Non c'è sostenibilità senza innovazione
ed un'adeguata comunicazione
Una riflessione a margine delle Fiere zootecniche di Cremona. La sostenibilità delle produzioni agricole, grazie all’innovazione e alla comunicazione, è diventata propedeutica per arrivare alla redditività ed alla qualità.
Se si dovessero indicare alcune parole chiave in grado di identificare le Fiere Zootecniche Internazionali, appena concluse a Cremona, non ci sarebbero molti dubbi nell’indicare tra quelle più gettonate “sostenibilità”, poi a seguire “innovazione” e al terzo posto metterei “comunicazione”. Termini che hanno soppiantato quelli più gettonati fino a qualche tempo fa che erano “redditività” e “qualità”. Il tutto, visto il contesto, riferito alla produzione di latte e derivati. Non che questi ultimi non siano più di attualità: anzi. Solo che la sostenibilità delle produzioni agricole, grazie all’innovazione e alla comunicazione, è diventata propedeutica, per non dire indispensabile, per arrivare alla redditività ed alla qualità.
Oppure, come è stato ben precisato, occorre dire che la sostenibilità è un tavolo a tre gambe che sono quelle ambientale, sociale ed economica, con quest’ultima che è prevalente rispetto alle altre due. E comunque, affinché il tavolo stia in piedi, occorre il contributo di tutte le tre gambe ed in Lombardia il 60% della Plv agricola aggregata è costituito dalla zootecnia. Vi sarebbe anche una quarta gamba, quella etica che, per semplificare, si può considerare all’interno di quella sociale.
Il concetto, calato nella realtà zootecnica nazionale, è stato bene espresso da Tiziano Fusar Poli, presidente di Latteria Soresina e di Confcooperative Cremona. Il quale ha ricordato che se l’obiettivo finale della transazione ecologica è la neutralità carbonica, occorre essere precisi ed attribuire a ciascun comparto produttivo il suo specifico peso e poi lavorare per migliorarlo e rendere più efficienti le produzioni.
Questo anche per evitare, come sottolineano i professori Giuseppe Bertoni e Luigi Mariani, membri della Società agraria di Lombardia, in un lavoro sull’impatto ambientale e l’allevamento animale, “il proliferare di una campagna mediatica in atto da alcuni anni volta a demonizzare il comparto zootecnico come responsabile di fenomeni altamente negativi che vanno dal cambiamento climatico ai danni alla salute umana, al degrado ambientale e alla perdita di biodiversità”. Ancora dallo studio di Bertoni e Mariani si rileva come la zootecnia sfrutti il 31% degli arativi ed utilizzi il 40% dei cereali, ma produca il 18% delle calorie ed il 25% delle proteine utilizzate dagli esseri umani, valori che salgono al 28 e al 55% nei paesi a più alto reddito, che sono poi quelli ove si utilizza maggiormente la coltivazione e per questo più soggetti ad attacchi mediatici. Non solo l’86% della sostanza secca consumata dagli animali domestici è costituita da foraggi che l’uomo non può consumare, se non dopo il passaggio intermedio fatto, ad esempio, dai ruminanti che con la loro opera rendono edibili i prodotti della zootecnia come il latte e derivati. A ciò va aggiunto l’elevato valore nutrizionale delle proteine animali grazie al loro apporto di alcuni aminoacidi solforati indispensabili che non sono presenti nei vegetali.
Precisano ancora Bertoni e Mariani nel loro studio che il peso della zootecnia sul totale delle emissioni di polveri sottili è del 17% a livello nazionale e del 33% in Lombardia. Nel mondo e in totale le emissioni agricole di gas serra sono di circa 10 gigatonnellate di CO2 equivalente, di cui circa la metà di origine zootecnica, ma a fronte di quelle emesse, grazie alla fotosintesi, sono assorbite circa 50 gigatonnellate. Quindi con un saldo decisamente positivo. E questa è una caratteristica specifica dell’attività agricola e zootecnica, ed è unica tra tutte quelle produttive.
Volendo poi parlate di latte e di confronto tra agricoltura e zootecnia intensiva verso quella tradizionale, e qui entra in gioco la terza parola chiave “innovazione”, le vacche Frisone, allevate in moderne stalle all’aperto, emettono 1,35 kg di CO2 per chilo di latte prodotto contro i 3,66 emessi da una vacca Jersey allevata al pascolo.
Dall’esame di questi dati è quindi opportuno attivare il terzo passaggio, quello della comunicazione, affinché si orientino le informazioni sulle interazioni tra attività agricola e sostenibilità ambientale in modo corretto ed equilibrato. Ad esempio, sempre sul concetto di impronta di carbonio riferita al cibo, o di utilizzo di acqua per la sua produzione, sarebbe opportuno che ci si riferisse non tanto all’unità di peso dello stesso, (non ha molto senso paragonare un chilo di insalata o di cereali con un chilo di carne) ma al suo valore nutritivo. In questo caso, come da tempo va sostenendo Piercristiano Brazzale, presidente mondiale della FIL-IDF (Federazione internazionale del latte), i valori risulterebbero assolutamente ribaltati.
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