Agricoltura

Sempre meno mais in Italia,
con costi di produzione in salita

La coltivazione del mais, il cereale più utilizzato nella alimentazione animale, continua la sua parabola discendente nel nostro paese. E questo nonostante le quotazioni degli ultimi mesi che hanno visto una crescita importante, è la sintesi estrema del quadro sulla sua coltivazione e sulle sue prospettive che sono state tracciate in occasione della tradizionale “Giornata del mais” tenutasi a Bergamo, per la verità in streaming, a cura del Crea locale specializzato in cerealicoltura e colture industriali.

Dario Frisio dell’Università di Milano ne ha delineato la situazione in termini di coltivazione e di assetto economico. Intanto sull’andamento dell’annata scorsa caratterizzata da un meteo piuttosto variabile. Tuttavia, la produzione media della coltura concentrata nell’area padana è stata superiore ai cento quintali ad ettaro; ma si è registrata la superficie minima coltivata a mais: 598mila ettari. La produzione complessiva del paese è stata di 6,1 milioni di tonnellate.

Circa la distribuzione delle superficie si è notato un calo nell’area nord ovest e la sua coltivazione rimane importante solo nelle aree dove si trovano le condizioni più favorevoli; altrove il mais viene sostituito da altre colture, forse meno redditizie ma più economiche da coltivare. Questo comporta una decisa dipendenza dall’estero: fino ad una decina di anni fa l’Italia era pressoché autosufficiente per la maiscoltura. Oggi, con i dati visti prima, siamo costretti ad importare circa il 50% del fabbisogno.

Dando un’occhiata all’Europa, si vede come il panorama della sua coltivazione stia molto cambiando. Intanto per il mutamento dei fattori climatici, come ha spiegato Luigi Mariani, che ha spostato verso il nord est europeo la sua coltivazione. Al punto che Romania e Polonia oggi detengono il 28% della superficie maidicola in Europa; ma anche con grandi progressi pure per la Serbia, sia pure fuori dal contesto Ue, che ne fanno uno dei paesi da cui ci si approvvigiona. Oggi la Romania è il primo produttore europeo, l’Italia che era seconda dietro la Francia, perde posizioni e si colloca al quinto posto, la Polonia in pochi anni è passata da una coltivazione maidicola di 500mila ad un milione di ettari.

In ambito europeo, oltre all’Italia, ha perso posizioni anche la Francia, storicamente il primo produttore europeo, anch’essa come noi bloccata su produzioni medie di 100 q/ha, mentre importanti progressi sono stati compiuti dalla Spagna, soprattutto in termini di rese medie che hanno toccato i 123 quintali/ettaro.

Dati questi che delineano un forte spostamento non solo della geografia europea legata al mais, ma anche ai risultati economici, alle relazioni di import/export tra paesi Ue, ma non solo, e delle relative bilance dei pagamenti.

In Italia, con la superficie maidicola ridotta a meno di 600mila ettari, è necessario ricorrere all’importazione di circa sei milioni di tonnellate all’anno di prodotto per un valore commerciale di circa un miliardo e duecentomila euro. Ma con i prezzi in rialzo è certo che il valore dell’import sia destinato a salire fino a circa 1,5 miliardi di euro per la prossima campagna. Lo scorso anno il prezzo medio all’import era stato di 190 euro la tonnellata, ma per il 2022 si ipotizza un prezzo medio intorno ai 240 euro per tonnellata. Non solo, oggi la maggior parte delle importazioni proviene dall’Ungheria via terra, il che comporta anche un notevole livello di inquinamento. Altre importazioni arrivano da Slovenia e Serbia, ma anche dal Brasile. Infine, a livello internazionale, da segnalare che anche qui la Cina sta assumendo un ruolo importante negli equilibri internazionali: ad oggi detiene il 70% delle scorte mondiali contro solo l’11% degli Usa.

Per il futuro, le prospettive sono incerte, visto gli alti prezzi di oggi, circa 300 euro per tonnellata, ma vanificati dal grande incremento dei costi di produzione; l’urea è arrivata a 900 euro/tonnellata. Dunque, per il futuro grande attenzione a questa coltura che, per i motivi visti sopra, potrebbe mettere in seria difficoltà le filiere zootecniche nazionali. Il panorama che si prospetta è: costi in crescita e prezzi in discesa.

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