Cultura

Eridanos: i vincitori. E Nostra Terra di
Argini e di Fango di Giampietro Lazzari

Lo scrittore casalasco ha un dono. Ed è un dono che solo in pochi riescono ad avere: quello dell'essenzialità. E' uomo di fiume anche in questo. Pochi fronzoli, poche concessioni all'estetica e all'aulica delle parole: non serve essere manieristi nel raccontare. Anche in questo caso basta essere veri

Dipinge quadri Giampietro Geppa Lazzari. Traiettorie capaci di fermare il tempo. E’ un tempo dei ricordi il suo, un tempo intriso di fiume, di golene, di amici vicini e lontani, di passi incerti, e qualche volta più decidi sulla strada. Dipinge quadri, e ce li mostra ogni volta, ed ogni volta quelle pennellate ci fanno diventare parte della storia, della strada, della vita. Che è sua ma anche nostra. Che è quella che avremmo potuto vivere e forse, in traiettorie diverse, abbiamo in parte vissuto.

Giampietro scrive, e scrive da tempo. Lo fa per se stesso. Lo si intuisce perché le parole sono schegge della sua anima, a volte inquieta, altre riflessiva, altre ancora – solo – spettatrice. Mai comunque disinteressata. Lo fa per se stesso, perchè si scrive per se stessi, prima che per gli altri e solo partendo dal moto che è dentro si può essere credibili pure fuori. Farsi apprezzare oppure no, poco importa. Essere veri e dare un senso alle cose. Questo è quello che Giampietro sa fare. Questo è quello che dovremmo saper fare tutti.

Lo scrittore casalasco ha un dono. Ed è un dono che solo in pochi riescono ad avere: quello dell’essenzialità. E’ uomo di fiume anche in questo. Pochi fronzoli, poche concessioni all’estetica e all’aulica delle parole: non serve essere manieristi nel raccontare. Anche in questo caso basta essere veri.

Giampietro Lazzari si è aggiudicato il primo posto al concorso Eridanos dell’Arcibassa nella categoria racconti brevi. Siamo partiti da lui, e dalla sua categoria, e qui sotto vi proporremo in maniera integrale il suo racconto. Ma amiamo chi scrive, amiamo infinitamente chi lo fa e nei prossimi giorni, se gli altri partecipanti al concorso vorranno mandarci i loro, saremo ben lieti di pubblicarli. Qualcuno dirà che è poco giornalistico e forse ha ragione. Ma leggere non è mai una perdita di tempo. E’ tutto tempo guadagnato, tempo speso nella maniera migliore che possiamo darci.

E’ un racconto che si discosta un poco dagli altri. Ma l’intensità quella no. Quella è forte, cristallina, unica. Giampietro sa emozionare con le parole, anche quando racconta di un fiume e di una terra che tutti noi conosciamo, ma che per una volta guardiamo da dentro i suoi occhi, per imparare magari qualcosa. In quel qualcosa c’è un intenso moto dell’anima, c’è una riflessione profonda come un pozzo, c’è un fiume. C’è malinconia, consapevolezza, mani sporche, ricordi, anima. C’è poesia, infinita poesia che non è detto debba essere messa in versi. Può reggere pure in prosa, esplodere come lampo di luce in cui ci si imbatte per caso. C’è poesia. E questo è Giampietro.

Il racconto si intitola Nostra Terra di Argini e di Fango. E’ una riflessione che parte da lontano, da un gioco che, bene o male, in tanti abbiamo fatto e di cui qualcuno porta i segni. Come dice Giampietro lui è un uomo di terra e di fango. E lo siamo anche noi. (NC)







 

Nostra Terra di Argini e di Fango

Sopra il labbro superiore, proprio nel centro, ho una cicatrice. Arriva fino al naso. È sbiadita dal tempo ma ancora evidente. Me la feci sbattendo la faccia contro il manubrio della bicicletta un giorno che mi buttai giù dall’argine. Così, tanto per vedere come andava a finire. Da allora mi porto addosso quel segno, quel ricordo e quell’argine. Salivamo in sommità, prendevamo la ricorsa e scendevamo sulle bancate laterali, trasversalmente, via via con una traiettoria più ripida. Tanto che alla fine risultava come un salto sempre più veloce, nel nulla, nel vuoto, fino a perdere aderenza col terreno. E accadeva, a volte, che lo schianto fosse inevitabile. Come inevitabili erano i risultati. Quella volta non si schiacciarono a terra – deformandosi – solo le ruote della bici. Col contraccolpo si schiacciò anche il mio viso. E il mio labbro, rompendosi in due. Sul metallo, al centro, di fianco al campanello.

Cicatrice, argine; argine, cicatrice. Per me, da quel momento, è un connubio naturale. Immutato nel ricordo. Perenne nella conseguenza che segna il mio volto.
A volte rifletto che le due cose in qualche modo sono connesse. E non solo per il fatto che una fu la causa naturale dell’altra. Intendo per il fatto che l’argine è un rialzo della terra come una cicatrice lo è della nostra pelle. E se la terra è pelle e l’argine una cicatrice, le rampe, le scalinate, i sentieri per salirci sopra sono i suoi punti di sutura, o ciò che ne è rimasto quando sono stati tolti.

Ci sono terre che hanno pelli pulite, altre invece screziate da nei, da imperfezioni. Altre ancora hanno rialzi, accrescimenti, cavità.

La nostra è una pelle piatta. Però è piena di questi sfregi, che partono da dove non sai e proseguono fin dove puoi vedere, e più in là ancora. A volte corrono come un binario solitario. Altre si intrecciano, come scambi verdi di tratte diverse. Queste cicatrici contengono le acque, come le vene il sangue che scorre nel corpo. Uniscono le terre, ma solo da una parte. Separano le genti. Di qua noi, di là gli altri. Divise da così poco spazio ma spesso differenti come civiltà cresciute in disgiunti continenti. Da un lato conosciamo, dall’altro potrebbe essere; ma non sappiamo bene.

Li percorriamo questi argini, come se la realtà avesse solo due dimensioni. Su, giù; in alto, in basso. Mai di là. Anche se abbiamo coscienza essercene altri, dall’altra parte, raramente li calpesteremo perché non ci appartengono. Li percorrono altre gambe, altri uomini, altre storie. Sono le cicatrici loro, non le nostre.

Chiedete a uno di noi quante volte ha percorso l’argine della sua sponda. Vi risponderà che sono troppe per contarle. Chiedetegli quante volte ha percorso l’argine altrui. Vi risponderà mai. Perché? Non lo so. Ma è così. Forse perché in mezzo c’è la terra di nessuno. E la terra di nessuno la puoi anche attraversare, ma se lo fai è per andare lontano. Non la valicherai per invadere le cicatrici altrui; quelle te le lasci dietro. Quelle rimangono lì; inviolate; come trincee delle quali le truppe in avanzata – andando oltre – si sono disinteressate. Sono cose di altri e per te han poco significato. Del resto sono fedelmente uguali alle tue quindi non avresti nulla da scoprire; e tu lo sai. E non fanno parte di te, non ci hai vissuto, giù dalle loro bancate non ci hai mai sbattuto.

La terra di nessuno è regno di pochi. Uomini solitari che hanno imparato a conoscere le cose che vi accadono. Cose che non sono né di qua né di là. Circostanze che possono svelarsi solo in quei luoghi; animali che puoi osservare solo lì, silenzi rotti da rumori e sottofondi che non appartengono alle moltitudini. Appartengono alle piante, alle radici, alle foglie; appartengono alle acque, ai gorghi, alle terre di mezzo. Appartengono ai pioppi che stanno lì e fanno da sentinella; altissimi, corazzieri in fila, egualmente distanziati, consapevoli custodi di una striscia che è mondo separato. Appartengono agli uccelli che nidificano sopra i loro rami, che sono braccia che accolgono. Appartengono agli insetti che salgono sui loro tronchi, quando la piena reclama il suo spazio; come padrone che visita sue terre lontane, ma poche volte all’anno. Appartengono ai pesci che in quelle acque nuotano e dalle quali a volte escono saltando.

E tu lo sai. E se non lo sai lo impari. Perché quando sei lì il tuo occhio si fa più curioso, più accorto, più pronto. Il tuo orecchio cambia, diviene più sensibile, sviluppa antenne. E cambia il tuo respiro perché deve accompagnare i tuoi sensi ma non superarli. Le tue percezioni si amplificano ma il tuo sentirti umano si sbiadisce, cede, perché quello non è posto da uomini. È luogo di altre vite. E tu sei esistenza di passaggio, ospite, forma aliena.

Non disturbare quando travalichi quel confine. Stai silente. Guarda, se vuoi. Ascolta. Se riesci pensa, ma piano. Non far altro. Non fantasticare strutture durature perché le forze della natura ti riporterebbero alla tua caducità. Non costruire i tuoi templi; verrebbero travolti, facendoti capire che le tue divinità sono inferiori.

Queste nostre cicatrici sono fatte di terra. Di terra e di fatiche. Di fatiche e di fango. Sono composte della stessa materia dei luoghi che devono proteggere. Della stessa sostanza che – cotta – è elemento per le nostre case, per i nostri tetti; da sempre. Le ciminiere delle fornaci abbandonate stanno lì, e spiccano nella piattezza. E ce lo ricordano; anche da morte, come incorrotti testimoni, che noi abitiamo dentro a ciò che calpestiamo.

La nostra terra ci circonda, il suo marrone ci avvinghia. Se negli autunni piovosi – camminando – la calchiamo, ci lega a lei, come volesse trattenere il nostro piede quand’esso affonda nel fango bagnato. È la stessa terra che l’inverno rende dura, muta, fredda in superficie, ma tana sotterranea, riparo, ventre caldo per le sementi di grano che già da lei è spuntato.

È la stessa che d’estate, se smossa, si fa nuvola e ci impolvera le braccia e i capelli, e ci entra nel naso – sottile – quando ancora percorriamo una sterrata di campagna, come si faceva da ragazzi in cerca di avventure e libertà.

Terra, terra. Noi la conosciamo, la sentiamo, la odoriamo. Come sulle coste respirano nell’aria la salsedine, come sui monti inspirano il profumo dei tronchi, degli aghi di pino, dei muschi.

Se ti avvicinerai agli argini in una sera d’estate, se passerai la porta che conduce fuori dall’abitato in un pomeriggio nebbioso, lo proverai anche tu quel sentore, che sa di zolla umida, di casa, di infinita alba invernale che il carro del sole pare non possa vincere.

E se qualcuno – con un’accezione volgare, con un moto di scherno – ci dice terra, ci dice poltiglia, ci dice fango noi non ci offendiamo. Perché sappiamo che la terra ci ha dato da vivere, ci ha donato i mattoni delle nostre case, ci è stata amica nella nostra giovane esistenza. Ed è col fango, non con la roccia delle vette, né con la sabbia dei fondali che Dio ha plasmato l’uomo.

E io ci torno su quella terra, su quell’argine. E non vorrei mai scendere.

Perché sono un uomo di terra. Un uomo di fango.








 

Per quanto riguarda Il concorso letterario Eridanos si è conclusa un edizione ancora segnata dal Covid. Nessuna manifestazione in presenza, nessuna premiazione. Sarà per la prossima edizione. Intanto però ribadiamo l’invito ai vincitori (elencati sotto), a quelli che sono arrivati secondi o segnalati e pure agli altri che non sono entrati nella classifica. Inviateci i vostri racconti del concorso. Saremo ben lieti di pubblicarli.

Sezione A Poesie in lingua Italiana

  • 1° Classificato BALDINU STEFANO con “LE TRAIETTORIE INNOCENTI DEL MIO SORRISO”
  • 2° Classificato DI RUOCCO VITTORIO con “ SIAMO ANIME DI CARTA NELL’ ABISSO”
  • Segnalata ROS NICOLINA con “TORNEREMO AL MARE”
  • Segnalato BUONO NUNZIO con “IL PROFUMO DEL SILENZIO”

Sezione B poesie dialettali

  • 1° Classificata BERTOLOTTI ANNALISA con “LA GÂBIA”
  • 2°Classificato BALDINU STEFANO con “UNU SUSSIDIARIU DE FELITZIDADE”
  • Segnalata BOTTINELLI SIMONETTA con “A NEIGRA STRIA”
  • SegnalataROS NICOLINA con “TIMP LEDRÔS”

Sezione C racconti brevi

  • 1°Classificato LAZZARI GIAMPIETRO con “NOSTRA TERRA DI ARGINI E FANGO”
  • 2° Classificato CAMURRI VANNI con “FRAMMENTO D’ INFINITO”
  • Segnalata BERTOLOTTI ANNALISA con “LA FACCIA OSCURA DELLA LUNA”
  • Segnalato PETRUCCI FRANCESCO con “4 METRI QUADRI”

Sezione Green giovani fino ai vent’anni1

  • 1° Classificata MASSARI MAIA con “DONNA”
  • 2° Classificata PUCCETTI GINEVRA con “RESTARE”
  • Segnalata NEMERYSHYNA VLADA con “PAROLE”
  • Segnalato MORSELLI MICHELE con “NOTTE DI QUARANTENA”







Nazzareno Condina

 

 

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