Opinioni

Stefano Superchi e l'amaro ricordo di un virus che per alcuni 'non esiste'

Non hanno visto la scena dolorosa di un ragazzo con qualche problema che tutti i giorni si presentava all’ingresso per andare a trovare la mamma, e non capiva perché non lo lasciavano entrare

CASALMAGGIORE – 16.131 morti, e solo in Lombardia. 33.475 decessi in Italia. 233.197 casi positivi accertati. Ed è solo la punta di un iceberg che ancora non riusciamo a valutare in pieno e forse non lo valuteremo mai del tutto. Eppure anche qui c’è chi nega che il virus sia mai esistito. Come se i tre mesi passati fossero tutti un film, o una finzione.

E’ vero, al mondo esistono terrapiattisti e rettiliani, negazionisti di ogni scienza e adoratori di ogni cosa che venga spacciata come miracolosa. Esistono quelli che riescono a vedere con il terzo, e forse quarto occhio. E quelli che ‘percepiscono’ col deretano. Non ci si può far nulla.

Poi esiste chi il virus lo ha vissuto. Stefano Superchi è dipendente dell’Oglio Po. Una persona che alterna l’ironia al ragionamento, o forse li mescola in maniera sapiente entrambi. Questa volta ha voluto scrivere una considerazione che riproponiamo integralmente.

Quindi il virus ‘non esiste’. Stando ai post di facebook di sempre più ‘bene informati’ è stata tutta una gigantesca truffa. Due mesi d’inferno vissuti all’interno degli ospedali da operatori stremati, pazienti decimati, parenti disperati: eravamo tutti d’accordo, così come gli operatori delle ambulanze che sfrecciavano ogni mezz’ora a sirene spiegate a solcare il silenzio della notte. Tutti d’accordo a raccontar balle ai ‘bene informati’ con in tasca la laurea all’università della vita. Quelli che ‘ci vogliono nascondere la verità’.

Non sanno cosa vuol dire lavorare senza soluzione di continuità in una situazione così stressante, la paura di essere contagiati, l’ansia di ‘portare a casa’ il virus ai propri cari o di non poter vedere e abbracciare figli, genitori, mogli, mariti e fidanzati per settimane.

Non sanno cosa vuol dire parlare con una infermiera che dice di non stare bene e sapere che la mattina dopo è stata portata in terapia intensiva, intubata, poi trasferita in un altro ospedale e non la vedranno mai più perché non ce l’ha fatta, a quarant’anni.

Non sanno cosa vuol dire telefonare tutti i giorni a un amico che ha accompagnato suo papà in ospedale e non trovare le parole quando capisci che ogni giorno sta peggio e che non tornerà più a casa; o far da tramite con amici che hanno un parente a cui, nella concitazione del ricovero, non sono riusciti a dare il cellulare, l’unico filo di vita che gli avrebbe permesso di sentire la sua voce per l’ultima volta prima di essere inghiottito dalla terapia intensiva.

Non hanno visto infermieri, medici, oss, tecnici, addetti alle pulizie seduti dove capita a riprendere fiato dopo ore di lavoro incessante, bardati come astronauti, con lo sguardo perso nel vuoto sperando di svegliarsi da quello che sembrava un incubo ma era la realtà.

Non hanno visto caposala con la testa fra le mani perché non sapevano più come inventarsi i turni per il giorno dopo per il personale decimato dal contagio, e infermieri spostare a mano i letti nel cuore della notte da reparto a reparto per tamponare le situazioni più gravi.

Non hanno visto i borsoni appoggiati in terra, in fila lungo il corridoio, alle entrate dei reparti; borsoni contenenti il ‘cambio’ per i pazienti ricoverati, che i parenti preparavano a casa con la morte nel cuore sapendo di non poter vedere i loro congiunti e che poi consegnavano all’entrata dell’ospedale per essere recapitati nei reparti.

Non hanno visto la scena dolorosa di un ragazzo con qualche problema che tutti i giorni si presentava all’ingresso per andare a trovare la mamma, e non capiva perché non lo lasciavano entrare.

Non hanno ricevuto decine di telefonate da parenti in ansia, medici di base, pazienti dimessi e tutta una serie di persone che non sapevano più dove sbattere la testa per avere informazioni.

Non hanno mai controllato l’elenco dei ricoverati, con l’angoscia di trovare nomi conosciuti, ricevendo una pugnalata ogni volta che a quei nomi conosciuti, dopo giorni o settimane, era associato il termine ‘Deceduto’.

Potrei andare avanti per ore a raccontare, qualcosa per esperienza personale, molto altro per testimonianze dirette e verificate; dal disastro delle case di riposo, alla disorganizzazione di ATS (e anche nostra), di storie di (stra)ordinaria burocrazia, delle solite ‘dimenticanze’ verso l’ospedale di provincia, ma non lo farò: perché farvi perdere tempo per un virus che ‘non esiste’?“.

redazione@oglioponews.it

 

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