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L'emozione della fatica: il casalese Pasquali racconta la sua Maratona di New York

"Oltre alla mia compagna Rossana Ruggeri - racconta l'ex consigliere comunale - con noi c’erano diversi ragazzi cremonesi e anche Cristiano Bozzolini di Vicomoscano. Lui è più un abitudinario della maratona da 42 km e infatti a New York tornava per la seconda volta. Per me invece era la seconda maratona in assoluto”.

CASALMAGGIORE/NEW YORK – L’orologio e la solitudine: un oggetto e un concetto che per Uber Pasquali sono sempre stati ben distinti. E un po’ distanti. Per questo, forse, il 41enne di Casalmaggiore di stanza oggi a Mantova con la compagna Rossana Ruggeri, ha sempre preferito il mondo dell’ultra-trail alla maratona classica. Per questo, per lui, New York era più uno sfizio che una tensione pulsante, un desiderio prima che una ossessione.

“So benissimo che correre nella Grande Mela ti fa entrare nel mito perché quella è “la” Maratona per eccellenza a livello mondiale – spiega Uber, in passato anche consigliere comunale di minoranza a Casalmaggiore – . Ma non ho mai cercato, per così dire, questa corsa. Però sapevo che prima o poi l’occasione si sarebbe presentata. Oltre a Rossana, con noi c’erano diversi ragazzi cremonesi e anche Cristiano Bozzolini di Vicomoscano. Lui è più un abitudinario della maratona da 42 km e infatti a New York tornava per la seconda volta. Per me invece era la seconda maratona in assoluto”.

Uber ha cominciato a correre a 14 anni: a 41 non ha ancora smesso. “Anzi, come spesso accade, con il sopraggiungere della maturità si inizia ad apprezzare di più la fatica e fare sport diventa una sfida a te stesso e ai tuoi limiti. Sempre allenandoti al di fuori dell’orario di lavoro, il che non sempre è scontato, specie per me che ho un impiego a Vicenza. Mi sono iscritto all’Atletica Viadana per quanto concerne la corsa in piano e poi a una società in provincia di Brescia per lo sport in montagna, quello che di gran lunga preferisco”.

Ultra-trail e maratona, ecco la differenza. “Quando ho iniziato, si partiva dai 5 km di corsetta leggera, poi i 5 km sono divenuti 10, poi 20, e l’approdo a quel punto più banale era la maratona: ma lì non mi sono fermato, arrivando anzi a corse anche da 150-160 km in montagna. Ovviamente con tempi ed esigenze ben diversi. La differenza sta nel cronometro e nel contesto: l’ultra-trail, e per me l’eterno Marco Olmo (amico di Spotfoglio, già intervistato sulle nostre pagine, ndr) è stato di grande ispirazione, mi consente di respirare la natura, di godere dei suoi silenzi, dei suoi profumi. E anche la preparazione è molto varia. Una maratona è più chiassosa, meno affascinante e la corsa in piano un po’ più noiosa, anche nei mesi che ti portano ad affrontarla, dove fai qualche allungo, ma spesso sei sottoposto a “dritti” anche di 25-30 km in una giornata. Inoltre nell’ultra-trail si punta ad arrivare, mentre nella maratona, se ci tieni un po’ e non sei solo un novizio, devi tenere d’occhio l’orologio: non perché tu voglia arrivare primo, ma perché magari ti poni un obiettivo e cerchi di raggiungerlo”.

A tal proposito, come è andata a New York? “Puntavo a chiudere in 3 ore e 30: ho fatto 3 e 39”. Deluso? “No, direi di no, perché dal 34esimo chilometro ho iniziato ad accusare crampi e quindi a quel punto per me l’obiettivo è diventato arrivare al traguardo, senza guardare più il tempo. E’ stato faticoso soprattutto perché per 35 km sui 42 complessivi ho corso in mezzo al tifo, alle urla, alle canzoni, in una parola al casino. Ed è bellissimo, per carità, quando tanta gente ti acclama anche se non sa nemmeno chi tu sia, è una bellissima festa di popolo: però per me, abituato a correre con i decibel bassi della natura e della montagna intorno, è stato un po’ complicato trovare la concentrazione. Non dimentichiamo che la maratona è in primis una sfida mentale più che fisica”.

Trentacinque km su 42 di chiasso, hai detto. I restanti sette, oltre a Queensboro Bridge, unico non aperto al pubblico, li hai vissuti nel silenzio? “Siamo passati dal quartiere ebraico, dove in tutto avremo incontrato una ventina di ebrei ortodossi, non di più. Ti guardavano, qualcuno ti sorrideva, ma non c’era tifo: loro sono abbastanza contrari a quella forma di divertimento e sport, per cultura, e dunque sentono meno la manifestazione che invece per il resto del mondo è un punto di riferimento. Ma non c’è mai stato ostracismo, semplicemente non ne erano attratti come tanti altri”.

Il ponte di Verrazzano, il passaggio ad Harlem, il Bronx solo sfiorato, poi Central Park. “Quando arrivi lì ti senti arrivato, in realtà mancano ancora 6-7 km. Nulla da dire sulla bellezza del percorso, davvero completo. Però devo dire che, contrariamente ad altre volte, e alla mia prima maratona affrontata a Dublino dieci anni fa, a New York più del viaggio, ossia dei 42 km di fatica, ho apprezzato partenza e arrivo”.

Ovvero? “All’inizio del percorso ho avuto la fortuna di essere subito dietro i top runner, i favoriti, quasi tutti keniani ovviamente. E lì ho avuto il piacere di ascoltare la bellissima voce di una cantante che ha aperto la corsa. Ma particolarmente struggente è stato avere di fianco persone legate alla forza pubblica, come poliziotti, vigili del fuoco e non solo, che, in qualche modo, avevano perso famigliari o parenti per i vari attacchi terroristici che hanno colpito l’America e il Mondo in questi anni. Ho fotografato la maglietta di un concorrente: c’era scritto “Running for Dad”, correre per papà. E ho poi scoperto dalla maglia che il padre di quel ragazzo era morto al World Trade Center l’11 settembre 2001. Non è facile correre dopo una scossa umana del genere, ma è la magia di questa maratona: fare incontrare culture e storie che altrimenti resterebbero celate”.

Sul finale invece? “Appena arrivato, l’emozione è stata aspettare la mia compagna. Per questo mi sono messo, una volta tagliato il traguardo, tra gli spettatori dietro le transenne e lì l’ho attesa: è stato un sollievo vederla arrivare, perché entrambi avevamo completato il nostro obiettivo, ossia giungere fino al traguardo nella gara considerata più prestigiosa di tutte”.

Ci sarà un’altra New York? “Mai dire mai, anche se ora preferisco tornare alle mie montagne e ai miei ultra-trail: però se l’Italia ha un numero di rappresentanti secondo solo agli Stati Uniti, in una corsa peraltro a numero chiuso, significa che il richiamo e il fascino di questa gara arriva forte da noi. New York è in fondo una metropoli molto italiana. Chissà, magari un giorno, ripeterò l’esperienza”.
Un desiderio, che però non si è mai fatto ossessione…

Giovanni Gardani

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