Giornata dell'Infermiere, passaggio di
consegne simbolico tra generazioni
Infermieri veterani e giovani promesse a confronto, un passaggio di consegne virtuale, un momento di respiro per parlare guardandosi negli occhi. Per entrare in sintonia è bastato un attimo. Commuoversi, sorridere e sentirsi complici è stato spontaneo.
Quest’anno la Giornata Mondiale dell’Infermiere, che è caduta ieri, 12 maggio, ha un valore enorme. Né angeli né eroi, solo professionisti e persone con un ruolo determinante nella pandemia ancora in corso. In questo contesto di grande fatica, ci è sembrato bello far incontrare chi – dopo 40 anni – sta per lasciare e chi sta studiando per iniziare. Infermieri veterani e giovani promesse a confronto, un passaggio di consegne virtuale, un momento di respiro per parlare guardandosi negli occhi. Per entrare in sintonia è bastato un attimo. Commuoversi, sorridere e sentirsi complici è stato spontaneo.
Ecco le storie di quattro infermieri alla soglia della pensione e quattro giovani alle prese con il futuro di una professione in continua evoluzione.
Franco Bonvini (59 anni, infermiere da 43 – Coordinatore Gruppo Operatorio – Ospedale Cremona) & Asia Cremaschini ( 22 anni – 3° anno Corso di Laurea in Infermieristica)
Bonvini: “Sono diventato infermiere per caso, ma da quando ho iniziato “ho fatto mia la professione”, anno dopo anno.Del mio lavoro mi piace tutto. Soprattutto perché èdinamico, mai uguale. Mi dispiace molto lasciare. La mia eredità professionale? I ragazzi di oggi sono preparatissimi, l’unica cosa che mi sento di dire è di portare il loro modo di essere nel lavoro, di cucirsi addosso la professione, come fosse una seconda pelle. Mi ha appassionato molto collaborare con gli studenti, mi hanno sempre insegnato cose nuove. In tutti questi anni sono stati una vera ricchezza. Dell’epoca Covidnon dimentico la capacità di tutti gli infermieri di reinventarsi. In particolare noi del gruppo operatorio ci siamo trasformati in operatori di terapia intensiva, non è stato semplice. Ogni collega è stato presente, disponibile e capace. Tutti si sono impegnati al massimo e li ringrazio. Questo è l’ultimo ricordo indelebile che porto con medall’ospedale”.
Cremaschini: “Ho scelto questa professione per un vissuto personale, la malattia della mia nonna. Occuparmi di lei mi faceva sentire utile e allo stesso tempo non all’altezza. Essere d’aiuto agli altri è sempre stato importante per me, attraverso questo percorso di studio appendo sia la professione nella praticasia il suo significato, ossia il sostegno al paziente nel senso più profondo.Farsi carico del problema dell’altro, questo fa la differenza. Ogni volta che entro in contatto con un paziente sento che questo è il mio lavoro. Quando ho cominciato, avevo paura di non essere in grado, di sentirmi fragile davanti al dolore dell’altro, invece quando entro in reparto sento che è il mio posto.Qualche giorno fa una paziente mi ha guardato e mi ha detto: “Si vede proprio che questo è il tuo lavoro”. Ecco, questo mi fa sentire bene. L’eredità di chi ha molta più esperienza di me è un dono. Sono molto aperta ai consigli, aiutano ad ampliare la visione. Oggi la preparazione di chi inizia la professione è sicuramente più complessa e articolata rispetto ad un tempo, ma l’esperienza non si impara sui libri, sono molto grata a tutti i miei assistenti di tirocinio”.
Silvia Persico (59 anni, infermiera da 41anni, 10 mesi e 3 giorni – Collaboratrice DAPS – Ospedale Cremona) & Marco Abruzzi (30 anni – 3° anno Corso di Laurea in Infermieristica)
Persico: Ho scelto di fare questo lavoro all’età di 17 anni, mossa dal desiderio di autonomia e indipendenza. Poi è arrivata la passione e non mi ha più lasciato. Nel mio percorso sono stati due i momenti fondamentali: fare il formatore e coordinare il reparto di medicina riabilitativa.Lavorare con gli studenti mi ha fatto capire la vera essenza della professione, fare e saper essere un infermiere sono due cose diverse, con loro ho potuto entrare nel profondo e capire cosasignifica prendersi cura di una persona. Essere per venti anni il coordinatore della riabilitazione è stata un’esperienza insostituibile. Ho lavorato con i pazienti che subiscono un evento acuto, un trauma e sono costretti a re-inventarsi, a convivere con nuove abilità. E’ in questi casi che l’infermiere assume un ruolo davvero determinante dentro il percorso terapeutico, anche dal punto di vista umano.Nella nostra professione la relazione conta per l’80%, genera fiducia e questo aiuta ad affrontare le difficoltà del corpo e della mente. Anche se non mi piace dare consigli, ai futuri infermieri suggerisco di vedere, leggere e ascoltare. Ad esempio, vedere serie TV “La linea verticale” di Mattia Torri. Una fiction che offre la possibilità di comprendere la professione attraverso uno sguardo insolito, molto efficace. Leggere “Cosa sognano i pesci rossi” di Marco Venturino e ascoltare “La Cura” di Franco Battiato. In buona sostanza l’invito è ad essere ricettivi, curiosi, attenti a tutto ciò che li circonda, allargare gli orizzonti del sapere. Il ricordo che non dimentico? Tutte le persone con cui ha lavorato, in particolare il mio pensiero va ai colleghi che non ci sono più, a Loredana Dotti, Francesco Filippazzi e Manuela Borlenghi”.
Abruzzi: “Ho scelto questa professione per il rapporto con il paziente, per la possibilità che offre di scoprire l’altro in un momento di vulnerabilità. Mi aspetto di compiere una crescita professionale e umana importante e anche di affrontare nuove responsabilità. Il percorso di studi è molto intenso. Mi piace perché ogni giorno si incontra qualcosa di nuovo e inaspettato. Si impara da subito che in questa professione non c’è nulla di scontato, dietro ad ogni azione c’è un ragionamento, un sapere e un gesto umano. L’eredità di chi va in pensione la accolgo come uno scambio e un atto di reciprocità; un aiuto fondamentale per dare corpo alle conoscenze teoriche”.
Adriana Casalini (62 anni – Infermiera da 40 anni – Chirurgia Generale Alta intensità – Ospedale Oglio Po) & Ingrid Silvia Monfredini (32 anni – 2° anno Corso di Laurea in Infermieristica)
Casalini: “Oggi è il mio ultimo giorno di lavoro, ieri ho fatto il giro per salutare i colleghi e ho pianto tutto il tempo, ero molto emozionata. Non ho nessuna intenzione di abbandonare, continuerò a fare la volontaria in questo settore, faccio fatica ad immaginarmi lontano dalla cura.Ho scelto di fare l’infermiera perché volevo essere utile e mi sono letteralmente innamorata di questa professione. Mi ha dato la possibilità di conoscere e crescere sia sotto il profilo umano che relazionale. Ho sempre cambiato ambito – medicina, ginecologia, formazione, chirurgia, pre-ricovero. A 60 anni mi sono specializzata per la gestione dei pazienti con stomia. Questo è il mio spirito: essere infermiere è una scoperta continua. L’eredità che vorrei lasciare? Imparare a prendere ciò che c’è di buono e accantonare il resto. Andare al lavoro con una buona dose quotidiana di entusiasmo e buon umore. Il paziente lo sente ed è molto importante per la Cura. Credo molto nell’evoluzione della nostra professione, l’infermiere di famiglia è un esempio emblematico. Penso che sempre di più ospedale e territorio dovranno dialogare e collaborare per gestire in modo integrato i pazienti, sia in fase acuta sia a casa. Altra buona pratica da implementare è avere un infermiere di riferimento, aiuta molto la persona a sentirsi presa in carico”.
Monfredini: “Ho scelto di fare questa professione dopo dieci anni durante i quali ho fatto altri lavori che non c’entravanonulla con la sanità. Ad un certo punto ho deciso di fare ciò che sentivo.Ho un carattere aperto e mi piace moltissimo entrare in relazione con le persone, essere di aiuto agli altri. Prendersi cura non riguarda solo la terapia, c’è molto di più. L’ho sperimentato con il Covid, l’infermiere è un riferimento in molti sensi. I gesti le parole riconoscenti dei pazienti sono un conforto, sono la mia soddisfazione. Proprio stamattina, durante il tirocinio, una signora mi ha detto “Che mano delicata che hai,diventerai una brava infermiera”. Ogni volta che accade sento di aver fatto la scelta giusta, significa che riesco a comunicare la mia attenzione e la mia passione per la professione. Una delle esperienze più forti è stato il tirocinio in oncologia, mi ha permesso di incontrare la sofferenza dei malati e delle loro famiglie. Le persone che stavano molto male mi hanno insegnato a viveregiorno dopo giorno, a non sprecare tempo e ad essere ciò che sento con maggiore intensità. Qualcuno di loro non c’è più, qualcuno è guarito. L’eredità di chi sta andando in pensione è per me un punto di partenza: ho molta stima per loro. Essere infermiere significa non concentrarsi solo sulla terapia; significa, sostenere, ascoltare le mille necessità del paziente”.
Antonella Bonati (58 anni, Infermiera da 40 anni, Pre–ricovero, Ospedale di Cremona) & Arturo Leyva (23 anni – 2° anno Corso di Laurea in Infermieristica)
Bonati: “Ho scelto di fare questo lavoro a 16 anni, all’epoca si poteva fare la scelta al secondo anno della scuola superiore. E così ho fatto. Volevo fare l’infermiera a tutti i costi.Questo lavoro è fatto di amore per la vita. Ho lavorato in molti posti diversi: ginecologia, chirurgia, lungo degenza, poliambulatori,pre-ricovero chirurgico che ho contribuito ad organizzare ex novo nel ’97, insieme a cinque colleghe. Oggi siamo in ventitrèed è un motivo di orgoglio. La mia eredità professionale non può essere scollegata dall’esperienza del covid, il 22 febbraio del 2020 mi sono ritrovata in Pronto soccorso e poi nei reparti covid. Non mi aspettavo di vivere una cosa simile.
Ho sempre saputo che questo mestiere non è solo tecnica e in questi mesi l’ho sperimentato, ogni giorno, nella solitudine dei pazienti che avevano bisogno di un gesto, di speranza e pazienza. Ho imparato che fermarsi due minuti in più al letto, scambiare una parola è fondamentale, non è tempo perso. Anzi.Non nascondo che ho pianto quanto una signora di 85 anni è uscita (dopo quaranta giorni di covid)con le sue gambe dal reparto e ha incontrato la figlia. Nella normalità non era mai accaduto. Anche l’attività presso il servizio tamponi è stato un insegnamento. E’ lì che ho incontrato tante situazioni complesse, il dramma di intere famiglie: ho vissuto i loro lutti, i sensi di colpa di chi ha inconsapevolmente contagiato una persona cara. Nei reparti Covid mi è capitato di avere un attacco di panico: la doppia mascherina, la visiera, la divisa, non respiravo.Mantenere la concentrazione non è stato sempre facile. Ad aiutarmi è stata la relazione con il paziente. Non dimenticherò mai l’incontro con un paziente che ho imboccato per settimane, l’ho rivisto pochi giorni fa, fuori dall’ospedale e mi ha riconosciuta “Sapesse che sollievo mi ha dato”. Ecco questo non lo dimenticherò”.
Leyva: “Ho scelto di fare questa professione ad un passo dalla Laurea in economia. Una follia? No, ho solo trovato la mia strada facendo un lungo giro. Non ho certo abbandonato la carriera universitaria a cuor leggero; da cinque anni faccio il soccorritore e mi ha aiutato a capire quello che volevo fare da grande. Noi infermieri siamo un anello della catena che caratterizza il percorso di cura del paziente, non il più importante, ma importante tanto quanto gli altri sì. Fra studio, tirocinio e l’attività di soccorso mi ritrovo ad essere impegnato anche dodici ore al giorno, non mi pesa. Mi piace questa professione per il contatto con le persone, è come stare dentro l’umanità. Vedere pazienti – entrati in ospedale in condizioni gravi – uscire con le proprie gambe mi dà una gioia immensa. Studiando la storia degli infermieri ho potuto apprezzare l’evoluzione della professione e il riconoscimento ottenuto con fatica all’interno della società,farò mie la forza e la volontà di chi mi ha preceduto per affermare ancora di più il valore di questo lavoro e la sua essenza. In quanto a riconoscimento c’è ancora molto da fare,lo abbiamo sperimentato con il Covid. Se mi torneranno utili gli studi in economia? Per gli aspetti organizzativi e gestionali della professione sì, ma non rimpiango affatto la mia scelta”.
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