I santi mercanti della neve e le
tradizioni tra cremonese e parmense
Mentre il sonno della fertile terra padana continua, tutte queste tradizioni possano vivere e rifiorire. I Santi dell’inverno, tra devozione e folclore, misteri e leggende, fede e identità popolare, possano accompagnare e illuminare giorni che, solo in apparenza, possono sembrare gelidi e bui
Secondo un vecchio adagio popolare, l’Epifania tutte le feste le porta via. Dopo le giornate “magiche” del tempo di Natale, i presepi tornano nei loro scatoloni, magari accatastati in qualche soffitta e le luminarie si spengono. Tutto tace e iniziano lunghe settimane di freddo, gelo e silenzio.
Invece, almeno le luminarie, andrebbero lasciate. Non solo per dare vivacità e colori ai nostro paesi ma anche, e soprattutto, perché in campagna le feste non se ne sono affatto andate.
Mentre il sonno della fertile terra, di qua e di là dal fiume, si fa largo e il freddo dà vita, di anno in anno, ad un bianco incantesimo, in attesa di una primavera non così lontana, per le terre di pianura si aprono giorni in cui rivivono tradizioni e folclore, misteri e leggende, che immergono le loro radici nella sapienza popolare. Tra le leggende una delle più antiche, è quella dei cosiddetti “Santi mercanti della neve”; definizione, questa, che deriva dal fatto che le ricorrenze cadrebbero nei giorni più nevosi dell’anno, ma anche in quelli che aprono le porte ad un primissimo e leggero spiraglio di primavera. Tra i “Mercanti della neve”, Sant’Ilario (13 gennaio) patrono di Parma; San Mauro (15 gennaio) col detto “San Màur, un frad dal diaul”; Sant’Antonio Abate (17 gennaio), col motto “Sant Antoni, un frad dal demòni” e San Sebastiano (20 gennaio) con i detti “San Sebastian, un frad da can” e “San Sebastian, un’ira in man”. Molto attesa, nelle famiglie di campagna, è la festa di Sant’Antonio Abate (17 gennaio). Già per la vigilia di questa ricorrenza, e quindi il 16 gennaio, è sempre stata una speciale usanza quella di pulire per bene la stalla, i pollai, i giacigli e le gabbie degli animali. La sera della vigilia è meglio non restare ad ascoltare gli animali perché si dice che parlano tra loro e si confidano i maltrattamenti e le crudeltà degli uomini. Sono parole segrete, difficili da comprendere: per questo non vanno ascoltate e non devono essere disturbati; anche perchè si racconta che nei secoli passati, chi l’ha fatto, poi è morto. Sempre per la vigilia, un tempo, anche il contadino più miscredente celebrava un rito singolare accendendo un cero di fronte all’immagine del santo nell’edicola a lui dedicata e posta, abitualmente, sopra l’ingresso principale delle stalle, recitando un rosario seguito da specifiche giaculatorie mediante le quali veniva invocata. Su tutte le famiglie di animali, di grande come di piccola taglia, suino incluso, esistenti nella sua proprietà, una specie di protezione del santo stesso. A lui si chiedeva inoltre di difendere tutti, la casa e le cose, specie il fienile (una delle ragioni per cui, generalmente, nelle immagini del santo compare anche il fuoco). Un misto quindi di fede occasionale, bigottismo ed opportunismo. Nel giorno del Santo (17 Gennaio) è usanza, in molte località, quella di benedire gli animali, le stalle e gli allevamenti, oltre al sale e al pane durante le cerimonie religiose. Per Sant’Antonio non si devono uccidere gli animali, e quindi ci si è sempre guardati bene dall’immolare, ad esempio, una gallina o un coniglio. Chi lo ha fatto, sempre secondo la tradizione, avrebbe visto ben presto i propri allevamenti decimati da qualche epidemia. La sera di Sant’Antonio, popolari, anche in terra lombarda, sono poi i famosi falò propiziatori che vedono mescolarsi tradizione sacra e pagana. I falò simboleggiano la volontà di bruciare il vecchio e il negativo ma, secondo altri usi, anche il gettare tra le fiamme una lista dei desideri da benedire con il fuoco. Un modo anche per celebrare o per “accelerare” la fine dell’inverno. Da non dimenticare anche quel vecchio detto che recita: “Sant’Antonio dalla barba bianca, se non piove la neve non manca”.
Trascorsa, da pochi giorni, una delle più celebri ricorrenze invernali, ecco arrivare, il 20 gennaio, quella di San Sebastiano. Santo che, secondo la tradizione popolare ha “la viola in mano”, come a voler indicare l’intravedersi dei primissimi segni della primavera (con uno dei fiori che maggiormente la simboleggiano). Stando sempre alle tradizioni dei nostri vecchi, si dice che per San Sebastiano le galline ricomincino a deporre le uova mentre per Sant’Agnese (21 gennaio), annoverata come Sant’Antonio e San Mauro tra i “Mercanti della neve”, il freddo è per le siepi e per San Vincenzo (22 gennaio) l’inverno mette i denti. Per Sant’Emerenziana (23 gennaio) se non piove il grano è a rischio e per San Francesco di Sales e san Feliciano (24 gennaio) se non piove fa poco grano. Tanto per restare in tema meteorologico, il 25 gennaio, per la Conversione di San Paolo, se è sereno ci saranno buoni raccolti; se piove o nevica ci sarà la carestia; in caso di nebbia sarà l’annuncio, purtroppo, di una moria di animali e se ci sarà la tempesta, addirittura, sarà annunciatrice di una guerra tra i popoli. Arrivano poi, dal 29 gennaio al primo febbraio, i famigerati “Giorni della merla”, ritenuti, per la sapienza popolare, i più freddi dell’anno. Proprio nel cremonese è antica tradizione quella dei cosiddetti “Canti della merla”. In particolare a Cornaleto, Crotta d’Adda, Formigara, Gombito, Pizzighettone, Soresina, San Bassano, Trigolo, e altri, da sempre, si usa riunirsi dinnanzi a un grande falò o sul sagrato di una chiesa o in riva al fiume Adda, a seconda della tradizione, per intonare insieme al coro abbigliato con abiti contadini (le donne con gonna e scialle, gli uomini con tabarro e cappello) e degustare vino e cibi tradizionali. I testi delle canzoni differiscono leggermente da un paese all’altro, ma mantengono come denominatore comune i temi dell’inverno e dell’amore. Chissà che questa tradizione non possa essere ripresa, allargandosi anche al Grande fiume, coinvolgendone entrambe le sponde.
In Febbraio ecco arrivare, il 2, la festa della Candelora (la Presentazione di Gesù al Tempio), evento che si ritenga segni, per lo più, la fine dell’inverno
Dal punto di vita pagano la Candelora ha a che vedere con la purificazione e con i riti propiziatori per la fertilità della terra e rientra a pieno titolo tra gli otto Sabba (Shamain, Yule, Imbolc, Oestara, Beltane, Litha, Lammas e Mabon) che sono le principali festività del nostro calendario in cui vengono celebrati i solstizi, gli equinozi e altre ricorrenze legate alla Natura (a cui si sovrappongono le festività “religiose”).La Candelora è festeggiata il 2 febbraio, proprio perché, in base al calendario astronomico, questo è il giorno che fa finire l’inverno e che inaugura la primavera. E’ quindi un momento di passaggio, tra l’inverno/buio/”morte” e la primavera/luce/risveglio. Un celebre proverbio, citato anche da San Giovanni Paolo II, dice “Candelora dell’inverno semo fora”, ossia il 2 febbraio l’inverno può considerarsi finito. Il proverbio però continua “Ma se piove e tira vento, dell’inverno semo dentro”, vale a dire che se il 2 febbraio il tempo è brutto, l’inverno durerà almeno un altro mese. In questo senso la Candelora è anche legata ad alcune feste di origine agreste, in molti Paesi europei, infatti, si cucinano piatti specifici, che vengono offerti alla natura o alle fate, come in Francia. Il primo antichissimo proverbio latino sulla Candelora dice: “Si Purificatio nivibus – Pasqua floribus Si Purificatio floribus . Pasqua nivibus”. Significa cioè che se il 2 febbraio è freddo e nevoso, la Pasqua sarà bella. Se invece il 2 febbraio fa bel tempo, a Pasqua nevicherà. Quella della Candelora, meglio conosciuta, sull’una e sull’altra riva del Po come la “Sarjòla” è da sempre un appuntamento molto sentito nelle nostre campagne. E’ sempre stata convinzione diffusa il fatto che la candela ricevuta dal sacerdote, una volta portata a casa, possa esercitare benefici influssi contro le forze del male. Anche per questo la si è sempre utilizzata al capezzale dei moribondi, accendendola inoltre per la nascita di un bimbo. Ripetendo ed emulando il rito che si svolge in chiesa per la festa di San Biagio, protettore della gola, il più anziano/a della famiglia, fin dai tempi antichi, incrociava due candele benedette, a digiuno, poggiandole all’altezza della gola di chi manifestava dolori, facendogliele baciare in segno di devozione. D’estate, in occasione di temporali, per evitare grandinate, inoltre si è sempre bruciato l’ulivo benedetto la Domenica delle Palme utilizzando la candela della “Sarjòla”. Ma anche le bestemmie sono sempre state “immunizzate” da eventuali epidemie con la stessa candela. Passata la ricorrenza della Candelora, il giorno seguente (3 febbraio) ecco un altro appuntamento legato ad un Santo tipicamente “invernale”, anche lui annoverato tra i “Mercanti della neve”: San Biagio, venerato tanto in Oriente quanto in Occidente, ben popolare anche tra le due rive del Grande fiume. Popolarissimo e diffuso, per questa ricorrenza, è il rito della “benedizione della gola”, fatta dai sacerdoti poggiandovi due candele incrociate oppure ungendola e facendo una croce con l’olio benedetto, sempre invocando la sua intercessione. Altra tradizione legata a questa ricorrenza è quella di mangiare il “panettone di San Biagio”. Per l’occasione, e per rispettare la ricorrenza, il panettone dovrebbe essere quello avanzato dopo le recenti festività natalizie. Due giorni più tardi, il 5 febbraio, la festa di Sant’Agata va, in qualche modo, a suggellare il “carnet” dei santi invernali e dei “mercanti della neve”.
Mentre il sonno della fertile terra padana continua, tutte queste tradizioni possano vivere e rifiorire. I Santi dell’inverno, tra devozione e folclore, misteri e leggende, fede e identità popolare, possano accompagnare e illuminare giorni che, solo in apparenza, possono sembrare gelidi e bui. Siano “accolti” e festeggiati, questi santi, sull’una e sull’altra riva del Grande fiume, lasciando accese le stesse luminarie che ci hanno accompagnato in queste settimane, affinchè la meraviglia del Natale possa continuare a risplendere nei nostri giorni, nel nostro agire, nelle nostre terre e nella nostra quotidianità di gente del Po.
Paolo Panni, Eremita del Po