Cronaca

Tra via Paul Harris e le pietre abbandonate: una storia di ordinario degrado

Probabilmente urgerebbe anche una pulizia profonda di tutto il perimetro che va dal parcheggio all'area cantiere. Ma forse è chiedere troppo: la strada è stata aperta, lo schifo ed il senso di abbandono sono rimasti. Accresciuti dal tempo e dall'indifferenza

CASALMAGGIORE – Spazzatura, ovunque volti lo sguardo.

Al termine di via Paul Harris, dove la strada s’incrocia in maniera ‘curiosa’ con via Petofi, c’è un parcheggio. Nel parcheggio non ci sono mai molte macchine. In compenso l’area abbonda di rifiuti. Siamo partiti da lì, da una segnalazione sullo stato di degrado della zona, sulla scia delle plastiche, delle bottiglie e dei cartoni abbandonati. Sono parte di quel che c’è, addossati al bordo del catrame, all’inizio di quel che resta del verde. Non solo rifiuti soliti, ma anche scarti di lavorazioni edili e chissà che altro. Le colline in genere nascondono tesori. Quelle a fianco dei cantieri ancor di più.

E’ da tempo che nessuno dà una pulita, anche sommaria. Lo leggi nel deterioramento dei rifiuti posati tra l’erba e le piante che crescono rigogliose, nonostante tutto e danno riparo ad uccelli. Altro particolare non trascurabile nell’area ‘verde’ – come dicevamo poc’anzi – la presenza delle ‘collinette’. Non c’erano un tempo, quando tutta l’area faceva parte del vecchio campo da calcio. E’ presumibile che anche quelli siano i residui delle lavorazioni edili dell’area cantiere.

Fa rabbia pensare che questo parcheggio è quello sito alle porte della città. Perché poi – dalle porte – un incauto visitatore può pensare che il resto sia tutto così, una pattumiera a cielo aperto. Che i rifiuti che ti salutano appena scendi dall’auto siano lì, senza che nessuno se ne occupi a testimoniare il degrado di una città. Poi – da quello che raccontano qui – da quando la strada è stata inaugurata nessuno se ne è mai occupato. Questo tratto di via Paul Harris è un po’ – volendo fare un paragone ardito ma non troppo – un po’ il tappeto più che la porta della città. Il tappeto sotto il quale si nasconde la polvere. Che qui, per inciso, non è neppure nascosta.

La situazione non cambia attraversando la strada. Dopo la Casa dell’Accoglienza si apre uno spiazzo verde, ed anche qui a prevalere sono i rifiuti abbandonati. Ci addentriamo in quello spazio verde aperto, seguendo la spazzatura. Giunti in fondo, e senza alcun impedimento (non ci sono transenne, non c’è nulla che interdica il passaggio, neppure un cartello che segnali il pericolo) si arriva nell’area del cantiere abbandonato di quello che fu un tempo il collegio Don Bosco. Un’area pericolosa tra voragini che si aprono all’improvviso, resti di materiale edile, legname marcio, ferri da cantiere.

Ci fermiamo nel piazzale. C’è ancora, la si vede, la vecchia struttura che fu la casa dei vietnamiti, è l’unica porzione che resta riconoscibile della vecchia area cortilizia che è stata per decenni – prima come collegio, poi come centro di ritrovo ed infine come centro d’accoglienza – una parte della vita della città. A terra i soliti rifiuti, ed alcuni sembrano recenti, segno che qualcuno che ci va c’è, tra quelle imponenti strutture che non hanno mai visto la luce ed ora sono pronte per il restauro. Tempo di fotografare un ratto morto ed ormai rinsecchito (l’impressione è che ce ne siano altri, ma non ne abbiamo incontrati ed il morto non poteva risponderci) e di avvicinarsi, proprio al centro del piazzale, alla voragine che si apre, tra ferri appuntiti. Stiamo attenti, qui farsi male è un attimo.

Non entriamo nella struttura. Ci basta quello che si vede da fuori. Il ventre molle di una città dolente, un’area abbandonata e degradata che le erbace stanno riconquistando senza alcuna resistenza. Senza nessun sopralluogo e nessun controllo. Perché basterebbe farsi un giro per capire che qui, quantomeno, va sbarrata la possibilità di passaggio in ogni maniera possibile. A fianco del lato che guarda in via Paul Harris, mentre torniamo indietro, brandelli di recinzione in plastica che forse un tempo delimitavano l’area cantiere ed un pallone in un grosso avvallamento del terreno.

E’ l’unica cosa che ricorda un passato remoto, con una fontanella sotto ad un portico, due porte arrugginite ed erba (non tanta, soprattutto in prossimità delle porte) e sole tra i quali correre a perdifiato. Dà tristezza, il pensare a quel che era, e a quel che è adesso quell’area. La periferia della periferia. E non quella di Calcutta. Urge comunque una recinzione, qualcosa che impedisca ai curiosi di spingersi oltre quel prato d’erba e rudo. Perché al di là dei rifiuti il pericolo di farsi male è reale.

Probabilmente urgerebbe anche una pulizia profonda di tutto il perimetro che va dal parcheggio all’area cantiere. Ma forse è chiedere troppo: la strada è stata aperta, lo schifo ed il senso di abbandono sono rimasti. Accresciuti dal tempo e dall’indifferenza.

Nazzareno Condina

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