Opinioni

Italia e Russia, cancellare la
cultura, terribile "sragione"

Mi è impossibile cedere a questa terribile “sragione” perché la mia esperienza di insegnante e di responsabile di un archivio storico mi ha portato nel tempo a conoscere studenti e studiosi russi, siriani, iraniani e di altri «stati canaglia» e ad apprezzarne l’impegno, il talento, l’umanità e la generosità (qualità sempre più rare fra gli italiani)

Un’amica mi segnala una vecchia lapide posta sulla facciata di una casa fiorentina: «In questi pressi / fra il 1868 e il 1869 / FEDOR MIHAILOVIC DOSTOEVSKIJ / compì il romanzo “L’Idiota” ».

Mi lascio andare a una facile battuta: «Almeno questa non l’hanno cancellata». Ma c’è poco da scherzare, visto il fanatico clima di epurazione che si è ormai imposto in Italia nei confronti non solo del popolo russo, ma anche della sua stessa cultura. Ci si prepara a vivere come se la Russia non esistesse e non fosse mai esistita e ancora come se non dovessimo averci più a che fare in futuro, con o senza Putin. Per ciò che la letteratura, la poesia, l’arte, la musica, la filosofia e la scienza russa hanno rappresentato per la cultura occidentale, rinunciarvi significa provare a vivere e a pensare, a dir poco, con un quarto di neuroni in meno.

Ma come è possibile che nel 2022, nell’età di Internet e in piena globalizzazione si sia arrivati a questo? E non è neppure un ritorno al passato, perché Italia e Russia, almeno sul piano artistico-culturale, vantano relazioni plurisecolari, fatto che è documentabile anche in questo angolo di mondo che è l’Oglio-Po. Il casalasco Francesco Ferrari, pittore di architettura e paesista, uno dei migliori allievi della scuola settecentesca di disegno di Francesco Chiozzi, venne chiamato in Russia quale decoratore, ingaggiato come altri italiani al seguito dell’architetto bergamasco Giacomo Quarenghi, forse il più celebre dei protagonisti della stagione neoclassica di San Pietroburgo. La notizia, riportata dai nostri cronisti, trova conferma nella monumentale opera di Ettore Lo Gatto dedicata a “Gli artisti italiani in Russia” (1943). Apprendiamo che il Ferrari era impegnato tra il 1804 e il 1805 nella decorazione pittorica del Palazzo di Costantino a Strel’na (presso San Pietroburgo), allora restaurato e ristrutturato, a seguito di un incendio, dall’architetto Luigi Rusca. Dopo gli usi più diversi, dalla Rivoluzione alla Seconda Guerra Mondiale, il palazzo subì un forte degrado e una parziale distruzione, sino al 2001 quando Putin lo trasformò in residenza presidenziale, sede di diversi summit, tra cui il G20 nel 2013.

Quanto al pittore Giuseppe Diotti, nel periodo in cui ha insegnato all’Accademia Carrara, ebbe non pochi contatti, documentati, con artisti e intellettuali russi di passaggio a Bergamo, una delle tappe minori del loro Grand Tour. Ne frequentò lo studio, ammirando la sua collezione d’arte, il pittore Aleksandr Ivanov (1806-1858); lo incontrò anche il poeta Vasilij Andreevič Žukovskij (1783-1852), in visita all’Accademia Carrara nel 1838, in veste di precettore del futuro zar, e lo storico dell’arte Fëdor Čížov (1811-1877). Insomma mi pare ce ne sia abbastanza per ipotizzare una centrale di spie russe in casa Diotti e, in questo frangente, un buon motivo per censurarlo, così come il Ferrari che si può dire abbia lavorato per Putin, seppure 200 anni fa.

Lasciamo stare le liste di proscrizione e le gogne mediatiche cui sono sottoposti i “putiniani” (leggi: pacifisti), compilate e diffuse, tramite zelanti o servili direttori della stampa nazionale, proprio da coloro che con Putin andavano a nozze sino a qualche mese fa e che insieme a molti capi di stato internazionali, come ricorda in un libro recente Sergio Romano (una delle poche menti lucide che ci siano ancora in Italia), consideravano il presidente russo un partner altamente affidabile. Lasciamo stare tante discussioni e sproloqui che si sentono sulle reti televisive. Purtroppo neppure lo spazio della cultura può considerarsi immune da questa nuova forma di pandemia. Capita infatti di leggere sul «Giornale dell’Arte» un lungo articolo tutto votato all’accusa rivolta agli artisti italiani, colpevoli per non essersi schierati pubblicamente, quasi che la guerra fra Russia e Ucraina sia una specie di partita di calcio. Alla supposta ignavia dei nostri, viene contrapposto l’impegno di alcuni artisti del passato, come per esempio Goya che si sarebbe schierato contro l’invasore (l’esercito napoleonico): peccato che il fine critico che firma l’articolo – peraltro un esperto di grafica – non si sia accorto che i “Disastri della guerra” (la celebre serie di incisioni di Goya) sono una denuncia delle atrocità commesse da entrambe le parti, dagli invasori così come dai “resistenti”, perché il genio di Goya ha saputo affondare il proprio sguardo dentro quella follia totale che è la guerra per aprire i nostri occhi alle violenze inenarrabili che porta con sé.

Basterà questo per affermare che Goya era un traditore? Insomma un “putiniano” ante litteram?

Che dire poi della decisione della Biennale di Venezia di chiudere il padiglione della Russia? Gli ordinatori della rassegna hanno giudicato «inopportuna» la presenza di artisti russi quasi che potesse essere scambiata per un’implicita dichiarazione a favore dell’invasore Putin. Ma, tolta l’ufficialità di un padiglione nazionale, quel medesimo luogo avrebbero potuto riservarlo almeno ad artisti russi dissidenti, come avvenuto in passato per i padiglioni di altre nazioni legate a dittature, opzione, però, neppure discussa in questo caso.

Devo dunque mettermi nell’ottica di cancellare l’arte e la cultura russa per essere politicamente corretto? Non ci penso proprio, dal momento che sono stati proprio gli scritti di artisti, scrittori e teologi russi ad avermi insegnato a pensare, cioè in definitiva ad esercitare la mia libertà. Forse il punto è proprio questo: in un’Italia ormai in stato di guerra «non è opportuno» semplicemente pensare!

Mi è impossibile cedere a questa terribile “sragione” perché la mia esperienza di insegnante e di responsabile di un archivio storico mi ha portato nel tempo a conoscere studenti e studiosi russi, siriani, iraniani e di altri «stati canaglia» e ad apprezzarne l’impegno, il talento, l’umanità e la generosità (qualità sempre più rare fra gli italiani). Proprio in questi giorni, una giovane russa che studia in Svizzera, ma che è spesso in Italia per le sue ricerche, mi confessava di aver trascorso un periodo molto difficile a causa della sua nazionalità. Immagino che anche Pavel Kolesnikov e Georgy Tchaidze, grandi talenti pianistici e colonne portanti dell’International Festival di Casalmaggiore, abbiano incontrato simili difficoltà. A rigore non dovrei nemmeno pronunciare il nome di questi russi: chissà quante informazioni strategiche hanno raccolto nella loro permanenza a Casalmaggiore, approfittando dell’ingenuità di Angelo Porzani!

Ma, scherzi e battute a parte, come si può chiedere ad un artista russo in Italia di schierarsi contro le decisioni del proprio governo, se teme per i propri famigliari rimasti in Russia, quando noi stessi italiani siamo campioni di omertà di fronte ai più efferati delitti se a commetterli è la mafia di casa nostra o una nazione (per esempio l’Egitto) con cui intratteniamo relazioni economiche vantaggiose? A ben vedere non è neppure una questione di prese di posizione: nella perversa logica dell’identificazione del nemico, una logica che fa ripiombare l’umanità indietro di molti secoli e fa emergere nel singolo individuo le peggiori pulsioni che si pensavano cancellate o almeno tenute a freno dall’evoluzione e dalla cultura, non si va tanto per il sottile perché i russi devono essere cattivi per definizione.

Come ripete da tempo Papa Francesco: quanti interessi dentro questa guerra a scapito del popolo ucraino, doppiamente vittima di Putin e degli sporchi affari dell’Occidente! Dopo la vera pandemia descritta e vissuta come stato di guerra, ora la vera guerra narrata e vissuta come pandemia russa, è quanto vi sia di più funzionale a distogliere l’attenzione dai veri nemici del popolo italiano che già da tempo avevano steso la loro tela di ragno sull’Italia tra le speculazioni dei petrolieri e dell’alta finanza, la lobby delle armi, la mafia del cemento e della logistica, la piovra di un potere criminale ormai saldamente insediato in ogni luogo dove si prendono decisioni, capace di condizionare persino le scelte nei campi della cultura e della tutela. Vien quasi da rimpiangere il tremontiano motto «Con la cultura non si mangia» di fronte alla situazione attuale, perché ora cultura, insieme a territorio e sanità sono letteralmente mangiati da uno Stato cannibale.

Valter Rosa

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