Opinioni

Silenzi e colori della primavera:
l'eremita del Po ci scrive

Torno al fiume, camminando, e osservo, in lontananza, i contadino solitario che, al volante della sua vecchia e mitica Piccola, simbolo di una epopea, culla, coltiva e custodisce il suo campo

Come sono diversi il paesaggio e le atmosfere di qua e di là dall’argine maestro. In questo tempo di pandemia sembra essere diventato un confine più che una difesa; un confine di situazioni e stati d’animo, tra il Po e la sua gente.

La golena, in questi primi giorni di primavera che anticipano la Pasqua, è dipinta e profumata dal ranuncolo e dal tarassaco, dalle viole e dal bianco degli arbusti di prugnolo. Spuntano le prime ortiche, ottime nel ripieno dei tortelli e, in attesa di “sprèli” e “vartis” (come da queste parti chiamiamo la radicchiella il luppolo selvatico), anche loro eccellenti ingredienti della nostra succulenta e variegata cucina, iniziano i primi ronzii delle api operaie che, con il loro continuo andirivieni, portano materie prime “in cascina”.

Il fiume è più azzurro del solito; c’è chi dice che questo sia dovuto all’aumento degli impianti di depurazione di aziende e comuni e chi la ritiene una conseguenza delle restrizioni e dei blocchi determinati dal’epidemia in corso. Io non ho titolo per determinare le cause, mi accontento di osservarlo così com’è: più azzurro e sempre in movimento verso il mare dove trasporta vicende, storie e pensieri degli uomini e delle donne che vivono e lavorano sulle sue sponde.

Azzurro e in ritirata, ma sempre maestoso come maestosi sono gli spiaggioni dove tra la sabbia, da tempo definita come l’ “oro bianco del Po”, si notano, sempre più di frequente, tracce e orme dei nuovi abitanti della golena: lupi, cinghiali, caprioli e, da qualche tempo, anche lo sciacallo dorato. Segni di un mondo, e di un clima, che cambia, anche da noi, tra silenzi, speranze e tante incertezze.

E’ quando torni a camminare sul porfido in centro al paesello che vedi un mondo totalmente diverso. Niente ranuncoli, solo pochi alberi in fiore e qualche viola a colorare i giardini. Vie e piazze vuote e desolate, come se tutti fossero scappati via.

Ci sono solo pochi drappelli di persone, fasciate dalle loro mascherine che quasi le rendono irriconoscibili, inesorabilmente in fila davanti alle botteghe di campagna, dove da un anno si entra uno alla volta. Con buona pace di quanto accade nei centri commerciali e nei supermercati dove tutti entrano, indiscriminatamente, come se lì i pericoli, anche per chi ci lavora, non ci fossero.

Non è mia abitudine origliare; non mi interessano i discorsi degli altri e, per mia natura, cerco di evitare di esserne coinvolto. Rifuggo le adunate, non apprezzo il chiacchiericcio, sono intollerante ai gossip del giorno tanto amati da altri.

L’udito ancora buono e un pizzico di umana curiosità mi portano tuttavia a sentire, pur restando a debita distanza. Non per paura ma per la ferma volontà di non voler essere coinvolto.

I discorsi, tutti, sono purtroppo sempre gli stessi. Non esiste altro argomento all’infuori della pandemia; parlano di malati e di contagiati, di tamponi e di vaccini; curiosano per sapere quanti sono gli ammalati del paese e, soprattutto, chi sono e chi è l’ultimo finito in ospedale.

Quasi inconsciamente non si sono resi conto che la pandemia li ha colpiti pesantemente, nella testa prima di tutto. Per loro esiste ormai un solo ed unico argomento, come se tutto il resto fosse sparito. Anche nel piccolo borgo serpeggiano paura e ostilità, rassegnazione e assuefazione, inquietudine, rabbia e stanchezza.

Nemmeno le più pesanti giornate di nebbia invernale sono mai riuscite a creare un clima simile. La voglia di tornare alla libertà di un tempo che lotta con la consapevolezza che ciò che eravamo e ciò che avevamo probabilmente non tonerà più. Forse non saremo nemmeno capaci di farlo tornare, mancheranno la volontà, la forza e il coraggio.

Da tempo sono convinto del fatto che la pandemia più grave sarà quella dei depressi, degli esauriti e dei fallimenti. Da questa sarà molto più difficile uscirne e le vittime saranno tante; i nuovi poveri ancora di più. La cura, in questo caso, è assai difficile da trovare e, di certo, richiede tempi lunghissimi.

La mente corre a quanto accaduto poco più di un anno fa, quando gli incravattati dal deretano piatto e col cappio al collo (i benpensanti leggano sempre “cravatta”), sfilavano sui giornali e sulle televisioni minimizzando i problemi e affermando che in Italia non ci sarebbero stati problemi, non sarebbe arrivato alcun virus, tutto era sotto controllo e avevano altro a cui pensare.

Invitavano addirittura a non diffondere quelli che loro stessi definivano allarmismi. Mai previsioni si sono rivelate più sbagliate e tanto leggere. Poche settimane dopo gli stessi incravattati col cappio al collo vedevano le loro previsioni sciogliersi come la neve al sole e decidevano, malamente, e tardivamente, di chiudere tutto, serrando la gente in casa. Ma ormai, come si dice tra le nebbie del Po, i buoi erano scappati dalle stalle.

Penso alle ambulanze che, purtroppo, hanno più volte solcato anche le stradine dei nostri villaggi, in diversi casi caricando persone mai più tornate a casa; rivolgo lo sguardo al vecchio campanile da cui, più volte, sono partiti i rintocchi funebri mentre la chiesa restava chiusa, vuota e in silenzio, impossibile da raggiungere anche per chi voleva semplicemente accendere una candela e recitare un’Ave Maria.

Penso poi alle tante lenzuolate con quella assurda e insulsa scritta: “Andrà tutto bene”: smentita dai fatti, dai numeri, dalla fila di camion militari trasformati in carri funebri, dalle decine di bare accumulate in chiese, cappelle obitori, senza che nessuno potesse dare un ultimo saluto e un bacio a padri e madri, nonni e nonne, figli e figlie, amici e amiche.

Nulla è andato bene; le migliaia di morti che ci sono stati lo confermano. Un anno dopo non si vedono più nuove lenzuolate, quelle vecchie rimaste dall’anno scorso sono ormai sbiadite e quasi illeggibili, quasi a voler simboleggiare la tragedia che abbiamo vissuto e stiamo patendo.

Oltre un anno dopo, da parte degli incravattati dal deretano piatto e col cappio al collo, per settimane impegnati a litigare per le loro amate poltrone vellutate, non certo perché presi dalla preoccupazione per la salute di tutti, nonostante le varie cerimonie e commemorazioni che si sono susseguite nei mesi, non si è sentito uno solo che si sia fatto avanti dicendo semplicemente “Scusate” alle tante e troppe famiglie colpite e falcidiate dal morbo. Non uno che abbia ammesso di aver quantomeno sbagliato previsioni un anno fa e, per questo, si sia sentito in dovere di assumersi delle colpe. A noi, gente semplice di fiume, che certo non abbiamo l’ambizione di occupare i romani scranni, abituati a convivere con l’afa estiva e il gelo invernale, hanno insegnato che chiedere scusa è segno di intelligenza e di dignità: valori che non si acquistano al negozio sotto casa o al supermercato, ma si ereditano dai saperi dei nostri nonni. Sono un patrimonio di valori di cui noi, gente di fiume, andiamo fieri. Sono un patrimonio che dovrebbe albergare, insieme all’umiltà, in coloro che sono chiamati a ruoli di responsabilità e di governo. Non farò mai il politico, non intendo farlo, non ne sarei all’altezza e non andrò più nemmeno a votare: non per polemica ma, semplicemente, per disaffezione e sfiducia.

Torno al fiume, camminando, e osservo, in lontananza, i contadino solitario che, al volante della sua vecchia e mitica Piccola, simbolo di una epopea, culla, coltiva e custodisce il suo campo. Lo fa con amore e saggezza, prudenza e sapienza. Da lui, e dal suo lavoro, gli incravattati dal deretano piatto dovrebbero prendere lezione. Con il mio solito bastone raggiungo la vecchia lanca e trovo, per fortuna, a farmi compagnia, aironi e cavalieri d’Italia, il piccolo Piro Piro e la graziosa Pavoncella: e tutto torna più bello, su questa riva.

Paolo Panni- Eremita del Po

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