Cronaca

25 aprile: i religiosi nella
resistenza e nella liberazione

“Ricordatevi dei vostri capi, i quali vi hanno annunziato la parola di Dio; considerando attentamente l'esito del loro tenore di vita, imitatene la fede”: è solo un piccolo passo tratto dalla Lettera agli Ebrei, che dovrebbe fungere sempre da monito quando ci accingiamo a ricordare i pastori che hanno guidato, sull’una e sull’altra riva del fiume, le nostre comunità

Tra l’una e l’altra riva del fiume, numerosi sono stati i sacerdoti protagonisti della Resistenza. Alcuni passati ampiamente alla storia, altri invece forse meno noti ma al centro di esperienze che, all’interno delle loro comunità, li hanno visti in prima fila, spesso anche a costo di rischiare la vita, sempre accanto ai poveri, agli indifesi, a chi era in maggiore difficoltà. Il loro ricordo deve restare vivo, la memoria delle loro azioni deve essere una lezione per tutti, il seme che hanno messo a dimora deve continuare a portare frutto. “Ricordatevi dei vostri capi, i quali vi hanno annunziato la parola di Dio; considerando attentamente l’esito del loro tenore di vita, imitatene la fede”: è solo un piccolo passo tratto dalla Lettera agli Ebrei, che dovrebbe fungere sempre da monito quando ci accingiamo a ricordare i pastori che hanno guidato, sull’una e sull’altra riva del fiume, le nostre comunità. A settantasette anni dalla Liberazione, chi scrive queste righe, molto indegnamente, vuole tentate di ricordare alcuni di questi pastori. Con una premessa, quella del chiedere “Perdono” a tutti coloro che, certamente, finirò per dimenticare, per ignoranza, o per superficialità o per semplice non conoscenza. E’ pacifico il fatto che molte azioni, anche eroiche, non sono passate alla storia e non sono state scritte, per la semplicità e l’infinita modestia di coloro che ne sono stati protagonisti. Certo del fatto che, dal Cielo, leggeranno queste righe, confido nel loro perdono e sono rincuorato dal fatto che il Signore, che nella loro esistenza hanno servito, ha già riservato per loro il Premio Celeste.

E’ tuttavia giusto e doveroso tratteggiare un ricordo di quei sacerdoti, e di quei religiosi, che nel tempo della Resistenza hanno scritto pagine importanti di vita dei nostri territori.

Don Primo Mazzolari

Uno su tutti, del tutto ovvio, che non ha certo bisogno di presentazioni è don Primo Mazzolari, una delle figure più eminenti della Chiesa del Novecento. Non è certo un mistero il fatto che per lui la Resistenza altro non era che un primo passo verso una rivolta morale dal profondo valore etico da realizzare nel tempo attraverso la formazione delle coscienze. Nella ‘Lettera a un partigiano’ (1945) don Mazzolari scriveva: “La brigata portava un nome e un’insegna di partito ma niente ti prendeva di quel ‘particolare’. Tu eri ‘partigiano’ della libertà di tutti, lottavi e soffrivi per tutti gli italiani…Fra tante tristezze e disgrazie, l’adozione della patria da parte del popolo è l’avvenimento consolante della nostra storia. Proprio coloro che non avevano nessun motivo di attaccamento e di riconoscenza, slargarono verso essa, quasi all’improvviso, il cuore e le braccia per proteggerla e salvarla”. La Resistenza, per lui, era un esercizio di cittadinanza attiva: è capace di resistere chi sente profondamente la responsabilità di poter contribuire al bene di un popolo. Quindi la Resistenza fondata sulla gratuità, che porta al sacrificio di sé, come dice sempre ‘Nella Lettera a un partigiano’.

In lui, affiorava in modo chiaro la consapevolezza che, grazie alla guerra di liberazione, il popolo per la prima volta avesse preso direttamente in mano i destini della patria e, l’idea che la ricostruzione potesse avvenire soltanto attraverso lo sforzo di tutti, grazie anche a una politica di pacificazione nazionale capace di evitare sia i rigorismi estremi di una malintesa epurazione sia i facili trasformismi.

don Luisito Bianchi

Non solo don Mazzolari ma anche altri sacerdoti, come anticipato, sono stati protagonisti della Resistenza e della Liberazione. Tra questi, una menzione particolare, la merita senz’altro don Luisito Bianchi, di cui ricorre proprio quest’anno il decennale della scomparsa. Nato a Vescovato nel 1927, fu a lungo cappellano dell’abbazia di Viboldone, alle porte di Milano. Nella scelta di farsi prete, don Luisito prese ispirazione proprio dalla preziosa testimonianza di vita di don Primo Mazzolari e fu un testimone autentico e fedele di quel celebre passo del Vangelo di Matteo che dice “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”, mettendo sempre il tema della gratuità al centro della propria esperienza umana, snocciolandolo in tutti i suoi scritti, dai diari alle poesie, dalla narrativa ai testi della memoria. Non solo sacerdote esemplare ma anche scrittore, poeta, romanziere, saggista, docente di materie letterarie e di sociologia, impegnato nell’Acli a Cremona come a Roma, ma anche prete operaio, benzinaio, infermiere e traduttore. Per un periodo anche missionario in Belgio. Proprio in questi giorni tutti farebbero bene a mettere mano (oltre che testa e cuore) sul suo celebre libro “La messa dell’uomo disarmato”, edito da Sironi, romanzo sulla resistenza nato da una profonda riflessione dell’autore sul senso stesso della sua vita. In questo volume, don Luisito racconta e descrive l’esperienza per lui cruciale della Resistenza ed emergono in modo chiaro le sue prese di posizione per una Chiesa povera accanto ai poveri.

Beato Teresio Olivelli

Non si può inoltre non ricordare l’impegno dei cattolici ambrosiani nella lotta di liberazione del nazifascismo. Tra questi il beato Teresio Olivelli che, in occasione della Pasqua del 1944, nel carcere milanese di San Vittore scrisse “Dio della pace e degli eserciti, Signore che porti la spada e la gioia, ascolta la preghiera di noi ribelli per amore”. Una invocazione che divenne il manifesto stesso dell’impegno dei cattolici ambrosiani nella lotta di liberazione dal nazifascismo. Olivelli fu una vera e propria anima del movimento clandestino lombardo delle Fiamme verdi, medaglia d’oro al valor militare. Morì di stenti nel lager di Hersbruck che non aveva ancora trent’anni e, quattro anni fa, nel 2018, è stato beatificato a Vigevano. Ma perché “ribelli”? Perchè la Resistenza fu innanzitutto rivolta morale, fatta di dolore e di chiarezza, contro un’aberrante concezione dell’uomo e della storia, sovvertitrice degli stessi valori supremi dell’esistenza.

Monsignor Enrico Assi

Non è stato quindi un caso, dunque, che la Resistenza, in terra ambrosiana, sia nata quasi ovunque all’ombra dei campanili, e non certo all’ultimo momento. Sbocciò e trovò vigore direttamente nelle parrocchie, “come il risultato obiettivo di un’educazione religiosa e civile che si protendeva nella difesa dei valori cristiani negati o distorti dalle tendenze esclusiviste e totalitarie del fascismo”, come scrisse monsignor Enrico Assi, indimenticato ed amato vescovo di Cremona, protagonista della lotta antifascista nel territorio di Vimercate. Monsignor Assi, di cui ricorre il trentesimo della morte, svolse un’opera di intensa attività antifascista nel periodo compreso tra il 1943 e il 1945. Questo gli costò anche l’arresto che lo portò ad essere rinchiuso per due volte nel carcere di Monza. Il presule diede alle stampe il libro “Cattolici e Resistenza. Testimonianza inedita su un episodio della Brianza (emblematico per l’Alta Italia)”, interessante volume in cui ricostruisce un lembo della Resistenza al fascismo soffermandosi in particolare sulla storia dei gruppi antifascisti cattolici, che gravitavano intorno al Collegio Arcivescovile Niccolò Tommaseo e ad altre organizzazioni parrocchiali.

Demetrio Annibale Carletti

Figura rilevante, legata ancora una volta in modo particolare a don Primo Mazzolari, è quella di Demetrio Annibale Carletti, di cui su Ogliponews si è già trattato di recente. Un uomo, ed ex sacerdote, di cui proprio quest’anno ricorre il cinquantesimo della morte, che ha occupato un ruolo importante soprattutto, va precisato, nella prima guerra mondiale, ma con un impegno di non poco conto anche nella seconda. di cui, proprio quest’anno, ricorre il cinquantesimo della morte. Nacque a Solarolo Monasterolo, frazione di Motta Baluffi, il 23 luglio 1888. Fu sacerdote e militare italiano, decorato di medaglia d’oro al valor militare durante il primo conflitto bellico e divenuto un vero e proprio simbolo dei cosiddetti preti-soldato, i sacerdoti in grigio verde. Attraversò, in prima linea, tanto il primo quanto il secondo conflitto bellico, soffrì e amò prodigandosi sempre per il prossimo. Amico di Don Primo Mazzolari, nel cinquantesimo della morte non può e non deve essere dimenticato, proprio per le opere e gli esempi umani di cui si è reso protagonista. La sua figura, anzi, andrebbe ampiamente rivalutata. Fin da giovane seminarista dovette sostenere le lotte dell’anima, combattuta tra l’ipocrisia dei superiori e il suo ideale di sacerdozio improntato ad un apostolato fatto di carità, bontà e giustizia. Fu proprio la sofferenza spirituale e psicologica di quegli anni ad unirlo in una profonda amicizia con Primo Mazzolari, che all’epoca, a sua volta, era un seminarista. La loro amicizia durò tutta la vita. Annibale Carletti fu ordinato sacerdote nel 1911, destinato alla parrocchia cittadina di Sant’Ambrogio. Durante la prima guerra mondiale fu un eroico cappellano militare. Il 15 maggio 1916, durante la durissima battaglia di Quota 418 a Castel Dante, diede prova concreta di coraggio, dinamismo e serenità. Fu leggermente ferito dallo scoppio di una granata ma proseguì comunque l’attività radunando circa 300 soldati che si ritiravano dalla trincee distrutte a causa del bombardamento. Grazie al suo grado prese il comando del reparto in sostituzione agli ufficiali caduti, rifiutando la resa intimatagli da un graduato austriaco e incitando i soldati alla rioccupazione delle trincee sconvolte. Al suo ordine fu riaperto il fuoco verso i nemici ai quali furono inflitte gravi perdite.

Giunta la notte e disposto il ripiegamento dei superstiti, rimase sul campo per raccogliere le ultime volontà dei morenti; avvistato dagli austriaci in perlustrazione si sottrasse alla morte fuggendo per i dirupi. Il giorno seguente si ricongiunse al 207° nel frattempo concentratosi a Costa Violina e numericamente rinforzato dall’arrivo di altri reparti. Durante l’organizzazione della nuova resistenza il reggimento fu colto di sorpresa dall’artiglieria austro-ungarica. Mentre i soldati sgomenti si apprestavano a difesa guidati dai nuovi ufficiali intervenuti, don Carletti mise in salvo numerosi feriti trasportandoli a spalla in luoghi meno esposti ed incoraggiandoli a resistere. Incurante della vita deterse le loro ferite recandosi più volte ad attingere l’acqua di una sorgente battuta dalle mitragliatrici nemiche. Il 17 maggio i fanti del 207°, nonostante fossero stati decimati, attaccarono ripetutamente il fronte austro-ungarico che pur riuscendo a prevalere pagò la vittoria con gravissimo sacrificio. Soltanto pochi giorni dopo, il 30 maggio 1916, don Annibale confermò la sua fama di soldato coraggioso e tenace ma anche di sacerdote zelante. A Passo Buole, dove gli austriaci penetrarono alcuni elementi delle trincee italiane e si fece più imperioso il bisogno di rinforzi, raccolse numerosi soldati sbandati che vinti dallo sgomento fuggivano verso le retrovie allontanandosi dal pericolo. Al giustificato timore di costoro contrappose la calma e serena parola di fede, convincendoli a compiere il proprio dovere. Gli stessi soldati lo riconobbero quale comandante e li condusse al posto d’onore combattendo insieme a loro nel punto più ferocemente conteso. I soldati, animati dal suo esempio di coraggio e dedizione, recuperarono le posizioni perdute difendendosi addirittura a sassate. Quando il cappellano comandò il fulmineo contrattacco alla baionetta, il reggimento guadagnò terreno e mantenne il possesso di Passo Buole, in seguito battezzato “la Termopili d’Italia” per l’eroica resistenza sostenuta sull’importante posizione tra la Vallarsa e la val Lagarina. Fu proprio in quella circostanza che don Annibale Carletti si guadagnò sul campo la medaglia d’oro al valor militare e finì sulla copertina della celebre Domenica del Corriere, disegnata da Achille Beltrame. La decorazione gli fu conferita il 26 ottobre 1916 dal Generale Armando Ricci Armani. Dopo la valorosa impresa di Passo Buole, il sacerdote fu protagonista di un avvenimento che fece aumentare in tutti i soldati un sentimento ammirazione e devozione. Nel giugno del 1916 i Reali Carabinieri della stazione di Ala intercettarono quattro soldati che si erano allontanati dalle trincee dello Zugna senza licenza. I giovani militari, trasferiti a Marani per essere processati, intesero che la loro condanna era già stata scritta alla vista di alcune fosse appositamente disposte dai genieri. Erano i giorni terribili dei processi sommari e delle decimazioni, veri e propri omicidi di massa voluti dagli alti Comandi per tenere in riga i soldati sbandati e disertori. Don Annibale, venuto a conoscenza dell’episodio, scese dallo Zugna e andò a difenderli, riuscendo a far commutare la condanna a morte in carcerazione per alcuni anni. Addolorato da questa situazione, che confliggeva gravemente con i propri ideali, chiese e ottenne il trasferimento ai Reparti d’Assalto, quasi a voler riaffermare la propria fedeltà alla patria vittoriosa. Indossata la divisa degli Arditi prese quindi parte a vari episodi cruenti verificatisi durante la ritirata del Piave, dapprima a Pieve Soligo, poi a Monfenera e sul Monte Tomba. Nel frattempo a Cremona la sua persona e le sue imprese venivano da tempo strumentalizzate sia dagli interventisti che dal clero, per la maggior parte neutralista e ostile. I primi, di stampo liberal-massonico, lo esaltavano contrapponendolo al Vescovo e alla gerarchia ecclesiastica; i secondi, fautori del migliolismo, lo screditavano come sacerdote. Alla fine del 1918 fu quindi comandato Ufficiale Propagandista presso il Comando della V Armata al fine di controbattere il diffondersi del disfattismo tra i soldati. Anche in questo ruolo si dimostrò tenace, adoperandosi per sostenere e fortificare il sentimento patriottico della truppa e della popolazione civile di Parma, Piacenza e Cremona, territori dove maggiormente avevano fatto presa le idee sovversive della sinistra rivoluzionaria. Nel 1919 scrisse articoli e tenne conferenze di natura interventista ed il vescovo di Cremona monsignor Giovanni Cazzani, esponente cattolico del pacifismo assoluto, lo richiamò al rispetto della disciplina ecclesiastica. Tra i due si manifestò una chiara e mai nascosta ostilità; la stessa che don Carletti espresse anche verso l’allora Partito Popolare dell’onorevole Guido Miglioli. ritenuto un disfattista e agitatore di masse.

Don Carletti continuò ad essere un propagandista con costanza e persuasione sino al definitivo collocamento in congedo dal Regio Esercito, ottenuto nel mese di agosto del 1919. Riprese quindi la vita sacerdotale con il fervore e la passione di chi aveva da proporre un progetto nuovo e innovativo, uno stile pastorale sganciato da tante norme formali e validamente sperimentato tra i soldati. Fin da subito dovette misurarsi con il neo-costituito decreto Redeuntibus, attraverso cui la Chiesa istituzionale si preoccupava di rimodellare il prete-soldato reduce dalla guerra secondo schemi tradizionali che egli riteneva inadeguati alla nuova realtà sociale ed ecclesiale. Il suo concetto di cristianesimo, di fatto, volgeva a una solida sintonia con la vita reale; vivendo a pieno le sofferenze di una umanità squarciata dalla guerra riteneva che la Chiesa, attraverso salutari modifiche di struttura, potesse rivelare meglio il proprio volto consolatore. Fu chiaramente allineato al riformismo religioso promosso dalla Lega Democratica Nazionale di Eligio Cacciaguerra, esprimendo obiezione rispetto all’esercizio dell’infallibilità pontificia e tratteggiò come prima necessità la concezione di un modello innovativo di sacerdote, oppositore dell’istituzionalismo giuridico che tanto premeva sulla Chiesa al punto da farla apparire una vasta organizzazione politica. Questi ideali erano simili a quelli tratteggiati dall’amico don Primo Mazzolari, ma evidentemente più netti e radicali. Nell’ottobre 1919, per promuovere la sua idea di riformismo pastorale mando una lunga lettera-confessione al Vescovo Cazzani attraverso la quale, in modo tumultuoso e in termini schietti, espresse le idee e i sentimenti con i quali era tornato dalla guerra. Sperava, don Carletti, di fare breccia nel vescovo e invece lo scontro fu nettissimo. Erano due mentalità e due stili pastorali completamente opposti e al punto che monsignor Cazzani interpretò le parole di don Carletti come l’annuncio della defezione dal clero cattolico. Ci furono poi ulteriori missive, repliche e controrepliche che non fecero altro che rimarcare due punti di vista totalmente diversi. Don Carletti divenne così sgradito al clero cremonese e venne addirittura sospettato di apostasia ed errori modernistici sull’infallibilità della Chiesa. Il Vescovo Cazzani, compilando una relazione ufficiale relativa ai cappellani militari, lo indicò incensurato quanto a condotta morale, ma corrotto nella mente e quando la relazione giunse a Roma il sacerdote fu colpito da scomunica latae sententiae e risolutivamente espulso dalla Chiesa istituzionale vedendosi costretto ad accettare, con grandi sofferenze, la riduzione allo stato laicale,. Da laico si misurò con le vicende politiche del primo dopoguerra, confuso e ribollente, caratterizzato dalla violenza della fazione montante, quella di Mussolini. Nonostante il legame nazionalista, la medaglia d’oro e il reducismo, Carletti avversò il fascismo in nome degli ideali democratici. Durante il 1920 fu comiziante di piazza e scrisse articoli di natura antifascista. Questa palese condotta suscitò la collera di Roberto Farinacci che cominciò a perseguitarlo e ordinò una regolare sorveglianza da parte della polizia.

Bandito da Cremona raggiunse clandestinamente Firenze dove si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza. A Firenze, nel 1921, fu promotore e organizzatore della Federazione Provinciale degli ex Combattenti, di cui fu il primo presidente e con la quale difese l’autonomia politica di fronte all’assorbimento che ne tentava il fascismo. Fu, quella, una vera e propria forza antifascista. Tra il 1922 ed il 1923 fu lusingato da cariche onorifiche e ricevette anche offerte di impieghi remunerativi al fine di cessare l’attività di propaganda. Ma lui, fedele ai suoi ideali e soprattutto ai suoi valori, non scese mai a compromessi proseguendo la sua battaglia ideologica, aderendo a Italia Libertà e continuando a lottare sempre per gli ideali di libertà che lo animavano nel profondo. Nel 1924 si laureò e iniziò la professione di avvocato fissando la sua residenza a Firenze dove, nello stesso anno, sposò Maria Iolanda Bosio con il rito della Chiesa Anglicana. Mantenne sempre uno speciale legame con la sua terra d’origine ed eresse una villa a Cingia de’ Botti, dove aveva amici e parenti, e dove trascorreva con la famiglia i mesi estivi. Don Primo Mazzolari, parroco a Bozzolo, lo raggiungeva proprio nella villa di Cingia dè Botti e la loro intensa amicizia proseguì inalterata anche dopo l’abbandono del sacerdozio.

Ebbe due figli, Giannicolò e Caterina (quest’ultima nata a Cingia dè Botti nel 1941 e battezzata proprio da Don Primo Mazzolari). Dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale la famiglia Carletti si trasferì stabilmente a Cingia dè Botti dove, di nuovo, Annibale Carletti si distinse per la straordinaria generosità e la sensibilità d’animo. Durante gli anni del secondo conflitto bellico fu accanto ai compaesani più bisognosi procurando, per loro, cibo e medicinali e rifornì con quintali di farina e di frutta l’ospedale Germani quando la struttura fu destinata ad accogliere. Per aver nascosto nella sua villa alcuni ebrei e alcuni ufficiali inglesi fuggiti dai campi di prigionia, fu pure condannato a morte dai fascisti, ma riuscì miracolosamente a sfuggire alle ricerche continuando sempre la sua battaglia in nome degli ideali più veri della libertà. A guerra conclusa si oppose sempre a qualsiasi sorta di violenza, disonestà e vendetta, mettendo sempre l’amore per il prossimo davanti a tutti, senza distinzione di idee, ideologie e azioni, salvando anche la vita a quattro fascisti che, in precedenza, lo avevano invece condannato a morte. Condanna per la quale, le quattro “camice nere” erano stati poi a loro volta condannati a morte dai partigiani. Ma lui, Carletti, li salvò, sempre in nome di quell’amore che ha costantemente profuso verso il prossimo. Un uomo della carità e dell’amore, di grande spiritualità e profonda moralità cristiana, che ha saputo mantenere, nonostante le traversie, il Vangelo al centro della sua azione. Memorabili le parole che pronunciò alla fine del suo cammino terreno: “Nessuno ha mai cercato di leggere in questo libro chiuso la mia avventura di guerra e dopoguerra, tutto il bene e tutto il male che posso aver fatto, ma con l’innocenza dello spirito. Ho avuto il bando da Cremona regnante Farinacci e il bando dalla Chiesa regnante Monsignor Cazzani”. Una vita eroica e fatta di opere di carità, la sua, che a cinquant’anni dalla morte, almeno per rendergli in qualche modo giustizia, dovrebbero fargli meritare l’apertura del processo di canonizzazione e, quindi, la gloria degli altari. Quella che meriterebbe anche il già citato don Luisito Bianchi.

Don Oreste Vismara

Spostandosi sulla sponda emiliana del Po, diverse sono state le figure sacerdotali di rilievo. Tra queste quella di don Oreste Vismara, in tempo di guerra parroco della piccola località di Semoriva di Busseto, caldo predicatore e fecondo scrittore che ha saputo lasciare una dettagliata “Cronaca della terribile battaglia avvenuta a Semoriva il 26 aprile 1945” ma anche una “Cronaca in succinto del tempo di guerra 1940-1945che riguarda la nostra Parrocchia di Semoriva” datata 11 febbraio 1946. Don Vismara scriveva: “L’infernale orribile guerra scatenata da Hitler Capo dei Tedeschi ed assecondato dal megalomane Mussolini, Capo dei fascisti, trascinando la nostra nazione in una vera catastrofe, sino ad arrivare negli ultimi mesi alla guerra fratricida tra Repubblicani di Mussolini e di Graziani e Partigiano di Badoglio e favoriti dagli Alleati, questa guerra che à superato tutte quante le altre che la storia ricorda, ebbe anche da noi, nella nostra Parrocchia le sue risonanze…Dopo l’8 settembre 1943, ossia dopo che si è sfasciato e totalmente disfatto tutto l’esercito italiano, causa del generali italiani, che lasciarono così il popolo allo sbaraglio di due eserciti formidabili che combattevano sul suolo italiano, gli Angloamericani che venivano dal Sud ed i tedeschi che scendevano dal Nord, tutti i nostri soldati dovettero subire triste sorte. Una parte fu catturata dai tedeschi e portata nei campi di concentramento in Germania ed a lavorare in Russia e in Polonia, un’altra parte riuscì venire a casa eludendo la vigilanza dei tedeschi, si tenne nascosta, alcuni fuggirono sui monti Appennini con i Partigiani, altri poi furono catturati dai Repubblicani e mandati chi in Germania, chi a combattere sui fronti. Dopo la disfatta dell’esercito fu assai peggio di prima, perché si arrivò alla guerra fratricida. Questo stato di cose durò fino al 2 maggio 1945, ossia la liberazione, con la totale capitolazione dell’esercito in rotta dei tedeschi…”.

Don Sisto Bonelli

Molto celebre anche la figura di don Sisto Bonelli, nato a Roccabianca il primo dicembre 1915 e morto a Parma il 10 ottobre 1993. Partigiano, detto don Corsaro, era tenente cappellano e faceva parte della 78esima Brigata Garibaldi Sap come Comandante di Battaglione. Durante il secondo conflitto bellico era curato a San Rocco di Busseto. Una esistenza, la sua, spesso giudicata controversa. Infatti c’è chi ne ha rimarcato le gesta piuttosto spregiudicate e chi gli è sempre stato riconoscente per il grande aiuto ricevuto in vari modi. Di lui scrive Luigi Leris “Gracco” in “Antifascismo e Resistenza nella Bassa Parmense” scrivendo che “A Busseto in questo periodo si organizza il Cln; la responsabilità fu affidata a Ferretti Alfredo e Massari Nino e le squadre Sap prendono consistenza e passano all’attacco….Vi farà parte anche Don Sisto Bonelli, nome di battaglia Corsaro, curato di San Rocco di Busseto, che in seguito, scoperto, riparerà in zona montana e diverrà Cappellano della 78° Brigata Garibaldi Sap. Per altro alla fine del conflitto bperderà la ‘Curazia’ quale ricompensa del valore cospirativo e combattentistico dimostrato”. In “Cospiratori in armi – numero unico delle brigate Sap del 18 maggio 1946 si legge poi che “Bonelli don Sisto…è stato privato della parrocchia per essersi sottratto alla cattura…assumendo l’incarico di Cappellano della 78° Sap. La punizione dura ormai da un anno! Non ritiene l’Eminentissimo Presule di Fidenza sia ora di restituire allo stesso l’onore e la parrocchia? I fascisti repubblicani vengono assolti e reintegrati nei loro impieghi. Don Bonelli soffre ancora le conseguenze della sua attività per chi ha dato prove di patriottismo e di integrità sacerdotale. E’ egli da meno dei repubblicani? Noi della 78° non vorremmo che il confronto facesse pensare ad una condanna all’idea partigiana per la quale ha lottato don Bonelli”. Alla fine don Sisto, che prendendo parte alla lotta partigiana venne decorato di medaglia d’argento dai combattenti cristiani per la libertà, a San Rocco, da curato, ci tornò e vi rimase fino al 1956, anno in cui fu trasferito a Sant’Agata di Villanova sull’Arda dove fu parroco dal 23 luglio 1957 fino alla morte avvenuta nel 1993. Di don Sisto si parla diffusamente anche nel libro “Storie – La Resistenza bussetana e i suoi protagonisti” di Adriano Concari e nel volume “La resistenza armata nel Parmense” in cui l’autore Leonardo Tarantini, tra le altre cose, scrive “I nomi di don Giuseppe Cavalli, di don Nino Rolleri, di don Mario Casale, di don Guido Anelli, di don Luigi Canessa, di don Sisto Bonelli, di don Giovanni Lapina, di don Lambertini e di vari altri, sono ben noti ai partigiani parmensi come quelli di uomini, eminenti nello spirito, nell’intelletto e nel coraggio, i quali nel dedicarsi alla lotta contro la violenta prevaricazione materiale e morale operata dalla dittatura fascista, in una sintesi unitaria di fede cristiana e di diritti egualitari dell’uomo, trovarono il compendio terreno nella loro missione sacerdotale fra gli uomini…”.

Don Giuseppe Piccoli

Non lontano da Semoriva, a Spigarolo (sempre frazione di Busseto) è stato a lungo parroco don Giuseppe Piccoli, classe 1900, che partecipò sia al primo conflitto bellico (quale soldato di rinforzo) da giovane seminarista che al secondo. In questo caso, col grado di tenente cappellano, prestò servizio sia in Jugoslavia che in Russia e nel 1943 chiese ed ottenne di essere posto in congedo tornando a Spigarolo dove, nella notte tra il 24 ed il 25 aprile 1945, durante l’ultima resistenza tedesca, rischiò di essere fucilato da un gruppo di soldati della Wermacht perché scambiato per un partigiano mentre, invece, si recava a soccorrere alcuni feriti. I tedeschi lo trovarono senza documenti e lo misero al muro. Solo il provvidenziale intervento di una sua parrocchiana, che ne rivolò l’identità, lo salvò.

Don Mario Corradi

La fucilazione la rischiò anche don Mario Corradi, originario di Pieveottoville dove ora riposa, all’epoca della guerra parroco a San Giovanni in Contignaco, nei pressi di Salsomaggiore Terme, dove durante gli anni della occupazione militare tedesca fu duramente provato dai numerosi avvenimenti che si susseguirono in zona. Zona che era teatro della lotta partigiana ma anche di feroci repressioni da parte delle forze tedesche appartenenti alle famigerate SS. Ci furono rastrellamenti e sommarie esecuzioni e don mario, a rischio della propria vita, si prodigò a salvare più persone possibili, compresi giovani renitenti alla leva ma anche ufficiali e soldati alleati sfuggiti alla prigionia ed ebrei, sottrandoli più volte alle persecuzioni e maturando esperienze dolorosissime, senza mai indietreggiare di fronte al pericolo, mettendo sempre davanti a tutto la sua straordinaria opera di carità (per la quale lo scrittore salsese Roberto Mancuso si sta prodigando al fine di vederlo riconosciuto tra i “Giusti tra le nazioni”). Profondamente scosso dalle brutali violenze alle quali dovette purtroppo assistere, alla fine della guerra rinunciò al mandato pastorale per un periodo di riposo nella sua Pieveottoville, per poi essere nominato parroco a Semoriva due anni più tardi.

Tra le rive del fiume, a Ragazzola, e nei centri piacentini di Croce Santo Spirito e Monticelli d’Ongina si distinse don Lino Curti che, durante gli anni della guerra, si prodigò senza risparmiarsi verso tutti coloro che avevano bisogno di lui. La stessa cosa la fece don Nino Belli a Cignano che, nei settant’anni di fecondo ministero pastorale, fu testimone dei principali avvenimenti politici che precedettero e seguirono le due guerre mondiali e dei profondi mutamenti sociali che si verificarono. In particolare fu sempre presente accanto a tutti coloro che avevano bisogno del suo aiuto e del suo conforto. Nella non lontana Bersano, don Remigio Marocchi dovette addirittura assistere al crollo sia della chiesa che della canonica adattandosi per un lungo periodo a vivere in condizioni di disagio e a celebrare le funzioni in una baracca di legno. Da vicario cooperatore, don Adolfo Rossi, a Castelvetro Piacentino, a sua volta si prodigò a soccorrere quanti, nel torbido periodo dell’occupazione tedesca, ricorrevano alla sua grande carità. Da non dimenticare infine l’impegno, accanto ai partigiani, di don Lodovico Bonini, originario di San Rocco di Busseto, a lungo cappellano dell’ospedale di Fidenza, che in più occasioni, in bicicletta, si recò sui colli a portare viveri e cibo ai partigiani.

Eremita del Po, Paolo Panni

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