La famiglia Berra, il rugby e la storia infinita: Matteo, figlio di Battista, pronto al salto come arbitro
Matteo è figlio di Battista Berra: mantovano di Cerese come il padre, oggi trasferitosi nella città che diede i natali a Virgilio, ma legatissimo a Viadana. Nella gioia e nel dolore, come per tutti i matrimoni.
MANTOVA/VIADANA – Nel nome del padre. Così inizia ogni preghiera, così è iniziata pure la carriera di Matteo Berra. “Ogni bambino guarda al proprio padre come a un modello. E spesso pratica il suo stesso sport: io a dire il vero ho iniziato col calcio, ma solo perché dai 6 ai 10 anni non c’erano squadre che mi consentissero di giocare a rugby, che è sempre stato il mio grande amore, instillato da papà. Però appena ho potuto ho cominciato a correre dietro una palla ovale: iniziai in una under 13, anche se avevo solo 10 anni, appunto. Non volevo aspettare ancora”.
Matteo è figlio di Battista Berra: mantovano di Cerese come il padre, oggi trasferitosi nella città che diede i natali a Virgilio, ma legatissimo a Viadana. Nella gioia e nel dolore, come per tutti i matrimoni. “Ricordo bene quel giorno: ero in tribuna con mia mamma e mio fratello più piccolo, di due anni. Io ne avevo sei, di anni, e ricordo tutto”.
“Quel giorno” è sabato 10 ottobre 1998, e la vita della famiglia Berra subisce una rivoluzione copernicana: Battista, tallonatore dell’Arix Viadana, sta sostenendo una mischia contro il CariPiacenza, gara di Coppa Italia. “Ricordo che la mischia ha ceduto di colpo, sotto a tutti era rimasto mio padre – spiega Matteo – . A 6 anni sei già abbastanza grande per capire. Ricordo l’ambulanza in campo, ad un certo punto volevano chiamare anche l’elicottero: mio padre venne rianimato tre volte, il suo cuore si fermò due volte. Alla fine ce l’ha fatta, ma la lesione del midollo spinale lo ha costretto per tutta la vita su una sedia a rotelle. Ricordo quegli istanti concitati e poi un compagno di squadra che prese mio fratello e me e ci portò a casa in auto, per non farci vedere altro”.
Nel nome del padre, Matteo – che ha sempre divorato rugby anche in televisione, oltre che allo stadio Zaffanella (e non solo) – non ha mollato questo sport. Mamma Sandra non ha mai avuto nulla da ridire sulla tua scelta, dopo quello che era successo a suo marito? “A dire il vero no, anzi mi ha incoraggiato: ha visto in me una forma di riscatto. Ha capito che io dal rugby potevo prendere quello che era stato sottratto dal destino a mio padre. Lui ripete sempre che poteva accadere ovunque, sul lavoro, nella quotidianità, il fatto che sia accaduto su un campo da rugby è stato solo un caso. Da mio padre ho preso molto e ho appreso tutto il bene che si dice dei rugbisti: che sono altruisti, che giocano di squadra anche nella vita, che sono leali. Luoghi comuni? Chi pratica questo sport e lo conosce a fondo sa che non è così. Per questo, forse, conoscendo bene le regole perché ho seguito una palla ovale sin da bambino, il mio passaggio è stato quasi automatico”.
Matteo Berra, di professione geometra, in effetti da atleta di rugby è diventato da qualche anno arbitro. “Ho fatto diversi ruoli: a Cerese un anno ero apertura e l’anno dopo seconda linea. Due posizioni che più diverse non si può. Poi mi sono adattato all’ala: ho giocato pure a Viadana, probabilmente era destino, fino all’Under 20. E lì, pure per me, la svolta è giunta da un infortunio: la spalla mi è uscita dalla sua sede naturale e, nonostante le operazioni, non è mai tornata a posto del tutto. A quel punto sono andato avanti ancora un anno e mezzo, arrivando a giocare in serie B a Mantova, ma già avevo capito che la carriera di arbitro era più consona alle mie attitudini. E pure alla mia condizione fisica post infortunio”.
Già da giocatore, infatti, Matteo arbitra in deroga. “Nelle partite giocate nelle giovanili mi accorgevo di essere più sul pezzo io, come conoscenza del regolamento, rispetto a chi veniva ad arbitrarci: questo perché mio padre mi aveva insegnato tutto e poi, da appassionato, avevo studiato e mi ero aggiornato. Conoscere le regole, in uno sport all’epoca considerato di nicchia come il rugby, ti aiuta a giocare al meglio in ogni ruolo, ed è il motivo per cui spesso cambiavo posizione in campo. Ho iniziato ad arbitrare nelle giovanili, nelle varie under, e ora sono arrivato fino in C1, categoria già nazionale, con una presenza da guardalinee in serie A, la seconda categoria italiana. Ma le più grandi soddisfazioni sono altre due”.
Ovvero? “Da un lato il fatto di coordinare l’intera sezione degli arbitri di Mantova, un gruppo di giovani che sta crescendo bene. Ci stiamo dando da fare, stiamo tentando il salto di qualità. Qualcuno ha intuito questa buona volontà e ha deciso di premiarmi, come rappresentante della sezione: per questo sono stato quinto uomo, addetto a una delle due panchine, nell’ultimo match del 6 Nazioni under 20 tra Italia e Galles giocato al “Martelli” di Mantova, praticamente a casa mia. Gli arbitri erano scozzesi, più una donna inglese e un altro italiano, come me: li ho accolti e, una volta in campo e passata l’emozione, è stato abbastanza semplice. Non posso dire di avere arbitrato nel 6 Nazioni, perché sarebbe una parola grossa, ma ho fatto un piccolo passo in avvicinamento a quello che è un traguardo e l’ambizione di qualsiasi direttore di gara di questo sport”.
E’ vero che l’arbitro di rugby è più rispettato rispetto ai suoi colleghi in altre discipline? “Dipende sempre dai casi: purtroppo noto che qualche atleta, già dalle giovanili, inizia a fare un po’ il furbo, a provarci e a protestare inutilmente. Sono atteggiamenti presi da altri sport che i rugbisti veri da sempre condannano. L’influenza del calcio, in questo senso, è abbastanza negativa. Va anche detto che a fine gara nessuno ha più nulla da dire e al fischio conclusivo tutto finisce, comprese le eventuali polemiche. E’ un clima indubbiamente diverso, ma vanno stoppati i furbi o anche solo quelli che parlano troppo, per evitare derive pericolose. Manteniamo il rugby uno sport più puro possibile, nonostante la sua durezza”.
Mamma non si è mai opposta alla tua decisione, anzi ti ha incoraggiato. E papà ti ha mai consigliato? “In verità no: forse si fida di quello che già mi ha insegnato. In fondo me lo porto sempre dentro e non ha bisogno di ricordarmelo”. Nel nome del padre. E anche del figlio…
Giovanni Gardani