Lentezza e riscoperta: da Rivarolo un territorio rivisto di campanile in campanile
L’occasione è servita anche a don Luigi Pisani per ringraziare tutto il gruppo che lo ha sostenuto, “i miei talebani”, come li ha scherzosamente definiti il parroco, cui è stata dedicata una poesia di commiato scritta da Tenca parafrasata per l’occasione.
RIVAROLO DEL RE – Fermarsi, osservare, contemplare, riflettere. Quattro verbi, rigorosamente in questo ordine, per riscoprire il nostro territorio, tra golena e campagna, e custodirlo. Questo il messaggio della serata culturale organizzata nella cornice della festa dell’oratorio di Rivarolo del Re, aperta dal saluto di don Luigi Pisani, che per sua stessa ammissione è arrivato “al canto del cigno”, prima di passare alla nuova avventura, dal 17 settembre, a Bozzolo. “Abbiamo pensato di accompagnare questo convegno con la mostra fotografica di Pierluigi Ghezzi – ha detto don Pisani – perché alcuni suoi scatti sembrano veri e propri quadri e questo aiuta a contemplare, appunto, una bellezza che rischia di sparire. La bellezza delle fotografie, degli espositori in legno donati dalla ditta Aschieri di Fossacaprara e sistemati da Mauro Poli, che sono opere d’arte anch’essi, delle poesie pregne di sentimento di Gianpietro Tenca e di altri autori, anche giovani, infine delle musiche di Vivaldi e Morricone che accompagnano la mostra”.
Il convegno iniziato con le parole di Mauro Ferrari, docente di Cà Foscari a Venezia originario di Bozzolo e profondo conoscitore delle nostre zone. “Alle volte diamo tutto per scontato: io dico sempre che sarebbe bello, ad esempio, poter intervistare una pianta di pomodoro o di gelso, per sentire cosa avrebbe da raccontarci. Il consumo di suolo avviene in modo incrementale e nemmeno ce ne accorgiamo. Ma quello che togliamo, che se ne va per sempre, è spesso anche la nostra identità. La storia del pomodoro, che è stata digerita culturalmente nel tempo dalla nostra terra dopo l’arrivo dalle Americhe, è anche la nostra storia. Siamo invece abituati a consumare senza interrogarci sulla profondità storica, come se fossimo vittime di monocolture non solo dei campi, ma anche nella mente. Eppure questi studi consentirebbero di capire di più sul fenomeno delle migrazioni, per esempio. Il nostro ecosistema è profondamente meticcio, infatti, e si è modificato dopo viaggi e mescolanze. Pensiamo agli animali alieni come nutrie e siluri: e si tratta di spostamenti voluti dall’uomo, con gli Stati a nord del pianeta che hanno fatto proprie queste scelte e questi passaggi. Questa è la premessa anche per seguire la stessa scia delle migrazioni di massa delle persone. Pensiamo ai Sikh: non hanno rubato il mestiere a nessuno, si sono inseriti semplicemente, partendo dal Lazio e poi salendo a Nord, al posto dei bergamini che non vi erano più. Siamo dunque immersi in una enciclopedia vivente, che va studiata o almeno considerata e che è il nostro territorio. Qualche anno fa a Casalmaggiore la mostra “Il paesaggio che mi fu rubato” fotografò lo svuotamento del paesaggio e dei centri storici, con la violenza esercitato dall’uomo sugli stessi. Lì emersero elementi di consapevolezza non apocalittici, ma nemmeno da sottovalutare: se ci muoviamo distrattamente è un problema, ma per fortuna abbiamo la chance di fermarci e di sostenere piccole grandi esperienze. Penso alla Sagra di Fossa che c’è appena stata o al distretto bio del Casalasco che sta per nascere. Su un territorio affettuosamente disastrato come il nostro si trovano anche buone energie e risorse”.
Tra un intervento e l’altro sono state lette alcune poesie (riportate anche alla mostra fotografica di Ghezzi tra una foto e l’altra) da parte di Erminio Zanoni. Successivamente ha preso la parola Damiano Chiarini, presidente dell’associazione Persona Ambiente, che ha presentato alcuni passaggi dell’enciclica di Papa Francesco “Laudato Si’”. “Per la prima volta nella storia dell’umanità è cambiato il termostato della terra e abbiamo creato 6 milioni di profughi ambientali, che secondo l’Onu saranno 25 milioni nel 2050. Anche noi non siamo esenti da grandi fenomeni di cambiamenti climatici, come mostrano le alluvioni in Liguria di pochi anni fa. Per l’85 per cento l’energia proviene da fonti fossili ed è semplice trovare una relazione stretta con territori geopoliticamente instabili. La Germania però ha investito e sfrutta un 60 per cento di energia rinnovabile, la Danimarca nel 2050 avrà una copertura del 100 per cento, l’Alto Adige arriverà al 75 per cento nel 2020. Di certo qui abbiamo trasformato il territorio in modo inefficiente, pensando spesso soltanto alle auto nella nostra Pianura Padana che va vista come una grande megalopoli da Torino a Venezia. In Italia consumiamo al minuto 7 metri quadrati di suolo, non rigenerabile, e abbiamo perso il 30 per cento di superficie agricola. Nel 2017 100mila persone non hanno potuto mangiare il cosiddetto Food Italy, perché si è persa la capacità produttiva. Eppure c’è chi sa innovare: a Friburgo in 40 anni sono passati da 29 a 500 km di ciclabili e sono state costruite 7mila case autosufficienti energeticamente. Noi invece pensiamo alla Tibre, che brucia 3.4 miliardi di euro e 3mila ettari di terreno per unire merci dal Mediterraneo al Mare del Nord, quando basterebbe una ferrovia che costerebbe 80 milioni e non consumerebbe suolo. Sono scelte, e anche il biogas, con 140 impianti in provincia di Cremona, è stata una scelta sbagliata, figlia di una mancata pianificazione energetica. Ecco allora che il rapporto al quale bisogna tornare è quello di custodia verso la nostra Terra, favorendo il biologico, che nel 2015 ha aumentato le vendite del 20%, e i processi lenti, come la ciclovia Vento, che potrebbe portare 400mila turisti all’anno e costerebbe come 3 km di Tibre, creando 2mila posti di lavoro”.
Giorgio Milanesi, ultimo relatore a intervenire e docente dell’Università di Parma, ha invece intessuto rimandi tra la storia architettonica e antropologica del territorio. Partendo dall’esempio delle Diocesi. “Si costruivano territori plasmati per determinate esigenze, quelle di controllo: è strano pensare che 16 secoli fa, quando non esistevano ponti sul Po, i Vescovi ebbero comunque l’idea di avere parte della Diocesi da una sponda e parte dall’altra del Grande Fiume. La parola d’ordine era territorializzazione, mettere una bandierina: pensate al comune di Cremona, che ha due comuni oltre l’Oglio, pur essendo quel territorio dominato dalla Diocesi di Brescia, che è sempre stata molto forte. E pensiamo anche all’esempio di Palazzo Pignano, enclave in territorio cremasco della Diocesi di Piacenza. Già, ma come si poteva capire di essere proprio in Diocesi di Piacenza? Bastava osservare la chiesa di Palazzo Pignano, che in tutto e per tutto, ricorda il Duomo di Piacenza. Anche in provincia di Cremona è così: Rivarolo del Re, Vescovato, tanti altri paesi, hanno ad esempio il campanile a sinistra, proprio come il Torrazzo per il Duomo di Cremona. Ecco allora che il territorio va letto con marker e segni identificativi che dobbiamo essere in grado di capire: per farlo però occorre avere occhi lenti, perché la nostra campagna non si può comprendere correndo veloci in autostrada. Occorre cioè passare di paese in paese, anzi di campanile in campanile, per fare sempre la strada più breve, dato che la territorializzazione portava proprio a questo, a creare rimandi e collegamenti vicini tra le varie chiese, tutte all’interno di una stessa Diocesi, come simboli. Il recupero consapevole del territorio passa anche da qui, dalla contemplazione e dalla riscoperta. Per esempio Voltido, paese quasi isolato e minuscolo, ha un campanile che risale al 1100. Uno dei più antichi, assieme a quello di Rivarolo del Re, della chiesa di San Zeno, che è del 1200”.
A tal proposito, quando la mostra è stata aperta, tutti hanno potuto ammirare questo studio da parte di Milanesi, che ha scoperto, partendo da alcuni segni distintivi trovati sui laterizi del campanile, proprio l’origine medievale di quel materiale da costruzione. La mostra, nel mentre, molto apprezzata, prosegue fino al 17 settembre. L’occasione è servita anche a don Luigi Pisani per ringraziare tutto il gruppo che lo ha sostenuto, “i miei talebani”, come li ha scherzosamente definiti il parroco, cui è stata dedicata una poesia di commiato scritta da Tenca su Motta ma parafrasata per l’occasione.
Giovanni Gardani