Undici anni fa si spegneva don Paolo Antonini: un prete e la sua umanità
Undici anni fa si spegneva un uomo per bene. Si chiudeva una stagione straordinaria per Bozzolo, per Casalmaggiore e per tutta la curia cremonese

BOZZOLO – Undici anni fa, in questi giorni, si spegneva un uomo straordinario. Era il 23 novembre, le nuvole grevi riempivano il cielo che lo accolse, il suo cielo al quale rivolgeva lo sguardo sempre e – dopo – essersi ‘sporcato’ le mani e l’anima di terra, di sguardi, di volti e di sofferenza. Dio, il suo Dio, come ripeteva spesso, era tra gli ultimi, tra quelli che aiutò sempre e senza tregua sino all’esilio di Bozzolo e anche dopo. Don Paolo Antonini era così, precursore, visionario, combattente. Allievo di don Mazzolari, di don Milani, figlio della stagione dei preti operai, affascinato dalla lotta degli ultimi della terra, dai diseredati.
Undici anni fa si spegneva un uomo per bene. Si chiudeva una stagione straordinaria per Bozzolo, per Casalmaggiore e per tutta la curia cremonese.
“… non è possibile vivere un rapporto con Dio, una dimensione verticale senza una dimensione orizzontale, una dimensione sociale…”
Don Paolo Antonini era nato nel 1921 a Fossacapra, vicario e poi parroco a Breda Cisoni, quindi parroco di Gazzuolo e dal 1978 al 1997 parroco di Casalmaggiore. Aveva cominciato la sua missione a favore dei ‘suoi ragazzi’ a Casalmaggiore negli anni ’80 ospitando due famiglie vietnamite nella vecchia struttura, allora in parte fatiscente e abbandonata, dell’ex collegio Don Bosco. Poi più tardi la casa dell’accoglienza che arrivò ad ospitare sino a 80 extracomunitari. In parte stanziali, altri presenti d’estate per le raccolte nei campi. Non sapeva dire di no. Nel 1999, per raggiunti limiti di età si era trasferito, dopo un periodo piuttosto burrascoso, a Bozzolo in Canonica, nonostante la richiesta, non esaudita, di passare la sua vecchiaia al Don Bosco tra i suoi ragazzi. Tre anni e dal 2002 poi alla Domus Pasotelli dove trovò la morte il 23 novembre del 2009.
Un uomo che aveva testimoniato il Cristo degli ultimi per tutta la vita. Povero tra i poveri, appassionato seguace di don Lorenzo Milani, Ernesto Balducci, don Tonino Bello, don Primo Mazzolari, affascinato dalla teologia della liberazione e dall’esperienza dei preti operai fu sempre prete scomodo. Una personalità – ed un carattere – non facile il suo. Nessun passo indietro non tanto sull’aspetto religioso – collaborò negli anni per la Casa dell’accoglienza con persone di varia estrazione e laici lontani dalla fede – quanto su quello umano. “Non mi importa da dove vieni – ripeteva spesso ai suoi volontari – non ho mai chiesto tessere a nessuno. A me interessa l’umanità”.
La sua era la chiesa dei poveri, degli ultimi, dei diseredati, dei malati, degli oppressi. Di tutti coloro che combattevano contro il potere dell’oppressione, del denaro, del capitalismo sopra ogni cosa. Lo si incrociava spesso a Casalmaggiore in sella alla sua vecchia bicicletta (gliene regalarono una nuova i suoi parrocchiani dopo una caduta quando ormai la sua non reggeva più e non era più possibile neppure ripararla), la veste logora e le scarpe rotte. A chi si preoccupava di come andava in giro ripeteva che c’era chi stava peggio di lui. Ogni persona che bussava alla sua porta in cerca di aiuto riceveva ascolto e spesso conforto. Morì povero tra i poveri, ricco solo della sua biblioteca in cui vi erano i testi raccolti in una vita dei suoi modelli.
Nei suoi scritti, nelle sue parole e nelle sue prediche don Primo e don Lorenzo erano citati spesso. Don Primo Mazzolari era il ‘maglio’ quando le critiche dell’abate dalle scarpe rotte erano indirizzate alla politica. A don Primo era vissuto fianco a fianco in giovinezza. “I politici, come mi diceva don Primo, andrebbero pagati a cottimo” soleva ripetere spesso quando le scelte della politica non corrispondevano al bene del popolo. “La coscienza non può abdicare interamente nelle mani di nessuna creatura, fosse il più grande degli uomini o il più santo” ripeteva citando quando le sue scelte non si ‘allineavano’ con le decisioni della curia.
Don Paolo Antonini fu l’unico parroco cremonese a rifiutare sprezzante, negli anni ’90 di contribuire alla raccolta di fondi per il restauro della torre del Duomo di Cremona. “Fu un incontro burrascoso – ricorda chi lo aveva accompagnato a Cremona in quella riunione in curia – dopo che l’incaricato del vescovo spiegò delle esigenze del Torrazzo e del fatto che a quei lavori dovevano contribuire tutte le parrocchie, lui si alzò e rivolto a tutti disse che i soldi che raccoglieva nella parrocchia sarebbero andati ai poveri e che da Casalmaggiore, tramite lui, non sarebbe arrivato nulla. Poi si alzò nel brusìo generale e se ne tornò nella sua terra”. Nella predica della domenica successiva spiegò quella scelta con le parole di David Maria Turoldo, quelle di una Chiesa che avrebbe dovuto rinunciare alle cattedrali per farsi gente tra la gente.
Non c’erano solo i ragazzi extracomunitari nei suoi pensieri. Fu grazie anche all’opera di don Paolo che a Casalmaggiore videro la luce la Cooperativa Santa Federici (che si occupa di handicap), l’AVO (i volontari ospedalieri di cui era socio attivo, spesso in turno per le notti al capezzale degli ammalati) e che crebbe la San Vincenzo per l’aiuto alle famiglie bisognose della comunità. Era spesso accompagnato a Sospiro dove andava a trovare gli ospiti dell’allora istituto psichiatrico. Una parola ed una carezza anche a chi non lo conosceva o non lo riconosceva ed una preghiera di conforto insieme alle suore.
Uno spirito fiero, indomito e combattivo. Pronto sempre a pagare il prezzo della testimonianza, del non allineamento. ‘Esule’ a Bozzolo, nonostante la richiesta di rimenere come custode della Casa dell’Accoglienza che la curia non accolse, passò anni difficili a Bozzolo in cui – soprattutto quando i suoi ex parrocchiani ed i suoi ragazzi che nel frattempo avevano messo su casa lo andavano a trovare – piangeva per quella dimensione ‘contemplativa’ a cui era stato relegato, e non per sua scelta.
Qui in fondo riproponiamo il suo ‘testamento spirituale’, nella certezza che c’è chi ancora ricorda quella densissima lezione di umanità che don Paolo Antonini ha lasciato agli uomini. E due riflessioni dei suoi ragazzi – i ragazzi di don Paolo – che lo aiutarono nella complessa gestione della Casa dell’Accoglienza.
TESTAMENTO SPIRITUALE
“In questa giornata sacerdotale, scrivo il mio testamento spirituale, perché penso che questa di Bozzolo sia la mia ultima sede. Sono qui da pochi giorni con l’angoscia nel cuore perché ho lasciato, per obbedienza, la comunità di Santo Stefano in Casalmaggiore, ma soprattutto per essermi separato dagli ospiti della Casa dell’Accoglienza, quei sessanta extracomunitari che amo come figli! Chi mette mano all’aratro non deve voltarsi indietro, se lo faccio è solo per dare l’ultimo saluto ai fratelli di Breda Cisoni, il mio primo grande amore di novello sacerdote, ai fedeli di Gazzuolo e a tutti quelli che ho incontrato in tanti anni di ministero. Vorrei avere la fede di un santo per dire in questo momento, come se fosse l’ultimo della mia vita: “Questo è il giorno fatto dal Signore… rallegriamoci ed esultiamo”. Vorrei poter dire con i sentimenti di Gesù: “E’ giunta l’ora… e che dirò: Padre, liberami da quest’ora? Ma per questo sono venuto!”. Mi separo da tutte le persone che ho amato con due sentimenti: la tristezza per il distacco e la speranza di essere accolto dall’amore misericordioso del Padre con la stessa bontà testimoniata nella parabola del Prodigo, con la stessa carità che spingeva Cristo su tutte le strade a cercare i lontani. Chiedo ancora una volta a tutti: perdonate ogni mia colpa. Vorrei inginocchiarmi davanti alle persone che in tanti anni ho incontrato per una confessione generale. Consentitemi una piccola confidenza: spesso nel predicare ero “passionale”, ma era anche quella una maniera per dimostrarvi che vi volevo bene e per questo avrei voluto farvi crescere le ali per vedervi volare in alto, molto in alto. Adesso io non parlerò più a voi, ma parlerò di voi al Signore ogni giorno, tutto il giorno. In Paradiso si vive d’amore e dunque porterò con me la forza dell’amore, senza stanchezza, senza momenti di scoraggiamento. Così continuerò a farvi del bene, così ricambierò il tanto affetto che ho ricevuto. Avrei tante cose da dirvi, il cuore in questo momento è come un fiume in piena, solo questo allora: amate i poveri, i lontani, i giovani. In amore vivete in comunione e fate comunità. Sono questi i temi della mia predicazione e i punti forti della pastorale. Dove non c’è amore non c’è Dio, non c’è religione, non c’è Chiesa. Per il mio funerale: né fiori, né elogi. La tomba nella nuda terra, una croce, il nome”.
PERCHE’ BARBIANA…
Casalmaggiore. Fine anni ’80, inizi anni ’90. Un gruppo di ragazzi, diversi per fede ed estrazione politica, uniti – paradossalmente – da un prete. Paolo, don Paolo Antonini, e la sua idea, in anni estremamente difficili, di solidarietà, interculturalità, accoglienza. Ottanta, cento migranti accolti ogni estate nel vecchio collegio Don Bosco, ognuno con la sua storia, ognuno con la sua fatica, le storie del suo popolo e della propria famiglia. Ci occupavamo di tutto. Dalle questure al cibo, dagli ospedali alla gestione quotidiana. Un gruppo di ragazzi (io ero molto giovane ma, anche i più anziani erano giovani uguali) divisi per estrazione politica e per fede, uniti da un’idea e da un uomo dalle scarpe rotte, qualche difetto e tanti indubitabili pregi capace di urlare al mondo e alle alte gerarchie ecclesiastiche la propria assoluta vicinanza ai poveri, la propria assoluta benevolenza di fronte all’umanità, valore primario. “Ogni uomo che passa di qui è mio fratello, è mio figlio” mi ripeteva spesso quando ci trovavamo a discutere di fede (che non avevo) di una divinità (che mi era indifferente), di un’umanità che mi incuriosiva, nonostante il mio carattere da orso solitario. “E non chiedo tessere, non mi importa da dove venga e dove vada”. La sua era la lezione appresa dalla vita, dai suoi modelli che erano don Mazzolari, i preti operai e don Milani. Già, don Milani. Organizzavamo un viaggio di una giornata tutti gli anni, veniva il custode ad aprirci le strutture di Barbiana. Don Milani lui lo aveva conosciuto di persona e conosceva bene quell’uomo che, ogni anno, veniva più che volentieri ad aprire le porte di quel piccolissimo agglomerato di case raggiungibili solo attraverso una piccola sterrata di montagna. Era andato a trovarlo, giovane prete lassù, nel suo silenzio e ne era rimasto affascinato. Lo colpiva – anche questo mi raccontava – la sua tempra di fronte a quell’immenso vuoto dove era stato relegato. E citava spesso il fatto che di fronte alla sua immensa frustrazione di quelle tre costruzioni posate nel nulla, lui gli ricordasse di come quella ‘punizione’ era stata la sua forza, la sua salvezza, la sua strada maestra. La strada – diceva a noi – in cui posare pietre che sarebbero divenute poi, con gli anni, ‘testate d’angolo’. Forse – conoscendone il carattere – don Paolo quel discorso se lo ripeteva per convincersi, anche se non ci credeva sino in fondo. Ne avevo il pieno sentore quando, primo passo d’ogni viaggio, si fermava sulla tomba di don Milani e qualche lacrima gli attraversava il volto. Si rinfrancava un po’ tra i materiali della scuola, nel racconto del custode, facendoci suonare la campana della piccola chiesa prima di dire messa. Una messa fatta per quattro ragazzi, di cui due non credenti o miscredenti e per il custode. Poi tornava pensieroso e silenzioso. Ci lasciava lì, tra quelle carte e in quel silenzio e s’incamminava solo, tra i suoi pensieri. In quella sua tenace frustrazione, e in quella sua continua e perpetua battaglia c’era tutta la fatica e l’animo di uno dei suoi maestri di vita. C’era il don Lorenzo Milani, relegato ai confini del mondo per punizione, troppo avanti per il suo misero tempo, capace con la vita e con gli scritti di farsi involontariamente (o forse volontariamente) beffa di confini ed isolamento, di pregiudiziali e solitudine, dei pensieri troppo piccoli di parte della Chiesa che preferiva parlare di Dio troppo spesso dimenticando l’uomo. Quei piccoli ragazzi di Barbiana erano i suoi ragazzi di colore a cui aveva ridato un tetto e speranza, a cui insegnava che era fondamentale che si integrassero, che vivessero di sogni e che lavorassero per realizzarli. Avevo anch’io vent’anni, qualche sorriso e piccole croci da portarmi dentro. Son tornato a Barbiana anni dopo. Da solo per comprendere quel mistero fatto di solitudine e del suo opposto. Fatto da piccole orme di giganti. Come quelle di don Lorenzo e come quelle di don Paolo. E ci ho trovato sempre e solo vita. Quella che c’é, quella che passa e quella che resta. Anche dopo, nei ricordi e nell’esempio. Nelle lezioni che non hanno tempo, tanto meno quello limitato degli uomini.
RACCONTERO’ PER SEMPRE CHI HO AVUTO LA FORTUNA DI INCONTRARE SULLA STRADA…
… in questi giorni un triste anniversario… manchi, vecchio rompiscatole, mani aperte e cuore immenso. Manca quella follia. Quell’estate in cui – in barba ad ogni regola – gestimmo una mensa improvvisata in cui chi non aveva da mangiare aveva spazio, fosse bianco, nero o giallo. In cui un gruppo di ragazzi capaci di credere ai sogni sfidarono le convenzioni, la sorte e la ragione perché convinti di un altro mondo possibile. Oggi che incontro quelli che allora erano i tuoi ragazzi, quei piccoli pargoli nati allora che si son fatti grandi e mi sorridono ogni volta, che a fatica mi ritrovo in spazi in cui il colore della pelle è più importante di quello dell’anima, ti ricordo così, con le parole di qualche anno fa… ho atteso qualche giorno. Ma non dimentico quel tempo. che porto con orgoglio tra le cose più care che ho…
… il 23 novembre del 2009, nell’esilio di Bozzolo moriva un uomo straordinario. Coi suoi difetti, con i suoi limiti e le sue incertezze. Quelle di tutti. Ma anche con un’infinita dose di umanità. Moriva così, come aveva vissuto, lasciando tutto ai suoi ragazzi, ai suoi poveri. Lasciandosi dietro anni straordinari, ma anche tante amarezze. Vorrei ricordarlo sorridente, così come quando era tra i suoi ragazzi al don Bosco, alla Casa dell’Accoglienza, e mangiavamo con loro. Ma lo ricordo triste, infinitamente triste di schiena, mentre andava via. “Dio è dentro, anche in chi non lo riconosce” mi dicevi spesso, quando mi parlavi del tuo Dio al quale riuscivo a contrapporre solo la mia miscredenza. “E prima o poi arriva”. Non è mai arrivato sai, ma mi è bastata la tua umanità, il tuo credere nell’uomo, il tuo passo incerto su una strada piena di ostacoli. La bicicletta e le tue scarpe rotte, le notti all’ospedale a fianco dei malati terminali, ai quali stringevi la mano in silenzio, le lacrime per ogni angelo caduto a terra, il tuo batterti senza riverenze contro il potere per quel che credevi giusto. Il tuo trovare una soluzione sempre – prima l’uomo, dopo il resto – anche contro le regole, anche contro il pensiero comune, anche contro tutti. Un ribelle che sapeva guardare avanti. Un uomo di cui la città può andare orgogliosa. Non riesco sai a vedere dio – ammesso che un dio esista nell’immenso vuoto che c’è – e vedo ancora quella bicicletta andare via, e te di schiena, o nella casa dei vietnamiti a piangere prima di lasciare per sempre la città. Ma è proprio quell’umanità densa e coraggiosa, quella lotta di sorrisi e lacrime, quel tuo essere così profondamente umano che ho apprezzato di te. Ed è quel che porto dentro…
Quest’anno non lo si è potuto ricordare come avrebbe meritato. Il Covid ha impedito celebrazioni varie e forse poco importa. Non amava le celebrazioni ufficiali, non amava i riti ufficiali, le parole di convenienza. Amava l’umanità, tutta, al di là del colore, al di là delle bandiere, al di là delle tessere. Per quella umanità, e in quella umanità ha vissuto e per quella verrà per sempre ricordato.
Nazzareno Condina