Cronaca

Vito (e Rosetta) 8 anni dopo: il
racconto di Giampietro Lazzari

Avremmo voluto scrivere un suo ricordo ma, dopo aver letto il racconto di Giampietro Geppa Lazzari, abbiamo convenuto che non avremmo potuto avere parole così belle e perfette, scrivere qualcosa di migliore, di più intenso, di più straordinario

Il 19 ottobre del 2013 si spegneva Vito Scandariato. Aveva lottato per mesi per riprendersi dal malore che lo aveva colpito mentre stava lavorando al bar, al suo bar tra la piazza Garibaldi e l’inizio della Galleria Gorni. Avremmo voluto scrivere un suo ricordo ma, dopo aver letto il racconto di Giampietro Geppa Lazzari, abbiamo convenuto che non avremmo potuto avere parole così belle e perfette, scrivere qualcosa di migliore, di più intenso, di più straordinario. C’è l’ultima parte di un viaggio, quello di Rosetta e quello di Vito, e ci sono i ricordi che restano addosso, e dentro. Queste le sue parole.

No. Non te lo vendo. È inutile che insisti! Non-te-lo-ven-do!

Era sempre così – sillabandolo – che gli ultimi anni il buon Vito uccideva il mio desiderio quando mi confermava che quel quadro non sarebbe mai e poi mai uscito dal suo bar. E più io – nel tempo – avevo insistito nel chiedergli di vendermelo, più lui, da giocatore come del resto lo ero io, aveva alzato il prezzo, tanto da farmi ogniqualvolta desistere. Poi un giorno, chissà perché, giurò che mai se ne sarebbe privato. Né a mio favore né a favore di alcun altro.

Quel quadro in verità non era proprio un’opera di particolare valore artistico. Assomigliava più ad una bozza; uno schizzo, seppur pregevole, fatto a carboncino e pastello colorato su cartone spesso, chiuso dentro un vetro e attorniato da una mediocre cornice di legno chiaro. Però a me era sempre piaciuto. Stava appeso sopra il calorifero, sulla parete a fianco della grande vetrata a tutta vista del bar, in mezzo alle foto scolorite di Vito e della sua vecchia squadra di calcio. Quella vetrata davanti alla quale stavamo seduti a tavolino la domenica mattina facendoci sembrare per coloro che stavano all’esterno dall’altra parte del cristallo, come una colorata specie dentro un enorme acquario. Tant’è che se qualcuno avesse potuto con un colpo di rasoio, tagliare di netto la scena con una vista trasversale avrebbe faticato a distinguere chi era osservato e chi osservava. Ma probabilmente erano entrambe le cose, perché il mondo davvero non può prescindere dalle relazioni.

Noi pesci però – là dentro – ci stavamo benissimo. E godevamo di un privilegiato punto di vista sulla piazza e sulla nostra realtà piccola che là fuori si muoveva e fluttuava, come le propaggini di una foresta di alghe. Esso ci consentiva di dedicarci ad un nostro passatempo, tanto piacevole quanto abitudinario: bere, guardare il mondo passare e commentarlo. Ragazzi su carrette sgangherate, rampanti professionisti su bolidi fiammanti, vecchi in bicicletta dalla pedalata lenta, gruppi di pedoni che passeggiavano sulla piazza andando avanti e indietro come spolette di un enorme telaio, signore impellicciate attaccate a cani ingoffiti chiusi in bizzarri cappottini, uomini zigzaganti che sostenevano con la maestria di provetti camerieri il cabaret delle paste domenicali. E per tutte queste immagini, per tutta questa umanità c’era un’attenzione, un pensiero, un commento.

Però a ben pensarci, e contrariamente al detto che vuole gli abitanti delle acque particolarmente silenziosi, noi eccellevamo nel contrario. Nel parlare, nel discutere animatamente e facilmente pure nel pettegolare.

E ci piaceva molto vivere lì, tanto che spesso, per paura di perderlo, ci facevamo riservare da Vito il posto a metà mattina. Dopodiché con rammarico, arrivato il mezzogiorno, lo lasciavamo, non prima di aver distrutto, costruito e modificato esistenze, molte volte e in vari modi.

Vito ci voleva bene, e noi a lui. Condividevamo molto delle nostre giornate e delle notti, quelle dei dadi, quelle delle carte, quelle dell’ultimo bevuto fuori. Ci serviva i nostri bianchi sostando qualche secondo lì accanto a noi – sebbene il banco fosse pieno di clienti – in maniche di camicia e in piedi, con in mano quella sigaretta spenta che di lì a poco avrebbe acceso e consumato appena fuori dalla vetrina con quattro potenti aspiri. Ma guai a toccarglielo quel quadro. E quando si accorgeva o sospettava che si stesse parlando di lui, Vito gli si avvicinava a rimirarlo, geloso e soddisfatto, come fosse una tela degna degli Uffizi. E riconfermava, anche senza esplicita richiesta, che lì sarebbe rimasto appeso. Almeno fin quando lui fosse stato al mondo.

La figura priva di sfondo e dai contorni apparentemente imprecisi quasi a farne una sorta di abbozzo non terminato, rappresentava una donna nella sua anzianità, seduta su una poltroncina con le ruote piroettanti tipo ufficio. Indossava una specie di paltò azzurro, un paio di scarpe nere lucide col fiocco ed un particolare cappelletto rosso a bombetta. Lo speciale tocco dell’autore, un corniciaio che aveva la bottega all’angolo e che si dilettava nell’arte pittorica, aveva fatto in modo che l’immagine che aveva rappresentato risultasse particolarmente significativa. Non tanto nei particolari quanto nella postura e nell’espressione del volto imbellettato di un rosa troppo acceso che chi conosceva quella donna avrebbe subito riconosciuto. Il cappelletto rosso fiamma era poi un inconfondibile tratto distintivo di quel personaggio caratteristico.
Nel mondo reale la donna rappresentata nel quadro aveva un nome: Rosetta. Anzi “La Rosetta”, come tutti noi la chiamavano con un indissolubile connubio di articolo e nome proprio. La Rosetta era una più che una assidua frequentatrice di quel luogo. Ne era un’essenza stanziale. Nessuno di noi conosceva bene la sua storia o le vicissitudini della sua vita, né mai in verità ci si interessò più di tanto. Tuttavia ella faceva profondamente parte di quel bar, ed in fin dei conti pure delle nostre esistenze, sebbene come semplice addobbo.

Quella donna era un essere solitario o probabilmente lo era diventata suo malgrado. Rimasta al mondo senza alcuno che si curasse di lei o di cui prendersi cura, trascorreva le sue giornate là dentro. Con indosso quel copricapo che avresti riconosciuto come suo ad un chilometro di distanza e con lo sguardo perso nel vuoto come quelli delle attrici trasognate dei film degli anni trenta, sedeva per ore – silenziosa – affondata dentro uno di quei divanetti a semicerchio che ancora arredavano il locale prima che Vito rinnovasse il mobilio. Salutava tutti. Poi si rinchiudeva in un mondo solo suo e taceva. Taceva e guardava dove bene nessuno lo ha mai capito. Dovunque e da nessuna parte. Ogni tanto avvicinava qualcuno e a seconda dell’umore della giornata chiedeva alternativamente due sole cose.

– Mi offri un caffèèè? – domandava con una vocetta sottile, flebile e monocorde, strascicando sempre le ultime vocali. Oppure, con eguale modalità.: …Mi offri una sigareeetta?

Poi aspettava la risposta positiva di colui al quale si era rivolta e attendeva paziente che Vito la servisse al tavolino. Oppure allungava le tre dita a prendere con delicatezza il filtro marroncino che emergeva dal pacchetto molle, spinto fuori da colui che ne aveva premuto il fondo. E quando qualcuno le si avvicina e le chiedeva: “Rosetta, stai bene?” Lei rispondeva sempre e solo: Siii…abbozzando un sorriso quasi impercettibile che sapeva di distanza.

Ecco, noi La Rosetta l’abbiamo sempre vista così. In quelle sue esclusive e invariabili manifestazioni. Solitaria, seduta, lontana. E non importava se in giorno bevesse un solo caffè oppure quindici, o fumasse trenta sigarette o solo tre. Per noi, e pure per lei, la cosa appariva essere completamente indifferente. Rimaneva così ore ed ore, e veramente pareva non ci fosse nulla che potesse modificare la sua esistenza. Nulla che potesse né accenderla o spegnerla, nulla che esulasse del suo stare. Immagino che possa essere accaduto perché sarebbe stato impossibile il contrario, ma io non la vidi mai chiacchierare con alcuno, se non per uno scambio di una parola men che breve, limitata alle due sole richieste o a conferma di nessuna altra necessità.

E il quadro che la rappresentava l’aveva colta talmente chiara nella sua natura che insieme sembrava essere ferma ma viva, presente ma lontana. Come in effetti lei era. Era quello forse che mi aveva fatto desiderare così tanto quei pochi ma fedeli tratti colorati disegnati dal corniciaio.

Un giorno in cui il bar ebbe a vivere un momento di particolare vitalità – forse per qualcosa che aveva a che fare con le passioni di Vito – l’ennesima volta gli reiterai la richiesta di poter possedere quel quadro. Vito mi guardò con aria di definitiva decisione e di rimprovero.

– Adesso mi hai stufato! Mi buttò in faccia.

Lo vidi afferrare un pennarello nero da dentro il cilindro metallico che stava accanto al registratore di cassa, uscire dal bancone e dirigersi verso la parete dove stava il ritratto della Rosetta. Poi lo vidi abbrancare il quadro con entrambe le mani prendendolo per i fianchi lunghi della cornice. Per un istante – giuro – temetti che lo volesse distruggere. Invece lo rivoltò, ci intimò di spostare i bicchieri e tutto quanto stava sul tavolino, vi ci appoggiò il quadro a faccia ingiù, e con tratto nervoso ma sicuro scrisse coram populi il suo testamento olografo ove io risultavo il beneficiario: “Quando sarà, lascio a…”, seguito dall’indicazione del mio nome e – a capo – da uno scaramanticissimo Tiè! Poi lo firmò: Vito.

Ecco. Sarai contento adesso! Bene. Ora non rompere più l’anima con le tue offerte di acquisto. Il quadro sarà tuo, ma dovrai aspettare. Così mi disse Vito al cospetto di tutti, e quella fu una promessa che nessuno dimenticò come mai io mi scordai di quanto Vito aveva vergato sul retro di quel cartone.

Gli anni passavano e la Rosetta continuava la sua frequentazione bevendo i suoi innumerevoli caffè, fumando le sigarette altrui e persistendo solitaria nella sua natura silente. Poi un giorno sparì e nessuno la vide più, avendo probabilmente raggiunta una pace che in vita forse non aveva trovato mai.

Faceva ancora caldo quel sabato mattina di settembre quando Vito si accasciò sul pavimento trascinando insieme a sé una bottiglia di sambuca che stava prendendo dallo scaffale alto del bancone. Pensammo fosse un malore dovuto alla fatica, ma così non era. L’ambulanza se lo portò via e da quel giorno Vito non rientrò più nel suo bar. Sapemmo poi che qualcosa gli si era rotto dentro la testa. Stette un anno e mezzo dentro un istituto di riabilitazione, vicino alle colline. Ogni tanto lo andavamo a trovare. Solo dopo molti mesi passati immobile in un letto lo vedemmo riuscire a muovere qualche passo con le stampelle con un inenarrabile impegno. Ma per il resto, né la cura né la natura che tende a riparare le cose umane, avevano sortito un gran che. Riusciva a dire solo sì e no e a contare con fatica fino a due. Troppo per noi e credo anche per lui. Tanto che quando se ne andò non ci vergognammo di quel briciolo di felicità che stava dentro a quella tristezza.

Durante la malattia l’esercizio venne guidato per un periodo da un suo socio che però mai si era occupato di persona della sua conduzione. Tutto rimase com’era, ma senza Vito. Il che voleva anche dire che tutto era cambiato. Dopo poco il bar venne venduto a sconosciuti ma già noi lo avevamo abbandonato quasi completamente. Un po’ perché in vetrina sembravamo pesci stanchi e forse perché in quell’acquario l’acqua si era fatta un po’ asfittica. Di certo però non avevo dimenticato la mia eredità.
Un tardo pomeriggio entrai e mi rivolsi con cortesia a colui che stava dietro il banco segnandogli col dito che il quadro che stava appeso là dove avevamo passato tanto tempo ad osservare il mondo mi spettava come lascito testamentario. Il tizio mi guardò di traverso e credo infastidito. Gli chiesi di avvicinarsi alla parete, staccai il quadro mostrandogli sul retro quanto Vito aveva scritto e reclamando la mia eredità. Il nuovo proprietario non pareva dare molto conto alle mie parole. Solo la mia particolare insistenza e la conferma avuta da una persona lì presente che quello che gli stava formulando quell’assurda richiesta e il nome scritto sul retro coincidevano, fecero capitolare il nuovo barista. Me ne uscii con la Rosetta sotto il braccio ed un pezzo di Vito dentro al cuore.

Da quel pomeriggio il quadro della Rosetta è appeso nella stanza dove passo la gran parte delle mie giornate.

Ogni tanto lo vado a trovare Vito. Nel silenzio del luogo, lo scricchiolio dei sassi bianchi e piccoli del viale alberato schiacciati dalle mie suole mi ricordano il colore e lo stesso rumore che facevano i dadi scossi fra loro nel bussolotto, prima di esser lanciati sul tavolo verde, quelle notti passate con lui e gli altri dentro al suo bar. Qualcuno ha posato una carta da gioco accanto alla fotografia come pensiero postumo. È stato un bel gesto ma si vede che non conosceva Vito con profondità. Il seme di fiori era quello che lui detestava. Sto lì un po’, con le mani ficcate dentro le tasche. E penso ai tempi andati. Al bar, alla vecchia compagnia dissolta, al quadro, alla promessa e anche alla Rosetta. Al tempo che le ho e le abbiamo trascorso accanto. E mi dolgo, perché mi accorgo – oggi – che mai le rivolsi la parola se non per un annoiato come stai o per comunicare a Vito che le avrei offerto il caffè che mi aveva chiesto. Null’altro. Mi sono chiesto il motivo ma non so darmi risposta. E mi rammarico. Mi rammarico perché chissà quante storie la Rosetta aveva vissuto e conosciuto; storie di uomini, storie di fatti, storie di cose. E quante me ne avrebbe potute raccontare se solo gliele avessi chieste e ancora quali vicende straordinarie potevano nascondere quei silenzi durati anni.

A volte, a casa, mentre sto accomodato sulla sedia a dondolo di fianco al camino a leggere un buon libro, mi accorgo di essere osservato. Allora alzo lo sguardo dalle pagine e vedo la Rosetta uscire fuori dalla sua cornice di vetro, scivolare su quella sua sedia con le rotelle piccole e venire verso di me.

Ciao Rosetta, come stai?
Sto beeene…hai una sigareeetta?
No Rosetta, te l’ho già detto; non fumo più da quasi vent’anni.
Aaah…allora mi offri un caffèèè?
Rosetta, se vuoi te lo offro, ma Vito non c’è più; lo sai.
La Rosetta mi guarda e tace, come faceva tanti anni prima, quando stava seduta sola dentro al bar. Ma ormai è tardi per chiederle qualcosa.
Dai Rosetta, torna dentro, che sto leggendo – la invito con un sorriso.
Sii…
Allora lei retrocede silenziosa, e rientra nel suo quadro“.

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