Cronaca

Il giorno in cui incontrai la morte,
il ricordo di Francesco Alessandretti

Il racconto di Giampietro Lazzari

Il 24 giugno di 38 anni fa si spegneva Francesco Alessandretti. Tutti i suoi vecchi amici lo ricordano. Tra loro Giampietro Lazzari. Questo il suo racconto… Il giorno in cui incontrai la morte

Ti racconterò una storia:….

Avevo già avuto occasione di incontrare la morte. Si.
Ma avevo incontrato la morte dei vecchi e dei malati; avevo incontrato quella morte che pone fine alle sofferenze. Ricordo ancora il respiro colmo di affanno di mia nonna, nelle giornate di agonia che precedettero il suo spirare; ..mia nonna..che poi non era la vera nonna. Era la mia prozia.
La nonna “vera”, quella naturale, morì improvvisamente il giorno della vigilia di natale del ‘40; mio padre aveva 10 anni..mio nonno era rimasto solo a crescere un figlio, e, da poco era cominciata la guerra; non so immaginare un contesto più triste.
Fatto sta che mio nonno sposò, poco dopo, la sorella della moglie defunta. Lei crebbe mio padre e poi, in parte, anche me. Da sempre l’ho chiamata nonna. E lei lo è stata sempre. Integralmente.

Dicevo, la morte la avevo già incontrata in una delle sue forme più consuete.
Non avevo paura dei morti; non avevo paura di guardarli né di toccarli; semplicemente, non so se volutamente o no, ero da sempre stato portato a fare visita ai parenti defunti ancora visibili, né mi fu mai impedito, anzi fu a volte incoraggiato, il contatto con le persone sofferenti che inesorabilmente si avvicinavano alla fine.
Credo anzi che fosse una forma di insegnamento, sulla vita che è necessariamente passeggera, sulla sofferenza e sul suo termine.

Quella sera invece incontrai un’altra morte; incontrai quella morte che, indifferente, taglia le teste degli uomini giovani e non ne dà motivo.

Era il giugno dell’84.
Il giorno dopo io ed i ragazzi della mia “leva” saremmo dovuti partire per quella obbligatoria consuetudine, ormai scomparsa, denominata “I tre giorni”; ovvero la visita psico-attitudinale, da effettuarsi appunto in tre giornate, presso il Distretto Militare di Pavia, su noi diciassettenni per la verifica all’abilità o meno al concreto fatto futuro di vestire la divisa verde a servizio dello stato.

La sera prima, era una domenica ricordo, il ritrovo motorizzato è sempre in piazza. Ognuno arriva con la sua bella Vespa sgargiante, piena ricolma di specchi, accessori, adesivi.. insomma ognuno sfoggia la cosa in assoluto più preziosa di cui abbia disponibilità, e sulla quale riversa tutte le sue attenzioni: la sua bella motoretta.

– ..stiamo qui in piazza stasera?
– ..ma no dai ci spostiamo…
– Va bene ma….dove andiamo?…
– ..eh andiamo qui…andiamo là…
Schiamazzi, risate,…..

Queste erano le parole di noi ragazzi quella sera.

Decisione presa; si va.
Non tutti però sono dotati di una moto, e pertanto quasi tutti, in barba al codice della strada che impediva di portare un passeggero ai minori, raccolgono un amico sul sedile dietro.

Fila di cinque o sei motorette che si avviano verso la campagna.
Aria un po’ fresca sul viso, il casco era ben al di là dall’essere adottato.

Siamo felici si; del resto abbiamo tutto quello che basta; spensieratezza, alle porte una avventura di tre giorni lontano da casa, l’estate. Tutto.

– …Heiiiii,…cambiamo stradaaa, andiamo su di quaaa, grido, che dall’altra parte più avanti si mettono sempre i Carabinieriii…
– …va beeene , dai giriamo di lààà….

La piccola carovana sterza per una strada secondaria; avremmo allungato di poco il percorso per la meta, ma con la quasi certezza di non incontrare le forze dell’ordine che ci avrebbero senz’altro sanzionato, come avvenuto più volte nel passato, per il fatto di trasportare un passeggero “illegittimo”…e per la marmitta un po’ troppo scoppiettante di qualcun altro.

Procede davanti a me l’amico Mario; sul sedile dietro è aggrappato il buon Francesco, di un anno più giovane di noi, e per questo non motorizzato.
I suoi riccioli lunghi svolazzano e si contorcono, presi così nelle turbolenze dell’andare.

La strada che percorriamo è bella da fare in moto, è piena di curve. E’ bello piegare la moto, “buttarla giù” come si dice no..; dà quel senso di ebbrezza che solo le cose un po’ pericolose di solito sanno dare.

Sulla strada, davanti a noi si avvicina una doppia curva, prima sinistra poi destra; l’abbiamo fatta tante di quelle volte un po’ piegati che saremmo in grado tutti di farla ad occhi chiusi; e forse qualcuno lo aveva pur fatto, per sfida.

Mario non la fa ad occhi chiusi, anzi i suoi occhi son ben aperti perché la impegna con maggiore velocità del solito;
dietro, noi che procediamo a pochi metri di distanza, lo abbiamo percepito; ed insieme abbiamo pensato:..Cristo.. Mario, ma non l’hai presa su un po’ troppo forte??!..

La moto è inclinata a 45 gradi…Mario perde il controllo; la moto scivola sulla sinistra, sbanda, invade la corsia opposta mentre, dall’altra parte sopraggiunge improvvisa dalla curva cieca, un’auto.

E’ un attimo.
E’ sempre un attimo.

La vespa è a terra, quasi sul ciglio del fosso che corre di fianco alla strada; l’auto è ferma in mezzo. Mario è per terra, si rialza; Francesco no; c’è una sua scarpa da una parte.
Fermiamo le nostre motorette, non le appoggiamo nemmeno sui cavalletti; le lasciamo chine lì per terra come cavalli feriti, sul ciglio della strada. Accorriamo. L’uomo che conduceva l’auto ha le mani nei capelli.
Non riuscii, né ora riesco, a rendermi conto di quanto tempo possano essere durati quei momenti. Se lunghi; se corti.

Ci accovacciamo intorno a Francesco che è steso a terra a viso in su, assolutamente fermo; lo tocco; lo chiamo; lo chiamiamo; in pochi secondi una chiazza rossa si apre sotto di lui ed il suo sangue accerchia e lambisce le nostre scarpe da ginnastica bianche.
Il viso di Francesco diventa bianco; poi grigio.
Ricordo che notai, – e non so perché distintamente – lo scolorire delle sue labbra.

Francesco è già morto.
La femorale recisa di netto a causa dell’urto con l’auto che aveva impattato sulla sua gamba aperta sul lato della vespa ove stava seduto da passeggero.

Sopraggiungono altre auto; altra gente si assiepa; i suoni sono come ovattati; si sentono parole, un pianto…chiamate l’ambulanza!….no è già morto..chiamate i carabinieri!…ma come han fatto?..le solite cose.

Qualcuno andò a telefonare da una abitazione che era lì accanto. Arrivarono ambulanza e carabinieri.

Ci fecero scostare; uno dell’ambulanza scuoteva la testa dal basso, parlando verso l’alto con l’uomo con il pantalone con la riga rossa.
Qualcuno tirò fuori un lenzuolo, Francesco fu coperto. Fu l’ultima volta che lo vidi.
Il giorno successivo le autorità militari del distretto non rilasciarono il nulla-osta per il rientro in paese, per partecipare ai funerali nel giorno di martedì.

Fu così che Francesco lasciò noi e questo mondo, in quella calda serata di giugno.

Non vado quasi mai al cimitero; i miei morti, e soprattutto mio padre, me li porto nel cuore, e, davvero, non sento il bisogno di piangerli sopra la lastra di granito.
O meglio, se vado al cimitero non ci vado per piangere nessuno, piuttosto, capita a volte che ci vada a fare un giro così, senza troppa tristezza.

Ma il giorno istituzionale dei morti, tutti gli anni, mia madre ce la devo pur portare, e allora si, faccio veramente il giro di tutte le persone che ho conosciuto e che oggi sono lì.

La tomba di Francesco è piccola; è sepolto insieme a suo padre, morto pochi anni dopo di crepacuore, ed a suo nonno del quale rimango sempre stupito della somiglianza.
Tutti gli anni mi fermo lì davanti; gli racconto due o tre cose di noi; del passato e dell’oggi, come fosse ancora qui.

…e tutte le volte – ed ormai sono tante – davanti a quella tomba, mi sono fatto e mi faccio sempre la stessa domanda:….se quella sera non avessi gridato di cambiare strada, chissà se lui, Francesco, sarebbe ancora tra noi…

Nessuno, né il Cielo, né me stesso, mi ha mai dato risposta.

Giampietro Lazzari

 

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