Cronaca

Incendio al macello, la 93enne non
fu la mandante. Una frase la scagiona

Gli imputati

Non ci sono prove che Adele Anghinoni, 93 anni, e Jalil Samir, 56 anni, suo ‘uomo di fiducia’, abbiano appiccato l’incendio al macello suinicolo Icam di Solarolo Rainerio, posto in fregio alla provinciale Giuseppina, distrutto da un rogo scoppiato verso le 21 del 14 agosto del 2016. Entrambi sono stati assolti dall’accusa di incendio doloso.

Le fiamme avevano avvolto il tetto dell’azienda e gli ambienti interni dove erano accatastati circa 200 quintali di carcasse di animali. Due giorni dopo il sindaco aveva emesso un’ordinanza di sgombero e inagibilità dell’edificio, rimasto completamente danneggiato. Lo stabile era stato posto sotto sequestro in quanto l’incendio, secondo i rilievi effettuati dai vigili del fuoco di Cremona, aveva origine dolosa. 

All’epoca la Anghinoni era la proprietaria del lotto dove sorgeva il macello, poi affittato a Giuseppe Bosco, che ne aveva fatto un macello suinicolo. Qualche giorno prima del rogo, il lotto era stato messo all’asta e Bosco era in trattativa con la banca per acquistarlo. Un’idea che non era affatto piaciuta alla Anghinoni, che tra l’altro aveva degli screzi con Bosco perchè da qualche mese non le avrebbe pagato l’affitto.

Jalil era il tuttofare dell’anziana. “Per colpa di questa storia il mio nome è apparso sui giornali e ho perso ben tre lavori”, aveva  ricordato l’imputato, in Italia dal 1988, in tasca un diploma da tecnico commerciale a Casablanca. L’uomo, che ha lavorato per anni per la Anghinoni, la considera una “seconda mamma”. La sera dell’incendio, Jalil aveva detto di essere stato al circolo Acli di Cremona, dove dal 2009 al 2017 è stato consigliere, mentre la Anghinoni era stata a Cremona e poi da un amico a Cappella Picenardi. Alle numerose chiamate di amici e conoscenti che la cercavano per avvertirla dell’incendio, la donna non aveva mai risposto. Aveva risposto solo ad un’amica barista che le aveva detto che il macello stava bruciando. “Sono stato io ad accompagnarla sul posto”, ha detto oggi l’amico, un allevatore di polli. Lui si è definito “ex amico”: “non la voglio più sentire”, ha detto l’uomo in aula, convinto di essere stato tirato in ballo dall’imputata che stava cercandosi un alibi.

Il testimone è lo stesso che aveva guidato la macchina dell’imputata per accompagnarla dai carabinieri per essere sentita durante le indagini. Nell’auto, gli inquirenti avevano messo una cimice. Appena uscita dalla caserma, la Anghinoni, rivolta all’amico, aveva pronunciato la famosa  frase in stretto dialetto casalasco che è stata al centro del procedimento, un’intercettazione ambientale che secondo la procura avrebbe dovuto inchiodare l’anziana alle sue responsabilità:  gli investigatori l’avevano tradotta così: “Quello lì – riferendosi ad un uomo del suo entourage che era stato convocato con lei e Jalil – “non sapeva neanche che io avevo incendiato il capannone”.

“Una traduzione tutta da verificare”, aveva sostenuto invece la difesa: la frase, tradotta correttamente, sarebbe stata così: “Quello lì non sapeva neanche che avevo il capannone bruciato”. Una versione confermata anche dall’interlocutore della Anghinoni, al quale la donna non aveva fatto alcuna ammissione sulla sua presunta colpevolezza.

Per l’imputata, il pm aveva chiesto una pena di tre anni e un mese, mentre per Jalil l’assoluzione. A processo, la Anghinoni era difesa dall’avvocato Cristina Pugnoli, mentre l’uomo di fiducia dall’avvocato Giovanni Bertoletti.

Secondo gli inquirenti e i vigili del fuoco, il rogo era doloso. L’autore o gli autori restano sconosciuti.

Sara Pizzorni

© Riproduzione riservata
Caricamento prossimi articoli in corso...