Opinioni

La riflessione di Valter Rosa:
c'è stato un tempo delle stazioni

A tutti quelli che oggi reclamano la mancanza di libertà non sempre sapendo bene che cosa sia, bisognerebbe ricordare che c’è stato un “tempo delle stazioni” in cui esisteva il piacere e la libertà del viaggio, e uno poteva svegliarsi alla mattina e decidere di partire per Parigi, semplicemente recandosi alla biglietteria di Piadena dove un bigliettaio gentile verificava in poco tempo il percorso, le coincidenze e i posti a sedere sul treno. GUARDA IL SERVIZIO TG DI CREMONA 1

Nella facciata rivolta ai binari della stazione ferroviaria di Piadena, appena fuori dalla sala d’aspetto, c’è una bacheca che non viene aperta da 22 anni: in essa, fa bella mostra di sé un manifesto che mi è molto familiare, quello della mia prima mostra importante dedicata al pittore Mario Beltrami che si tenne nell’autunno del 2000 a Palazzo Diotti, non ancora museo. Nulla di strano o di scandaloso, anzi rivedere questo manifesto, per me che prendo il treno, è come un’aria di casa al punto di temere, dopo questa segnalazione, che venga rimosso. Evidentemente in tutti questi anni quello spazio pubblicitario è sembrato così poco appetibile che ci si è dimenticati della sua esistenza, come talvolta accade. Tuttavia, come ogni segno del passato che riaffiora, esso si presta a un’interpretazione negli occhi di chi guarda, quasi come un orologio che si è fermato. Uno ci fa caso e s’interroga perché.

Intorno al 2000 facevano la loro comparsa anche nelle stazioni secondarie delle macchinette automatiche per l’emissione di biglietti di viaggio; si diceva che dovessero semplicemente affiancare le biglietterie per evitare le code, ma nei fatti pian piano le biglietterie delle stazioni di provincia (Piadena nel 2007 – scrissi allora una lettera di protesta sui giornali locali) vennero chiuse (un processo ancora in corso in alta Lombardia) con grave disagio dei passeggeri perché le emettitrici automatiche in provincia (e a Piadena) non hanno mai funzionato, compito demandato a tabaccherie più o meno vicine alle stazioni, ma non sempre garantito e assolto con continuità.

Alla chiusura delle biglietterie seguì invariabilmente una dismissione parziale, a volte totale delle stazioni, o almeno un degrado progressivo che il pendolare pluridecennale ha potuto valutare nella sua esperienza. Non voglio parlare dei mitici giardinetti delle stazioni che erano un vero catalogo di amorevole giardinaggio e ars topiara e che erano il migliore biglietto da visita per la “bella Italia” che il viaggiatore straniero incontrava sostando nelle stazioni. Parlo semplicemente delle sale d’aspetto che oggi sono diventate dei luoghi sadicamente “dispettosi” perché evidentemente il passeggero, nonostante i ritardi dei treni, non vi deve sostare. Quante volte, nelle mattinate invernali vi abbiamo cercato un po’ di tepore appoggiandoci ai termosifoni? E abbiamo interrogato un telvisore grande come una casa appeso sulla testa dei passeggeri, poi sostituito da uno schermo piatto, nella speranza sempre più vana di essere aggiornati in tempo reale dei ritardi. Quanto ai termosifoni questi sono da tempo sostituiti da assurde stufette elettriche attaccate quasi al soffitto che si accendono solo se c’è movimento nella sala. Ma se ci si trova da soli e seduti, invariabilmente si spengono e allora bisogna alzarsi di scatto ed agitare le braccia per poterli riaccendere, che se qualcuno ti vede da fuori ti scambia per matto. Alla fine si sopporta il freddo e anche la solitudine forzata. In queste sale d’aspetto il deserto è cominciato prima del Covid ed ha anticipato l’ormai imminente dismissione delle stesse linee secondarie, così essenziali per i lavoratori pendolari ma considerate diseconomiche per quella politica (certamente bipartisan) e quella logica manageriale che, succhiando tutte le risorse possibili, a scapito anche della sicurezza delle reti ferroviarie, ha voluto premiare in Italia solo l’alta velocità, ovvero solo le grandi città.

Ma questo processo di dismissione e conseguente degrado delle stazioni era iniziato almeno venti anni prima. Nel 1978-1979 una memorabile mostra al Centre Pompidou, “Le Temps des gares” (Il tempo delle stazioni), sembrava quasi sancire, col suo titolo emblematico, un passaggio epocale.

Qui si parlava delle grandi stazioni storiche e di quelle dell’avvenire, per definizione babeliche, ma comunque grandi veicoli di civiltà. Qualche anno dopo, un mio lungimirante professore d’università che ci aveva familiarizzato coi temi legati all’informatizzazione della società, ci annunciava i grandi cambiamenti che in Italia avrebbero interessato tutta la rete ferroviaria. Noi studenti lo seguivamo con interesse, ma anche con gli occhi stralunati, chiedendoci dove avesse attinto certe informazioni. Ci parlava appunto della futura dismissione di centinaia di stazioni ferroviarie e di un suo interessante progetto di conversione di questi edifici in ostelli per la gioventù e in punti info per il viaggiatore, con l’obbiettivo di creare itinerari turistici volti a valorizzare percorsi alternativi e i centri minori. Insomma questo progetto di rivitalizzazione di stazioni dismesse poteva rivelarsi strategico anche sul piano economico. Eravamo nel 1981 e queste brillanti idee erano forse roba da marziani e come tali rimasero inascoltate. Ma ancora qualcuno pensa che sono le buone idee quelle che vanno avanti? Mi pare che la storia insegni che un alto dirigente di un’azienda, per fare carriera, deve soprattutto dimostrare di essere capace di farla fallire, con beneficio dei giochi finanziari: solo così sarà premiato con un incarico superiore. E intanto cosa è avvenuto delle stazioni italiane? Lasciamo stare le piccole, lasciamo stare anche ciò che è avvenuto in quella di Parma o in altre stazioni di capoluoghi di provincia. Prendiamo una delle più grandi, più funzionali e, oserei dire, più belle stazioni d’Italia, ovvero la stazione centrale di Milano. Un tempo, quando ero studente, non ci voleva niente a prendere un treno: uno usciva dal metro, attraversava il monumentale portico ed accedeva subito alla grande halle delle biglietterie, tutte in bella vista con le loro code ordinate di viaggiatori; poi, ottenuto in pochi minuti d’attesa, il suo biglietto, saliva sulle scale mobili e in un attimo arrivava ai binari. Oggi bisogna mettere in conto di portarsi sul posto con almeno mezz’ora di anticipo (pur già provvisti di biglietto, magari acquistato in internet) perché tutta la stazione è stata trasformata in un gigantesco centro commerciale e i percorsi delle scale mobili, o meglio dei tapis roulant sono stati resi infinitamente lunghi e illogicamente tortuosi in modo che il viaggiatore, prima di poter raggiungere il proprio treno, deve passare in rassegna tutti quei negozi che si sono conquistati gli spazi di maggior visibilità, mentre le biglietterie (per quei pochi sfigati che ancora se ne servono) sono state letteralmente nascoste nel ventre di questo gigantesco edificio. E poi, per avere accesso ai binari, ci sono delle specie di dogane, attivate in nome della sicurezza, ma in realtà sostitutive del controllore dei biglietti, una figura sempre più opzionale sui treni medesimi, e qui diversi sportelli selezionano i viaggiatori di serie A (Freccia rossa), quelli di serie B (treni regionali per pendolari) e quelli delle compagnie private. Ma la vera sicurezza in stazione dove è finita? Non oso immaginare quello che potrebbe accadere se, per qualche motivo di allarme, si dovessero improvvisamente evacuare questi spazi. Proprio in tempo di Covid, una gestione superillogica degli sportelli e dei percorsi per i viaggiatori in uscita dalla stazione, determinò ingorghi e ghirigori indicibili, invece che creare le condizioni per un corretto distanziamento e un esodo più rapido possibile.

A tutti quelli che oggi reclamano la mancanza di libertà non sempre sapendo bene che cosa sia, bisognerebbe ricordare che c’è stato un “tempo delle stazioni” in cui esisteva il piacere e la libertà del viaggio, e uno poteva svegliarsi alla mattina e decidere di partire per Parigi, semplicemente recandosi alla biglietteria di Piadena dove un bigliettaio gentile verificava in poco tempo il percorso, le coincidenze e i posti a sedere sul treno. Una diseconomia? Non saprei, dipende dai punti di vista, o meglio dalla scala di valori che una società si è data. So solo che quello che si è risparmiato, si è male investito. Ora i viaggi si pianificano con molto anticipo su internet, spesso con grande dispendio di tempo, con costi variabili regolati da algoritmi, nell’incertezza poi di trovare effettivamente un treno ad aspettarci all’ora indicata o di avere ancora voglia di partire.

Valter Rosa

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