Cronaca

Serve almeno una speranza. Gli Amici Centro Italia tornano a casa dalle frazioni di Amatrice

Servirebbero centomila piccoli sogni come quello di un commerciante del casalasco, che ha deciso nella propria attività alimentare di aprire un 'corner' di prodotti del luogo, appoggiandosi ad una piccola società cooperativa di produttori di formaggio di Illica

AMATRICE – “Questa è una terra che ha sempre vissuto di turismo e di allevatori. Terra di gente aperta che ha sempre accolto tutti a braccia aperte. Oggi tanti giovani se ne sono andati, e tante di quelle persone che ti accoglievano le vedi tu stesso. Sguardi spenti, ad aspettare chissà cosa, o solo a sopravvivere”. E’ la rassegnazione di tanti il sentimento più dirompente che respiri, quello che più di ogni altro ti traccia solchi profondi. Non c’è tristezza più grande da vivere che quella di chi non ha pensieri che guardano al futuro. A Cornelle superiore si allevano ancora cavalli. I gatti ti osservano. Qui su, dove finisce la strada ed inizia il cielo, sono tanti. C’è un piccolo spazio anche per loro a 1100 metri dai ricordi e da quella sensazione che cambierà poco, o nulla. Vivono allo stato brado i cavalli di M., che i gli animali li domava prima del terremoto e che una vita se l’è inventata altrove, a Roma, dove ha trasferito la famiglia e qui torna nei fine settimana. A vegliare i capi che restano, maremmani e misti, c’è il padre. Vive in una roulotte da subito dopo il terremoto. Vive e aspetta, forse il nulla. E’ stato qui quando qui c’era la neve alta, dorme qui. Il bagno è venti metri più in basso, ricavato in una piccola rimessa. Con qualunque tempo, è lì che devi andare se hai bisogno.

Cavalli, capre, mucche e sassi, strade che si perdono tra le macerie ed in borghi fantasma. Non è cambiato niente da due anni a questa parte, poco o niente. Sì, qualche appalto è stato dato, qualche sasso è stato tolto e qualche edificio abbattuto ma tanti scheletri sono ancora lì, tanti borghi restano in attesa di essere cancellati e per sempre. Perché poi funziona così. Vecchie case, tenute su dall’indifferenza. Cartelloni di imprese edili che campeggiano sulle macerie che restano lì, ferme come erano mesi fa. Paesi carichi di poesia e di malinconia in attesa di essere cancellati dalle carte geografiche e sostituiti da casette in legno tutte uguali, poste l’una accanto all’altra.

A Torrita, a fianco di uno degli agglomerati SAE, sorge un centro ricreativo dedicato alle donne. “In questo angolo – ci racconta un ex taglialegna riconvertitosi con estrema fatica all’allevamento di pochi capi di bestiame ed adattatosi a fare tutto – ci sono tre donne ed hanno fatto una struttura grande, tutta inframmezzata con tante piccole stanze. Cosa dovrebbero farci lì dentro? Fare la maglia? E’ qui che se ne vanno via i soldi. Almeno avessero creato una struttura con un unico vano, avremmo potuto utilizzarla tutti in qualche altra maniera. Ma hanno pensato di fare così”. Anche per lui la mattina è sempre la stessa, con i figli che cercano un lavoro, le bestie da accudire ed un carico di ricordi a Casali di sopra che ormai è un borgo fantasma dove il vento soffia e restano i cani a vegliare. Va avanti e indietro G., da quella che era casa sua. In alto ha lasciato i cavalli, un vitello e le capre, vegliate dai cani. Lo spazio è stretto, ma al momento è questo.

“Che vuoi che ti racconti – spiega il custode di Conche, due cani e una ventina di gatti da vegliare – qui sopravviviamo. Vi ringrazio per il cibo per i gatti ed i cani, è un aiuto anche quello. No, non ho più speranza, qui non faranno nulla”. Tu speri di trovarlo con un altro umore G., ex caporedattore al Mattino di Napoli, una vita diversa vissuta tra incontri, servizi e redazioni, ma poi te lo ritrovi così, spettinato ed arruffato, un po’ come le montagne, e sempre più stanco. Casa sua resta in piedi, ma è inagibile. Di notte ci fa entrare i gatti, almeno loro possono trovarvi riparo. Conche è un piccolo borgo poggiato sul lago di Scandarello, bacino sormontato da una diga. E non è il senso di abbandono a fare male, e non sono neppure i gatti che lo popolano, ormai solo loro. Ma è la completa mancanza di speranza, quelle vecchie case che un giorno verranno tutte rase al suolo. La piccola chiesa è aperta. Banchi scomposti, polvere e silenzio. Dai cortili delle case che restano in piedi tenute da contrafforti affinché non si aprano, si vede il lago, ove tutto è quiete e poesia. Già, la poesia. Non si mangia, ne ci si fa nulla. Serve solo a graffiare un po’ di più il cuore, a fare ancor più male. Il custode di Conche continua a vegliare su quelle pietre e sui gatti. Ha una SAE a Poggio Vitellino, altro agglomerato di pareti in legno e di case tutte uguali in cima a una montagna. “Ma io resto qui. Chi ci pensa poi ai gatti? Ho scelto di restare per loro, non perché ho speranza che cambi qualcosa”. La speranza qui è un sentimento gigantesco, in pochi sembrano averne ancora un po’.

Qualcuno – anche qui – si chiede e ci chiede il perché continuare a portare aiuto, soprattutto alle bestie, da queste parti. Qualcuno lo fa con rabbia. E’ una domanda più che lecita, una domanda che merita attenzione perché poi, l’assistenza fine a se stessa resta un cucchiaino d’acqua travasata in mare. Aiuti Tizio e non puoi aiutare Caio, ti muovi col WWF Umbro che – tra le poche realtà rimaste – gira con continuità quei luoghi seguendo le millemila colonie feline di quei luoghi ed aiutando allevatori in difficoltà e lo fai con tutto il cuore che puoi. Ma non serve, non basta, non assisti che i pochi che puoi assistere e comunque non è questo il futuro e forse ha poco senso anche nel presente. Una piccola boccata d’ossigeno tra due infinite apnee.

60 quintali di materiale, per la maggior parte cibo per il bestiame e per gli animali da affezione. Una ventina le persone partite da Martignana di Po, da Casalmaggiore, da Cremona, a cui si sono unite un gruppo di persone dal Veneto. Sono della FISE (Federazione Italiana Sport Equestri), stanno pensando a come fare in modo di aiutare almeno gli allevatori di cavalli e quelli che facevano attività con gli equini prima del terremoto. Ma di fronte alla rassegnazione c’è poco da fare. Sbatti la testa contro. Contro due anni e mezzo di lotta durissima, di vuoto, di niente, di dispersione di denaro, di strenua resistenza, di partenze per altri dove, di case abbandonate a se stesse, di sguardi senza più speranza, di richieste inevase, di uomini che vedono il futuro solo a poche ore di distanza perché altro non possono permettersi. I cavalli chi può li vende.Ci ha provato anche lui, M., nei giorni scorsi a Bologna. E’ andato a trattare, ma lo spazio per loro era esiguo. I suoi cavalli, allevati allo stato brado “Questi si fanno una 30ina di km al giorno, sono comunque liberi. In uno spazio ristretto sarebbero morti”. Li ha tenuti alla fine, non se ne è fatto nulla. Contente sono le piccole figlie che ce li additano e li chiamano tutti per nome. Li sanno montare. La più grande che è qui e guarda ai cavalli non ha ancora 10 anni.

“Come si può pensare ad un qualche tipo di attività se la realtà è questa?”. Già. La realtà è proprio quella di gente che lotta per il presente, di tanti che se ne sono andati, e di tanti altri che sopravvivono. Non puoi neppure dare loro torto. Non riesci neppure a portare loro una qualche certezza. Porti al limite un’ora in cui ascolti racconti, bevi un caffé, lasci fioccato per i cavalli, respiri quella stessa aria di una lotta titanica di tanti contro i giganti. Che qui si chiamano burocrazia, spreco, in qualche caso racconto di altre zone dove c’è chi si è approfittato ed altri che si chiedono come fare per portare avanti qualcosa che abbia un futuro. O che – in tanti casi – neppure se lo chiede più.

Ci raccontano di contributi dati a stalle fantasma, di richieste e di tasse che comunque si pagano, di mutui che restano, di progetti lasciati in sospeso. Di lacrime e rabbia, di rinascite con pochi mezzi, di partenze per sempre.

A Capricchio c’è chi alleva le mucche. La strada per raggiungere il paese vecchio è poco più di una sterrata aggrappata alle montagne. Sono per lo più anziani che non accettano di arrendersi. Gente dalla grande anima, dall’infinito coraggio, che ha fatto dei containers (ce ne sono ancora tanti) la propria casa o che ancora vive in roulotte. Va un po’ meglio ad Amatrice, dove tra area food e piccoli centri commerciali qualche cosa è ripartita e pure si lavora. Ma basta spostarsi di poco dal centro più grande e raggiungere le frazioni (69 quelle di Amatrice) per rendersi conto che la vita resta quella, durissima, di chi non ha accettato di andare via.

“Stiamo aspettando che ci chiamino per rimuovere le macerie – ci raccontano due ragazzi a Torrita – almeno un po’ di lavoro per noi”. Per chi resta, spesso ci si adatta a qualunque cosa purché serva a portare a casa qualche soldo. Uno di loro è volontario della Croce Rossa. E’ stato uno dei primi a scavare tra le macerie, a recuperare i corpi ormai senza vita degli amici. Qui neppure fare il volontario è facile: “Le divise ce le dobbiamo comprare noi, per fare i corsi di aggiornamento ci mandano lontano, e ce li dobbiamo pagare”. Il padre li incalza: “Sono contento che mio figlio faccia volontariato, ma se anche per fare quello dobbiamo pagare, come possiamo permettercelo?”. Qualche bagliore di speranza resta: “Stiamo cercando uno sponsor, qualcuno che ci dia una mano con le divise. Se lo troviamo le prendiamo per tutti”.

A Scai una giovane donna ha un cavallo in un piccolo box. E col cavallo, a fianco tacchini, oche, cani e galline. Ci aspetta al cartello del paese e ci guida tra strade che sono campi di battaglia verso casa sua. Una struttura che da fuori sembra pressoché intatta. “Dovrà essere abbattuta” ci racconta col viso carico di tristezza e la voce rotta dall’emozione. Da lontano non si può neppure immaginare cos’è vivere qui. O vivere a Casali di Sotto. Dove ci sono tre mezzi dell’esercito. Il paese sarà quasi interamente raso al suolo. C’è una piccola chiesa del ‘700, una di quelle strutture minuscole di montagna. Non abbiamo neppure il coraggio di chiedere, a chi ci racconta di attendere che vengano a radere al suolo la propria dimora, se quella piccola chiesa resterà o subirà la stessa sorte. I militari arrivano, lavorano con i propri mezzi riducendo in briciole quel che resta in piedi. Non si recupera niente, o comunque poco perché poi è più economico radere al suolo. C’è chi resiste, come Giannina. La sua casetta, aggrappata ad un costone in prossimità della curva, è stata nel periodo post terremoto, il centro in cui trovavano riparo e sostegno gli uomini dell’esercito, quelli della polizia e della guardia di finanza. Lei è abilissima a fare le torte ed un caffé con un amaro c’è sempre per chi si ferma. Ci mostra alcune foto sul cellulare, sono di un graduato dei carabinieri con cui ancora si messaggia, ora lui è in missione in Africa, ma il legame resta forte. Si è fatta voler bene.

A Musicchio c’è qualche problema alle casette. La gente per lo più ha fatto fronte comune: “Il pavimento si solleva” ci racconta una donna che avrà si e no 40 anni e sembra dimostrarne almeno una decina in più. Infiltrazioni d’acqua. “Abbiamo segnalato la cosa, vediamo se ce le sistemano. La prossima volta che venite facciamo una festa”. Lo spirito di tanti è rimasto quello di chi resta a braccia aperte, pronto ad accoglierti. E’ lo spirito più profondo della gente di qui.

Ogni volta porti a casa mille racconti. Mille pietre ancor più pesanti di quelle che poi ti guardano sul ciglio della strada. E porti a casa la sensazione che non si potrà andare avanti a portare aiuti per sempre. Perché è una goccia nel mare. Perché comunque serve a poco. Qui serve altro. Serve la speranza che nessun volontario, seppur organizzato e seppur con cento camion di aiuti può portare. Servirebbe che ci fosse lo stato, quello con la ‘S’ maiuscola che non c’è o – se c’è – si muove con la lentezza classica delle vicissitudini italiche. Servirebbero fondazioni bancarie, progetti, comuni e gemellaggi, imprese pronte a fungere da supporto a quello che già c’è qui. Non per calare progetti dall’alto o da lontano, ma per sostenere la lotta di chi ancora lotta, il lavoro di chi è in grado di lavorare lì, o per soffiare sulle braci di chi ha smesso di lotare. Servirebbe qualche piccola luce che possa riaccendere almeno una speranza. Servirebbe guardare oltre, soprattutto in tutte quelle piccole realtà che fanno fatica a guardare oltre l’immediato.

Servirebbero centomila piccoli sogni come quello di un commerciante del casalasco, che ha deciso nella propria attività alimentare di aprire un ‘corner’ di prodotti del luogo, appoggiandosi ad una piccola società cooperativa di produttori di formaggio di Illica che contatterà dopo aver raccolto informazioni direttamente in loco. Una speranza, quella che non c’è neppure il millemila sacchi di fioccato, ma che forse, nel profondo dell’anima anche di chi ha lo sguardo spento e la schiena piegata dalla fatica di restare al mondo in quelle condizioni, resta.

Questo il passo ulteriore che deve essere fatto. Per quella terra e soprattutto – anzi in primo luogo – con quella terra che ha ancora tanto da insegnare, da dire e da dare a tutto il resto dell’Italia e del mondo intero.

Nazzareno Condina

 

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