Cronaca

Ex allievo di Santa Chiara scrive alla
prof. Una significativa storia di vita

"Una nostra professoressa - ci scrive il notaio presidente della Fondazione - ha ricevuto questa lettera da un nostro ex studente. Sono parole che hanno commosso la professoressa e tutti noi di Santa Chiara. Vorrei che tutti potessero leggerla. Aiuterebbe tutti a capire tante cose..."

E’ giusto che certe storie si conoscano. Perché si intersecano con altre vite, ne fanno parte. E perché testimoniano che a volte le basi per spiccare il volo sono molto più vicine di quello che potremmo immaginare. Nei giorni scorsi, ad una professoressa della Fondazione Santa Chiara è giunta una lettera. A scriverla un ex allievo del Bangladesh che ha voluto ringraziare quella professoressa, e quella scuola, per essere stata punto di partenza e scuola di vita oltre che di apprendimento.

La lettera racconta una storia di vita, dura, quella di un immigrato giunto in Italia a 20 anni. Racconta del carattere di chi alla fine, nonostante tutto, nonostante lo sfruttamento, nonostante la fatica ce l’ha fatta. O ce la sta facendo. Il nome non c’è, per ovvie ragioni di privacy. A girarci la lettera – a garanzia della sua veridicità – il direttore di Fondazione Santa Chiara, Mauro Acquaroni.

“Una nostra professoressa – ci scrive il notaio presidente della Fondazione – ha ricevuto questa lettera da un nostro ex studente. Sono parole che hanno commosso la professoressa e tutti noi di Santa Chiara. Vorrei che tutti potessero leggerla. Aiuterebbe tutti a capire tante cose…”. Questo il testo.

Buona sera, prof.

Con più tranquillità, le scrivo. Per ringraziarla di tutti saperi che mi ha donato. Grazie a questo corso, io sono cambiato. Non solo, ma vedo il mondo in modo diverso. Quando sono partito dal Bangladesh avevo vent’anni. Mio padre malato. Tumore al cervello. Da noi o hai i mezzi per curarti oppure muori.Due fratelli più giovani di me. Ho lavorato a Chioggia per raccogliere radicchi. Tre euro l’ora, dormire sotto un portico con il concime e i trattori. Mangiavo pomodori, radicchi e altre verdure raccolte nei campi, spadellate, senza olio, sul fornello a gas di fianco al letto. Il letto lo scaldavo con le bottiglie di acqua che prendevo dal rubinetto del padrone.

Dovevo spedire il guadagno tutto a casa. Pena non curare la malattia che progrediva. Otto anni condivisi con i miei amici bengalesi sulle panchine o agli angoli dei supermercati di Sottomarina. Mio padre è guarito, ho cresciuto e fatto studiare i miei fratelli. Fortunatamente il cambio della divisa è sempre favorevole e questo è stato un aiuto.

Otto anni condivisi non solo con troppe ore di lavoro ma anche con il terrore di essere espulso come clandestino. Quando un italiano mi dimostrava, anche un poco, di solidarietà e mi parlava, per me quello era un Re. Poi finalmente ho avuto il passaporto così sono andato a Milano.

Lavapiatti con la voglia di imparare a fare il pizzaiolo e pizzaiolo con la voglia di essere un cuoco. All’interno dello stesso ristorante, usavo il tempo libero per la mia ” scalata professionale”. In meno di due anni ho ricoperto il ruolo di chef in un ristorante importante di Milano. Poi il Covid19 , ristoranti chiusi e il buio nella mente.

In metropolitana, per avere aiutato un signore che si sentiva poco bene (mio padre attuale) ho conosciuto la persona che mi ha permesso di studiare. Il resto è storia nota. Ho voluto parlare con lei, perchè da subito ho sentito che avrei potuto raccontarle un tratto della mia vita. Le chiedo scusa se ho intensificato lo studio e le esercitazioni nell’ultimo mese prima degli esami. Dopo il tirocinio ho voluto preparare un esame all’università, per non perdere tempo. Sono iscritto alla facoltà di Scienze dell’Educazione e della Formazione. E’ andato bene.

Grazie per la sua fiducia. Grazie. Rimarrà sempre nella mia memoria. Un abbraccio forte“.

redazione@oglioponews.it

© Riproduzione riservata
Caricamento prossimi articoli in corso...