Covid, l'odissea di una Oss: "Due mesi d'inferno tra tamponi sbagliati e cure a distanza"
"Il primo problema sta nel fatto che la mia pratica era finita nel dimenticatoio per un motivo molto semplice: essendomi autoisolata in quarantena, io risultavo come caso chiuso, cioè come persona guarita. E invece i due tamponi del 23-24 aprile erano ancora positivi. Insomma, un pasticcio".
Racconta la sua storia dietro la garanzia dell’anonimato. Perché dice molto del caos che il Coronavirus ha portato nella gestione dell’emergenza, con tanti esempi da non seguire, che confermano il tilt del sistema. Lei è una Oss che opera nel Casalasco, ora è guarita ma ha impiegato quasi due mesi per uscire dall’incubo. I primi sintomi ufficialmente sono stati il 12 marzo. Tuttavia… “Ricordo bene la serata del 18 febbraio, quando rientrando a casa da un pub nel Casalasco mi sentivo bene e la mattina dopo mi sono svegliata con tosse e mal di gola. All’epoca il Coronavirus ufficialmente non era ancora arrivato e così ho sottovalutato il problema, curandomi con un banale spray anti-infiammatorio”.
Il mal di gola passa, la tosse no. E dal 12 marzo si aggiungono altri sintomi: “Febbre, raffreddore, anche diarrea. La temperatura corporea non era altissima, al massimo 37.5 e così ho tirato avanti per 3-4 giorni. L’emergenza Covid iniziava in quei giorni e non c’era ancora l’obbligo di rimanere a casa con la febbre. Il 16 marzo le mie condizioni sono peggiorate e la febbre è salita a 38. Il giorno dopo febbre più bassa, ma mal di muscoli, mal di ossa e mal di testa. Un po’ di tutto. E per tre settimane sono andata avanti così. Il 17 marzo ho perso anche l’olfatto. A quel punto credo di avere avuto tutti i sintomi del Coronavirus”.
Il nome della Oss non lo riveliamo, il paese di residenza nemmeno, ma possiamo dire che ha una famiglia. E gestire la situazione con dei minori in casa non è stato facile. “Disinfettavo spesso, e non sentivo nemmeno l’odore forte della candeggina. Io dopo il 12 marzo mi sono isolata e dal 17 marzo sono rimasta a casa in malattia. Situazione che doveva durare fino al 30 marzo. Il 1° aprile stavo un po’ meglio ed ero pronta per tornare a lavoro ma con le nuove normative serviva il doppio tampone negativo, che ancora non arrivava. Il 7 aprile l’esito è stato di positività, quindi addio lavoro per qualche altro giorno. Essendo Oss, capite bene la frustrazione: volevo dare una mano alle colleghe in difficoltà, ma sapevo che andando al lavoro avrei fatto più danni che altro. Il lato migliore, ragionando in modo egoistico, è che sono stata toccata marginalmente dalle brutture che invece altre infermiere e Oss hanno vissuto sulla loro pelle, da dentro, in primissima linea”.
Dopo il 7 aprile il primo inghippo serio. “L’ATS Valpadana doveva chiamarmi al massimo entro 14 giorni per un nuovo tampone e per verificare l’eventuale doppia negatività. Ma nulla di fatto. Mi hanno telefonato solo il 22 aprile, di poco oltre il termine, fissando i due tamponi il 23 e il 24 aprile. Il problema non è il ritardo di un giorno, che ci può stare in mezzo al caos. Il punto è che la mia pratica era finita nel dimenticatoio per stessa ammissione di ATS e per un motivo molto semplice: essendomi autoisolata in quarantena, io risultavo come caso chiuso, cioè come persona guarita. E invece i due tamponi del 23-24 aprile erano ancora positivi. Insomma, un pasticcio”.
Non è finita. “E’ ripartita la quarantena obbligatoria di altri 14 giorni, in casa dormivo sola e per fortuna mio marito e i miei figli mi aiutavano a pulire e cucinare. Quando da inizio aprile ho iniziato a stare meglio, non ho comunque abbassato la guardia. Tenevo le distanze, più di un metro dagli altri in casa, e sempre indossavo mascherina e guanti. Il momento più difficile è stato negare un abbraccio ai miei figli, che sono ancora piccoli, quando me lo chiedevano. Ma è stato per una buona causa e loro hanno capito”.
A complicare le cose, il fatto che il medico di base della Oss si ammala di Covid. “E’ accaduto in pratica nel mio stesso periodo, da febbraio a maggio. Io sono stata curata da un’altra dottoressa, che non ho mai conosciuto e con la quale ci siamo confrontati solo al telefono. D’accordo, aveva tutti i miei dati e i pregressi nel database, ma è chiaro che è stato un po’ strano, anche se lei è stata professionale al massimo. Sono stata curata con Tachipirina e poco altro. L’11 maggio dovevo fare la Tac ai polmoni, con la richiesta del mio medico di base, nel mentre tornato al lavoro: la tosse infatti non passava. In ospedale non mi facevano entrare, perché non avevo ancora due tamponi negativi. Così sono dovuta andare al Pronto Soccorso dicendo di stare male e lì sono riuscita a fare la Tac: era negativa, ma era stata fatta senza contrasto e, come ha detto il mio cardiologo, probabilmente solo col contrasto si poteva scoprire la microcircolazione ai polmoni, che è stato il mio vero problema. L’Emogas intanto era basso e questo spiegava il mio affanno, che tuttora perdura. La vera domanda è: quante persone, come me, sono state curate così, un po’ a tentoni?”.
Se non altro si è evitata l’ospedale. “Sarei entrata nel periodo di maggior caos, quindi è stato meglio restare in casa. Anche se questa situazione mi ha messo paura: e se avessi avuto una crisi? Ero in ansia per mio padre, che in passato ha avuto seri problemi cardiaci, dunque psicologicamente è stata durissima”. Dopo 64 giorni, finalmente i tamponi si negativizzano. “L’8 e il 13 maggio ho avuto la risposta che aspettavo. Però al lavoro sono potuta tornare solo il 21 maggio, perché dovevo prenotare la visita dal medico del lavoro competente e questo si trova a Castelvetro Piacentino, dunque fuori dalla Lombardia: fino al 18 maggio, come si ricorderà, le frontiere regionali erano chiuse”.
Finita qui? No, non ancora. “Dopo la mia guarigione, una domenica, siamo andati con la famiglia al Centro Commerciale Cremona Po. Mi chiamano da ATS e mi chiedono il numero di mio marito. Lo contattano subito dopo e gli spiegano che il suo tampone è positivo. Peccato che mio marito non si fosse mai sottoposto a un esame. Si è verificato un caso di omonimia: il tampone positivo apparteneva a un ragazzo con lo stesso nome di mio marito ma di 13 anni più giovane. Chissà quanti tamponi sono stati sbagliati o attribuiti erroneamente…”.
Giovanni Gardani