronte agli spietati interrogatori dell’inquisitore austriaco che, per strappargli la confessione, lo sottopose alla tortura delle bastonate. Con sentenza del 9 settembre, assieme agli altri correi, venne dichiarato colpevole di crimine di cospirazione contro lo Stato e condannato ai lavori forzati a vita, mentre Davide Franzoni e Alessandro Borghini vennero fucilati. I condannati vennero consegnati all’Austria e tradotti nel castello di Mantova. Il Pecchioni entrò nel carcere apparentemente rassegnato, ma col deciso proposito di evadere.

Con ben simulata tranquillità, riuscì a vincere la naturale diffidenza del personale di custodia e ad accaparrarsi la simpatia del cappellano, che lo prese con sé come chierico. Fu pure addetto al servizio nella cucina e a segare la legna nel magazzino: ebbe così modo di studiare la topografia del luogo e di orientarsi per preparare la fuga. Una parete del magazzino, coperta da una grande catasta di legno, era costituita da un muro esterno del Castello, rivolto verso il lago. Accordatosi con altri due reclusi, delinquenti comuni, che gli erano compagni nel lavoro, cominciò ad aprire un varco nella catasta, arrivando in breve al muro di cinta. In seguito, mentre a turno due segavano rumorosamente la legna, l’altro sgretolava con mezzi di fortuna il muro. Dopo diverse settimane di lavoro, la breccia fu ultimata. Il Pecchioni, fidandosi della sua agilità e della sua abilità di nuotatore, si gettò nell’acqua e, con poche bracciate, seguito dai due compagni d’evasione, riuscì a raggiungere un vicino canneto e a nascondersi. Il Pecchioni si diresse poi verso il Po, che varcò a nuoto rientrando negli Stati parmensi.

Giunto a Parma, riuscì a mettersi in comunicazione con Clemente Asperti e Andrea Maturini, patrioti, presso cui si rifugiò. Dopo pochi giorni lasciò Parma e si diresse a Genova con una lettera di raccomandazione per Nino Bixio, che lo prese come suo attendente, che servì fedelmente per tre anni. Nel 1859, arruolatosi nei Cacciatori delle Alpi, combatté valorosamente a Varese e a Treponti contro le truppe dell’Urban. Nel 1860 il Pecchioni fu di nuovo a Genova, e il 5 maggio si trovò a Quarto nella schiera dei Mille, assegnato alla seconda compagnia comandata da Vincenzo Orsini. A Talamone si staccò dal grosso della spedizione per far parte della colonna Zambianchi, equipaggiata, prima di ogni altra, di armi e camice rosse.

La spedizione, attuata a scopo diversivo, si concluse infelicemente dopo pochi giorni: il piccolo drappello, un centinaio di uomini cui si erano aggiunti i 90 volontari partiti da Livorno con Andrea Sgarallino, scontratosi coi pontifici appena varcato il confine, venne sconfitto alle Grotte di Castro. Dopo la sconfitta di Castro, alcuni dei volontari garibaldini vennero fatti prigionieri e altri si sbandarono, cercando di raggiungere in qualche modo Garibaldi. Tra questi ultimi vi fu il Pecchioni che riuscì a tornare a Genova, in tempo per partecipare, col grado di sergente, alla seconda spedizione Medici e a battersi poi valorosamente a Milazzo e al Volturno. Sciolto l’esercito meridionale, il Pecchioni ritornò a Parma dove fu assunto come guardia municipale. Si sposò con una fruttivendola che conduceva un piccolo negozio nell’Oltretorrente, dalla quale ebbe dodici figli. Quando fu collocato in pensione, non bastandogli il modesto assegno comunale né quello dei Mille, ebbe in concessione il laghetto del giardino pubblico di Parma, industriandosi a guadagnare qualche soldo dando a nolo le barche.

A proposito di Carlo di Borbone va aggiunto che, nel 1849 a 26 anni, successe (con il nome di Carlo III) nel governo del ducato di Parma alla duchessa Maria Luigia, morta nel 1847. Giovane dissoluto e prepotente, non riuscì mai a conquistarsi il favore dei sudditi. Il 25 marzo 1854, mentre passeggiava con parte del suo seguito per via Cavour, all’altezza della chiesa di Santa Lucia venne colpito da una pugnalata infertagli – si dice – dal sellaio Antonio Carra. Il duca morì il giorno seguente. Dopo l’arresto, il Carra riuscì a difendersi con un falso alibi e, con l’aiuto di un gruppo di mazziniani, tra i quali non si può escludere la presenza di Pecchioni, riuscì a riparare in America Latina. Alla morte del duca nel 1854, la reggenza del ducato venne assunta, in nome del figlio Roberto, dalla moglie Luisa Maria di Berry. Pur nella sua brevità quello fu un governo illuminato. Siamo al tempo della 1^ guerra d’indipendenza nel pieno dei moti liberali e insurrezionali che caratterizzarono quel periodo e Luisa Maria non potè esimersi dal reprimere duramente i moti mazziniani del 1854, anche se non mancò di congedare alcuni fra i più reazionari collaboratori del marito. Come ultima duchessa di Parma mise mano al risanamento finanziario dello Stato, avviò una riforma del sistema scolastico e la rinascita dell’Università con la riapertura di facoltà prima soppresse. Notevole anche l’opera di risanamento urbanistico dell’Oltretorrente, la zona più povera della città. Qui con un assetto urbano d’avanguardia realizzò quella che ancora oggi si chiama “Via della salute”, in virtù delle caratteristiche di salubrità delle abitazioni, dotate, oltre che di ambienti arieggiati, ben esposti, di adeguate dimensioni e con servizi igienici all’interno, anche di orti/giardini per lavori all’aperto. Nel 1859 il Ducato venne occupato dai Piemontesi. Nel 1861 Giuseppe Verdi, senatore del Regno, recava al re Vittorio Emanuele II l’esito del plebiscito favorevole all’annessione del Ducato di Parma al Regno d’Italia. Parma perdeva così la sua autonomia ducale e finiva in quel calderone unitario che perdura tutt’ora. Roberto di Borbone, deposto a undici anni, fu pertanto l’ultimo duca del ducato di Parma e Piacenza. Dalle prime nozze ebbe 12 figli ed altrettanti dalle seconde, tra questi Zita (di Borbone Parma), morta nel 1989 che, come moglie di Carlo I d’Austria, è stata l’ultima imperatrice dell’impero austriaco. È stata proclamata Serva di Dio dalla Chiesa Cattolica.

FONTI E BIBL.: A. Isola, in Gazzetta di Parma 11 agosto 1908, n. 222; G. Sitti, Il Risorgimento italiano, 1915, 42; Aurea Parma 1 1947, 24-30; B.Molossi, Dizionario biografico, 1957, 116-117.

Eremita del Po, Paolo Panni.

Si ringrazia Gaetano Mistura per la fondamentale e preziosa collaborazione

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