Coronavirus, la testimonianza della dottoressa A Beccara che racconta un mese in pronto soccorso
“Ero in ospedale nel turno di notte, sarà stata l’una, quando Morgan, soccorritore della Croce Verde, ci ha fatto sapere che quattro mezzi di soccorso erano stati inviati dall’ospedale di Codogno per iniziare a ‘sgomberare’ l’ospedale” racconta. “Era arrivata la diagnosi di Mattia”.
E’ a letto malata, con il Coronavirus, ma fortunatamente a casa sua, la dottoressa Lia A Beccara, che sul sito della parrocchia di Cristo Re, di cui fa parte, racconta in un testo molto toccante la propria esperienza di medico in prima linea. “Io, da parte mia, attendo di tornare a dare una mano”, scrive. E ricorda di quella notte tra il 20 e il 21 febbraio, quando tutto è cambiato. “Ero in ospedale nel turno di notte, sarà stata l’una, quando Morgan, soccorritore della Croce Verde, ci ha fatto sapere che quattro mezzi di soccorso erano stati inviati dall’ospedale di Codogno per iniziare a ‘sgomberare’ l’ospedale” racconta. “Era arrivata la diagnosi di Mattia”.
Da quel momento, il 21 febbraio, sono passati tanti giorni. Giorni che, per chi fa il medico in prima linea, sono stati intensi e interminabili. “Li ripenso, adesso che sono a letto e sto guarendo dalla polmonite da coronavirus, che mi ha succhiato via tutte le forze, come fanno delle onde giganti che ti sbattono e ti risbattono sulla spiaggia” scrive il medico. “A Cremona è arrivato uno tsunami” continua. “Si può dire che con Codogno e Lodi siamo stati i primi a essere investiti dall’epidemia, ancora inconsapevoli di quanto sarebbe potuto accadere. E per continuare la metafora del mare, nei giorni che sono seguiti sembrava veramente di svuotare l’oceano con un cucchiaino. I malati continuavano ad arrivare e tutti avevano la polmonite e moltissimi avevano un’insufficienza respiratoria”.
Giornate infinite, drammatiche. “Lavoravamo “in serie”, facendo entrare in open space i pazienti da visitare e a cui far fare esami, emogas, rx. Tutti in condizioni cliniche simili. Quasi tutti da ricoverare. Magari ne ricoveravamo 20 a turno e 40 erano ancora in pronto soccordo ad aspettare il posto letto” racconta ancora la dottoressa. “L’ospedale ha aperto tutti i posti possibili, ha reclutato tutti gli infermieri possibili, ortopedici e chirurghi si sono riscoperti medici, al di là della loro specializzazione e sono venuti in Pronto Soccorso a dare una mano… molti di loro si sono poi contagiati”.
Momenti difficili, sia da vivere che da raccontare. “I pazienti che soffrono di insufficienza respiratoria ispirano sempre una grande pena, così come ispira pena enorme il terrore nei loro occhi nel momento in cui si comunica la probabile diagnosi. Tutti quei visi, sfigurati nella loro fisionomia dalla mascherina dell’ossigeno, dalla maschera della Cpap, dalla fatica del far entrare aria nei polmoni. Le espressioni di sconforto. Il suono di mille colpi di tosse che risuonano nella mente. La consapevolezza che alcuni di quei pazienti, i più fragili, i più anziani, non ce la faranno. Vite scivolate via, senza il conforto della presenza dei propri cari. Nonni morti senza rivedere più i nipoti, senza poter affidare ai figli il loro addio alla vita”.
Poi, dopo la notizia di un altro collega e amico contagiato e intubato, nonostante la giovane età, anche per lei è stato il momento di avere a che fare con il coronavirus: si è ammalata, per fortuna non in modo grave, e sta cercando di guarire da quella brutta polmonite che ti toglie le forze. “Per tutti ci vorrà molto tempo” scrive. “Ci vorrà il tempo perché le cose finiscano, ci vorrà il tempo per ricordare e piangere chi non ce l’ha fatta, ci vorrà il tempo per ripartire, per aiutare chi è più in difficoltà. Il dolore va attraversato”. Ma non manca un messaggio di speranza. La speranza, conclude la dottoressa, “di poter uscire di casa in un giorno di sole, guardare gli altri negli occhi da vicino, abbracciarci e piangere e urlare ‘ce l’abbiamo fatta!’”.
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