Opinioni

L'eremita del Po: "Politici, c'è un tronco sulle rive del fiume anche per voi"

In questi mesi si sono anche perse le fiere, che per tanti piccoli commercianti ambulanti erano occasione di lavoro e, quindi, di sostentamento. Nei nostri villaggi di campagna le saracinesche che, da anni, sono abbassate risultano essere purtroppo numerose

Ci sono giorni d’inverno, lungo il Grande fiume, in cui la nebbia e il gelo lasciano spazio alla pioggia e, nel bosco intorno al Po, hai la sicurezza e la consapevolezza che nessuno disturberà né interromperà il cammino.

Una ragione in più, per uno svitato come me, per stare all’aperto e vivere le atmosfere che solo questa terra di pianura sa offrire.

Non ho la stoffa per fare il politico, non intendo farlo, non ne sarei capace. Non amo le poltrone, men che meno se ricoperte di velluto; odio le cravatte, non le indosso mai; non porto giacche né abiti firmati. Per sedermi preferisco un vecchio tronco vicino all’acqua; non importa se sulla riva di qua o di là.

Il fiume, ma pochi lo ricordano, non è un confine naturale. Ci sono terreni lombardi in sponda destra e terreni emiliani in sponda sinistra. Di questi tempi, quindi, a forza di camminare non so mai se calpesto una superficie “dipinta” di giallo, di rosso o di arancione e, sinceramente, non è importante.

Del resto, di questi tempi, esattamente un anno fa, qualche incravattato che oggi continua ad occupare alti scranni, andava dicendo che nel nostro Paese non si correvano rischi e invitava solennemente a non alimentare “inutili allarmismi”. Una previsione a dir poco infelice, del tutto fuori dalla realtà, smentita in modo clamoroso solo poche settimane più tardi.

La speranza è che dietro alla cravatta ci fosse semplicemente qualche suggeritore facilone e un tantino leggero. Tutti sappiamo come è andata, purtroppo. Se, per una volta, posso decidere io il colore da assegnare al nostro Paese, conferisco un bel marrone intenso. Lascio intuire facilmente i motivi, evitando i dettagli.

Non sono un amante della televisione, non nascondo che ormai faccio parte di quelli che, quando si imbattono in un telegiornale, il più delle volte cambiano canale. Preferisco di gran lunga la diretta, a cui assisto ogni giorno, intorno al fiume e nei pioppeti. Quella che ha per protagonisti gufi e poiane, pettirossi e capinere, aironi e cinciallegre, nutrie e caprioli.

Nonostante la conclamata allergia alla televisione, pochi giorni fa mi è capitato di imbattermi nel teatrino andato in scena in Parlamento: quello che ha visto protagonisti voi, incravattati, comodamente attaccati alle vostre dorate poltrone. Ho sempre pensato che in Italia debba esistere qualche grande azienda, di cui ignoro il nome, specializzata nella produzione di colla a presa rapida per natiche. Perché una volta ottenuta la poltrona, da destra a sinistra, passando per il centro, non ci si scolla più. Ne ho avuto ancora una volta la conferma (non che ne avessi bisogno) nella rinnovata consapevolezza che si sta sempre meglio qui, su questa riva, come scriveva anche Giovannino Guareschi, appoggiati a un tronco. Senza colla, s’intende.

Non mi sento di prendere le parti di nessuno, di nessun partito o movimento che sia. Quella che avete mostrato ai vostri connazionali (elettori) è stata una sceneggiata vergognosa, imbarazzante, a tratti patetica.

Ho visto uomini e donne intenti a sbraitare, insultare, a inscenare un “mercato” non degno di un’aula parlamentare. A scuola, quando ero bambino, se avessimo fatto in classe una cosa del genere, la maestra ci avrebbe cacciati dalla porta con tanto di nota sul diario. La mamma avrebbe fatto il resto, mandandoci a letto senza cena.

Ad oggi, ma forse sono distratto, non ho sentito nessuno di voi chiedere scusa agli italiani. A volte, scusarsi, come si suol dire, fa guadagnare punti: forse anche voti?
Mi sono chiesto che cosa possano aver pensato, di tutti voi, le tante famiglie che in questi mesi, sono state decimate dalla pandemia; mi sono chiesto che cosa possano aver pensato, di tutti voi, i medici e gli infermieri che ogni santo giorno lottano, in trincea, per la salute e la vita di ciascuno di noi.

Nessun “Grazie” sarà mai sufficiente per loro. Mi sono chiesto che cosa possano aver pensato, di tutti voi, i tanti lavoratori, gli operai e le operaie, i commessi e le commesse, i cassieri e le cassiere, i camionisti e le camioniste che ogni giorno si sobbarcano ore di lavoro, e di rischi per la salute loro e dei loro cari, per portare a casa uno straccio di stipendio che non è che la minima parte di quello che percepite voi.

Mi sono chiesto che cosa possano aver pensato, di tutti voi, le migliaia di imprenditori, commercianti, artigiani, ma anche i loro dipendenti, collaboratori e fornitori che, oggi più che mai, rischiano di veder svanire i sogni e gli sforzi di una vita; mi sono chiesto che cosa possano aver pensato di tutti voi coloro che un lavoro o una attività li hanno già persi e brancolano nel buio senza risposte chiare e reali sul loro futuro. Mi sono chiesto che cosa possano aver pensato, di tutti voi, le migliaia di studenti che oggi vedono il loro domani costellato di incertezze.

Ho sentito più volte ripetere un appello, quello ad essere “costruttori”. Costruttori di che cosa? Di giochini, accordi e strategie politiche o costruttori di soluzioni vere, rapide e realizzabili per la nostra gente?

Per essere costruttori bisogna innanzitutto saper ascoltare, bisogna saper stare in silenzio, bisogna rendersi conto di quello che si dice e si fa. Per essere costruttori occorre un clima di pace, occorre saper guardare oltre gli steccati; sono necessari l’umiltà e il saper partire dal basso.

Per questo vi rivolgo un invito. Nessuna provocazione, nessuna polemica, nessun secondo fine. Prendetevi un giorno e venite anche voi, una volta soltanto, in riva al Po, all’ombra di un pioppeto o su uno spiaggione; a percorrere le contrade, i viottoli e le piazze dei nostri piccoli centri. Un paio di gambali, una buona felpa e magari un tabarro potranno bastare. Non abbiamo poltrone vellutate, ma sarò felice di accompagnarvi se può bastarvi un vecchio tronco o, in alternativa, una sedia impagliata.

Prima di accettare vi consiglio di rivedere (o rileggere), con calma, le vicende di Don Camillo e Peppone, due autentici maestri nell’insegnare come, nella diversità di idee e opinioni, ascoltandosi a vicenda, si possono trovare le migliori soluzioni per il bene comune.

Nel frattempo, per mettere avanti i lavori, poche e piccole proposte mi permetto di farle. Perché costruttori, senza poltrona e senza cravatta, possono esserlo tutti. Parto da una buona idea, che il Governo ha avuto, quella di permettere a chi vive in comuni al di sotto dei cinquemila abitanti, di spostarsi, anche in zona rossa o arancione, entro un raggio di 30 chilometri.

In borghi tanto piccoli, iniziative quali l’asporto o la consegna dei cibi a domicilio, trovano per ovvi motivi poca fortuna. Perché quindi, nei piccoli comuni, non iniziare a prevedere l’apertura dei bar, delle osterie e dei ristoranti, almeno a pranzo tutti i giorni e, a cena, nei soli feriali? Facendo in modo che i locali stessi possano essere raggiunti da chi vive in un raggio di 30-50 km.

Perché non permettere la riapertura delle palestre e delle piscine in questi paesi di “quattro gatti”?

Un piccolo giro nelle nostre campagne, emiliane o lombarde non importa, vi permetteranno di osservare la presenza di tante case e cascine, spesso isolate, del tutto disabitate. Perché non incentivare i proprietari affinché mettano a disposizione gli edifici ancora abitabili, gratuitamente, per un tempo massimo di 12 mesi, a favore di coloro che vivono nelle città e desiderano, per un po’ di tempo, spostarsi in luoghi in cui il distanziamento è maggiormente assicurato?

Potrebbe anche essere l’occasione per dare nuova spinta al mercato immobiliare e favorire il recupero, nel tempo, degli edifici colonici che sono simboli e pietre miliari della nostra terra.

In questi mesi si sono anche perse le fiere, che per tanti piccoli commercianti ambulanti erano occasione di lavoro e, quindi, di sostentamento. Nei nostri villaggi di campagna le saracinesche che, da anni, sono abbassate risultano essere purtroppo numerose.

Perché non favorirne la temporanea riapertura, con permessi ad hoc, a favore di quegli ambulanti che, spostandosi da una zona all’altra, in sedi fisse e sicure, potrebbero trovare, almeno per il momento, una piccola soluzione per le loro attività? Questo, di riflesso, porterebbe anche nuova vivacità ai nostri piccoli centri, nuove idee per i giovani e, perché no, potrebbe essere motivo per il recupero dei vecchi mestieri.

Queste sono solo poche, semplici proposte che non risolvono nulla ma possono portare piccole e semplici opportunità e rinnovate soluzioni, ripartendo dal basso, ma guardando avanti, con una piccola speranza verso il futuro.

Del resto, se vorrete, ne parleremo e ci ascolteremo. C’è un tronco, accanto al fiume, anche per voi.

Paolo Panni – Eremita del Po

 

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