del Grande Fiume
in mostra c'è anche Sabbioneta
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BOZZOLO – “Gli ospedali di frontiera? Se hanno una identità precisa, diventano fondamentali. Forse nel 2019, appena in tempo per questa emergenza che ci ha quasi travolti, lo abbiamo capito”. Il professor Carmine Matarazzo sta guidando tuttora una sorta di fase post-emergenziale a Bozzolo. Al Don Mazzolari i reparti per sub acuti sono due, uniti alla Riabilitazione, e dunque il primario arrivato dal Poma di Mantova è l’interlocutore ideale per capire come stia vivendo il nosocomio bozzolese la fase post-acuta, appunto, non soltanto dei pazienti curati ma anche, per estensione, dell’emergenza Coronavirus. “Non abbiamo bisogno di ospedali grossi ma di ospedali tecnicamente attrezzati. Un ospedale periferico diventa fondamentale se sa occuparsi di problematiche specifiche. Nel nostro caso, si è puntato sul recupero funzionale del paziente e, dato che parliamo di un virus che colpisce i polmoni, ecco che la nostra Riabilitazione è diventata un punto di riferimento. L’ospedale piccolo non ha bisogno di imitare il grande ospedale, deve specializzarsi su un determinato settore e portare avanti al meglio la propria eccellenza. La Riabilitazione Neuromotoria è stata affiancata alle cure Sub Acute, che sono una declinazione relativamente nuova dell’assistenza, che Regione Lombardia ha introdotto nel 2012. Entrambe le fasi sono risultate di estrema efficacia in questi ultimi mesi”.
E’ sbagliato, secondo il professore, saturare questi ospedali specializzati di pazienti cronici. “Il rischio è di creare un disservizio, cioè che questi ospedali non facciano bene il loro mestiere, semplicemente perché non sono attrezzati per curare la cronicità. L’idea delle strutture per sub acuti nasce proprio da un concetto: evitare che il paziente stia troppo tempo nell’ospedale per acuti e trasferirlo in strutture in grado di assisterlo al meglio. Mancava però un pezzetto, che nel 2019 è stato introdotto: si è capito cioè che occorreva, per così dire, fare ripartire funzionalmente il paziente, dunque al trasferimento in sé andava associata una eccellenza, la capacità di fare. Lo stesso trasferimento doveva essere mirato verso struttura davvero specializzate e all’avanguardia”.
A Bozzolo arrivano pazienti con tre tipologie di storie alle spalle: reduci da ricovero per acuti, che necessitano di stabilizzazione clinica (circa 60 posti letto); indicati dal medico di famiglia e che necessitano di una determinata cura (10-15 posti); in arrivo dal Pronto Soccorso con un progetto sperimentale, ossia dal reparto Medicina d’urgenza dove rimangono 2-3 giorni e poi vengono stabilizzati al Don Mazzolari (20-25 posti). “Il paziente acuto può avere avuto una patologia importante, come nel caso del Coronavirus, oppure politraumi o anche complicanze legate all’allettamento prolungato. Il nostro compito è di ristabilirlo dal punto di vista fisico e prima ancora mentale, perché questo è un passaggio non banale. A volte arrivano da noi pazienti che si trovano in Residenze per Anziani e hanno bisogno di riabilitazione specifica”.
Il professor Matarazzo considera Bozzolo una sorta di ponte. “Proprio così: tra l’ospedale Poma e il territorio, intenso come popolazione ma anche come medici di base e RSA. I nostri pazienti vivono qui dentro un percorso che viene definito via via durante la degenza, dunque occorre saper variare e saper costruire una riabilitazione differente per ciascun soggetto. L’80% dei casi prevede il ritorno a casa con assistenza, oppure un percorso che consenta una continuità delle cure nelle riabilitazioni geriatriche o nelle RSA, laddove non sussistano le condizioni famigliari”.
Quando è iniziata a Bozzolo l’emergenza Coronavirus? “Qualche settimana dopo rispetto agli ospedali per acuti, per ovvi motivi, ossia a fine marzo. Per due mesi abbiamo avuto una media di 20-24 pazienti al giorno, tutti positivi e dimessi dall’ospedale di Mantova: avevano dunque superato la fase iper acuta ma avevano ancora necessità di ossigeno e supporto. Il personale ha risposto alla grande e due ottime fisioterapiste da Viadana ci hanno dato una mano per consentire di ricevere tutti questi pazienti. Per noi questi sono numeri impegnativi: abbiamo consentito a chi ha superato il virus di tornare a casa sulle proprie gambe”.
Quale è stata la parte più complicata del viaggio? “Il fatto di non poter creare il contatto tra il paziente e i famigliari. In condizioni normali si usano tutti gli strumenti possibili per il benessere psicologico del malato e la vicinanza della famiglia è uno di questi strumenti. Stavolta non era possibile e allora abbiamo pensato di utilizzare le stanze a due letti, anziché con un solo posto, perché i pazienti potessero farsi forza tra di loro. In aiuto è venuto il fatto che i pazienti mediamente molto anziani e fragili arrivati da noi erano in buone condizioni. Come noto, abbiamo occupato gli spazi della Riabilitazione Neuromotoria, perché lì non c’erano ricoveri, e dunque abbiamo creato due reparti per Sub Acuti, diversificando però la zona pulita dalla cosiddetta zona sporca, ossia con la presenza di casi Covid, con percorsi di accesso calibrati. Il risultato di questa scelta è stato non avere avuto alcuna infezione tra gli operatori sanitari, un ottimo traguardo. Ad aprile Neuromotoria ha ripreso a funzionare regolarmente, ospitando però inizialmente pazienti negativi ma reduci da Covid. Anche qui il passaggio è stato dunque graduale, finché a fine maggio non c’è più stata necessità di mantenere aperto il reparto dedicato ai pazienti Covid. Adesso siamo tornati ai nostri standard, salvo qualche eccezione. Speriamo tutti che la burrasca sia alle spalle, ma dobbiamo comunque stare all’erta, ricordando cosa abbiamo appena passato”.
Giovanni Gardani