Cronaca

"Back to square one" e Melbourne è di nuovo in lockdown: l'esperienza del casalasco Roveri

“Come in Italia si è agito per step: una persona ogni 4 metri quadrati, poi via via maglie sempre più larghe. Ma piano piano siamo tornati al punto di partenza, tanto che l’11 luglio a Melbourne, due giorni dopo la decisione di chiudere tutto, erano stati registrati 226 casi positivi, con più di 10mila tamponi somministrati in un giorno". GUARDA IL SERVIZIO TG DI CREMONA 1

MELBOURNE (AUSTRALIA) – Back to square one. Di nuovo alla fase uno. In Australia, anzi per la precisione nello Stato del Victoria e a Melbourne, si è tornato indietro. Ed è tornato il lockdown. A raccontare l’esperienza è un casalasco doc, Luca Roveri di Casalmaggiore, classe 1980 e dal 2011 di stanza proprio nel paese dei canguri. “Il provvedimento durerà sei settimane, perché vogliono dare modo di completare tre cicli diversi di incubazione – spiega Luca -. Qui ora è inverno, che non è freddo come in Europa ma porta le temperature a 14°C, dunque un clima che rende più facile la proliferazione del virus. Certo è che il provvedimento sembra esagerato, se rapportato coi numeri italiani. In tutta l’Australia ci sono stati, da inizio emergenza, 108 morti, un numero limitato se raffrontato ad altre situazioni e alla superficie di questo stato-continente. Ma si preferisce non rischiare”.

Il lockdown consente di uscire soltanto per esigenze medico-sanitarie o alimentari, una situazione che conosciamo bene avendola vissuta tra marzo e aprile pure in Italia. E ora sembra un po’ più rigido, anche se – ad esempio – viene concessa la possibilità di fare sport all’aria aperta, con due persone al massimo impegnate. “Il concetto è semplice: prima i contagi erano arrivati dall’estero, quindi da voli internazionali. Adesso, invece, con i voli bloccati, sono sicuramente interni. Io non mi lamento, si mira a prevenire: chi non ha percepito la morte – e il fatto che questo virus è una cosa seria – contesta, ma personalmente credo non sia una decisione sbagliata. Meglio fare sacrifici prima, che trascinarsi poi in una finta normalità per mesi”.

La fase 1 di marzo era stata più tollerante a Melbourne. “Si mirava a controllare il virus, a schiacciare la curva del contagio, sapendo di non poterla annullare. Il governo australiano ci ha detto: “Ci fidiamo di voi”. Io, per esempio, riuscivo a portare mia figlia al parco vicino a casa, anche perché qui gli spazi verdi sono enormi, dunque il rischio di stare a contatto era minimo. La gestione degli spazi per i più piccoli è stata ottimale ed è venuta incontro alle famiglie: gli asili nido non hanno mai chiuso, perché ritenuti spazi più sicuri, dato che il Coronavirus colpisce molto meno i bambini. Hanno però abbassato le saracinesche i ristoranti, i bar e i pub, tanto che ha preso piede prepotentemente il take away. Le contraddizioni ci sono comunque state: ad esempio i parrucchieri aperti ma gli estetisti chiusi, i ristoranti chiusi ma alcuni negozi con caratteristiche simili aperti”.

Una parentesi non di poco conto è quella lavorativa. “Per la prima volta siamo a casa da mesi: io lavoro nel settore dell’organizzazione eventi e posso dirvi che manifestazioni su larga scala richiedono da 4 a 6 mesi di pianificazione. Adesso è tutto fermo. Ricordo benissimo quando tutto è partito: era il weekend del Gran Premio di Formula 1 proprio qui a Melbourne. Fino all’ultimo si è provato a tenerlo in piedi, ma il venerdì pomeriggio, il 13 marzo, è stata comunicata la cancellazione. La nostra azienda ha 300 lavoratori tra Melbourne, Sidney e Brisbane: negli ultimi cinque giorni prima del fatidico 13 marzo sono stati cancellati ben cinque grandi eventi, il 17 siamo stati convocati in ufficio e ci è stato detto che dal giorno successivo saremmo rimasti a casa. Avremmo dovuto riprendere a giugno, ma non siamo nemmeno riusciti a carburare: due settimane, nemmeno il tempo per organizzare qualcosa di importante che subito il secondo lockdown ha colpito”.

Una situazione pressoché nuova per il mondo, o almeno per le generazioni più giovani, che ha portato ad una prima volta in Australia. “Da noi una forma di cassa integrazione o di sussidio per i lavoratori non era mai esistita. Stavolta però il governo locale ha agito per offrire un aiuto economico concreto a chi per settimane o mesi non poteva esercitare la propria professione. Le differenze sono due: lo Stato dà i soldi alle aziende, che poi li girano ai lavoratori; e il contributo è del 70%, per tutti, dello stipendio medio australiano, dunque c’è chi ci perde e chi invece magari paradossalmente da questa situazione ci guadagna, ottenendo entrate mensili più alte rispetto al proprio normale contratto”.

Come si sta comportando l’Australia? “Vedendo come è andata in altri paesi, direi bene. Abbiamo evitato discorsi sull’immunità di gregge, che hanno fatto disastri altrove, facendo perdere tempo inutile, e in Sudamerica continuano a farne. Noi abbiamo avuto due vantaggi: il primo, indubbio, è stato avere visto come il virus si stava comportando nel mondo, in primis da italiano ho osservato casa mia, sentendo i miei cari e i miei amici; in secondo luogo siamo un’isola, che può più facilmente bloccare e controllare gli ingressi e, inoltre, siamo un paese federale, con otto stati distinti l’uno dall’altro, ciascuno libero di prendere le proprie decisioni, dunque anche di chiudere le frontiere: lo dimostra il fatto che i vari stati hanno risposto in modo differente all’emergenza. Durante il primo lockdown tutti sono rimasti chiusi e non era possibile spostarsi: chi arrivava dall’estero prima del blocco dei voli, doveva stare 14 giorni in quarantena in hotel pagato dallo Stato. Parliamo – lo ripeto – di numeri contenuti rispetto al resto del mondo: il picco è stato a metà marzo con 200 positivi in un giorno in tutta l’Australia”.

Sette settimane di lockdown iniziale, poi la riapertura graduale. “Come in Italia si è agito per step: una persona ogni 4 metri quadrati, poi via via maglie sempre più larghe. Ma piano piano siamo tornati al punto di partenza, tanto che l’11 luglio a Melbourne, due giorni dopo la decisione di chiudere tutto, erano stati registrati 226 casi positivi, con più di 10mila tamponi somministrati in un giorno. Troppi, vista la media. Dovevo andare a trovare la mamma della mia compagna a 6 ore di auto da qui e ci hanno bloccati. Preciso però che i focolai sono soltanto a Melbourne, tanto è vero che il lockdown vige solo qui, con la decisione estrema di isolare sobborghi in base al codice postale. Altrove non è stato così: la Nuova Zelanda e la Tasmania, per esempio, hanno applicato un lockdown duro come Italia e Cina e ora stanno meglio; nel Victoria c’è stata più flessibilità all’epoca, ma adesso si è deciso di fare sul serio: dal Victoria e da Melbourne in particolare non si esce e non si entra per sei settimane, mentre serve un permesso speciale per entrare o uscire dall’Australia, ovviamente dagli altri sette stati, dunque per motivi lavorativi o famigliari seri. Pure qui però è molto difficile, se consideriamo che metà dei viaggi internazionali sono stati cancellati in questo periodo e tanti cittadini australiani o che si trovano all’estero stanno facendo molta fatica a rientrare. E già si parla di voli bloccati fino al 2021”.

Le famigerate mascherine lì sono obbligatorie? “Prima no, anche se erano caldeggiate, per così dire. Adesso il Primo Ministro dello Stato del Victoria ha invece spinto per il loro utilizzo con un comunicato specifico alla popolazione: c’è stata purtroppo molta speculazione, le mascherine scarseggiano e chi le ha, le fa pagare veramente parecchio, con prezzi insensati. Da questo punto di vista, devo ammettere che tutto il mondo è paese”.

Giovanni Gardani

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