Salute

Sara, laureata e subito in trincea: "Così lavoriamo con le Unità domiciliari"

Sara Donvito (che, a proposito di pallavolo, è figlia di Piera Martino, una delle giocatrici di maggior classe della squadra di pallavolo femminile che a Casalmaggiore raggiunse l’A2 negli anni ’80) è stata anche negli Usa, per un anno, con il progetto Intercultura, per la precisione nel Wisconsin, affacciata sul Lago Michigan. Ma la sua storia è ancora più speciale.

Foto di repertorio

CASALMAGGIORE – Medico ai tempi del Covid-19, ispirandosi allo sport. Che non ha mai smesso di praticare, anche se oggi Sara Donvito, classe 1993, non gioca più a pallavolo come negli anni della Joy Volley di Paolo Vecchi, ma preferisce correre e dedicarsi a discipline individuali. “Questo mondo mi ha insegnato tutto: a rispettare le gerarchie, a rispettare gli altri, a cominciare dai compagni di squadra, che oggi sono i miei colleghi in prima linea contro il Covid-19. E a scambiare informazioni. Soprattutto a non sentirmi mai sazia, anzi a vivere quasi sotto esame, con la giusta pressione e la stessa voglia di imparare. Stiamo crescendo così, in questa situazione e contro un nemico del quale non sappiamo ancora tutto quello che vorremmo”.

Sara Donvito (che, a proposito di pallavolo, è figlia di Piera Martino, una delle giocatrici di maggior classe della squadra di pallavolo femminile che a Casalmaggiore raggiunse l’A2 negli anni ’80) è stata anche negli Usa, per un anno, con il progetto Intercultura, per la precisione nel Wisconsin, affacciata sul Lago Michigan. Non per il volley, che pure ha praticato pure sul suolo a stelle e strisce, ma per perfezionare un anno di liceo in lingua inglese. Oggi Sara non lavora in corsia ma è comunque in pista nell’emergenza sanitaria. Fa parte delle cosiddette USCA, le Unità Speciali di Continuità Assistenziale. Di fatto cosa significa? “Andiamo a casa dei malati ed effettuiamo visite a domicilio sia su Covid positivi che su casi sospetti. A Cremona ci muoviamo in sette. Facciamo turni diurni e infrasettimanali, perché nel weekend copre poi la guardia medica: veniamo contattati dai medici di base, che ci chiedono, in base alle informazioni che hanno sui loro pazienti, di fare valutazioni a domicilio approfondite. Il nostro esame spesso porta a decidere se continuare a curare il paziente a domicilio o se portarlo al Pronto Soccorso:  dobbiamo prendere, insomma, decisioni di un certo peso”.

Siete dunque a stretto contatto col malato. “E’ naturale, siamo una sorta di “squadra speciale” e il contatto è ravvicinassimo. E’ per questo che siamo molto protetti: abbiamo tutti i dispositivi di sicurezza individuali che servono, dalla mascherina FFP2, agli occhiali, alla tuta integrale con cappuccio, al doppio paio di guanti, ai sovra-calzari. Bardati in questo modo, il rischio di contagiarsi è piuttosto basso, anche se siamo indubbiamente esposti. Non ho mai avuto paura del Coronavirus, in tal senso, perché sono giovane, non ho patologie, dunque non mi sono mai spaventata, forse un po’ ingenuamente o inconsciamente. Piuttosto avevo paura di non essere all’altezza, essendo questo il mio primo lavoro ed essendo arrivato nel bel mezzo di una emergenza. Mi spaventava, per capirci, non avere abbastanza conoscenza di un virus che, del resto, nessuno può dire di avere davvero già compreso a pieno. Senza sottovalutare il fatto che alle volte visiti pazienti che risultano non malati di Covid ma hanno altre patologie: la diagnosi differenziale non è mai semplice”.

Primo impiego, si diceva. Perché la tua laurea in Medicina e Chirurgia è molto recente. “Risale al 9 luglio scorso a Verona, dove sono rimasta a vivere fino a marzo 2020. Prima di poter operare in modo attivo, è necessario per noi aspiranti medici una abilitazione che passa da tre mesi in corsia e successivamente da una prova scritta. L’emergenza legata al Coronavirus, tuttavia, ha cambiato un po’ le carte in tavola: in buona sostanza, dopo i tre mesi di tirocinio a Verona, il 28 marzo avrei dovuto sostenere l’esame di abilitazione, ma nel mentre il 17 marzo il nuovo Decreto ha garantito l’abilitazione d’ufficio sulla base del tirocinio, senza prova scritta, che di solito è un pro forma. Una scelta fatta per dare manforte a chi già da un mese stava dando il massimo contro il virus. Peraltro la normativa è stata rivoluzionata e proprio da quest’anno la prova scritta non servirà, ma basterà appunto il tirocinio che, in fin dei conti, è davvero il momento di maggiore apprendimento”.

Dal 17 marzo, giorno dell’iscrizione all’Ordine dei Medici, alla domanda per il bando dell’ospedale di Cremona sono passati dieci giorni al massimo. “L’Ats Valpadana mi ha contattata, perché stava per istituire il progetto USCA. Io il 6 aprile ho iniziato questo percorso che mi ha subito stimolato: non solo perché ci viene offerta una quotidiana possibilità di apprendere sul campo, il che mi piace moltissimo, ma anche perché riusciamo a percepire la soddisfazione dei malati. Avere un medico che ti viene a visitare a casa toglie l’idea di abbandono, che altrimenti potrebbe aggiungere un fardello psicologico a quello già gravoso della malattia o del dubbio di averla contratta. Non siamo supereroi, ma ci sentiamo utili. Ed è una bella spinta in più pure per noi”.

Giovanni Gardani

 

 

 

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