Cicognara, il nobel Grazia Deledda e don Mazzolari: l'incontro tra anime sublimi
«Spesso, dopo una di queste imprese conviviali, me la vedevo capitare in casa. “Vengo a respirare un po’. Mi tiene?”. E si buttava stancamente sopra una sedia di fronte alla Madonna del Borgognone, dietro la quale rideva in trasparenza un paesaggio scarno e tenue.
CICOGNARA – Don Primo Mazzolari e la scrittrice Grazia Deledda premio Nobel per la Letteratura nel 1926, sono stati due grandi figure del Novecento che incrociarono il loro percorso in una frazione di Viadana nel mantovano dal nome suggestivo di Cicognara, dove don Primo era parroco dal 1920.
La scrittrice sarda Grazia Deledda (1871-1936) aveva sposato nel 1900 a Cagliari un funzionario del ministero delle finanze, certo Palmiro Madesani, nativo di Cicognara e qui tornava con il marito per lunghi periodi, e proprio da questo ambiente nacquero diversi romanzi, quali “Nostalgie”, 1905, “L’ombra del passato”, 1907, “Annalena Bilsini”, 1927. Narrazioni ambientate proprio in luoghi caratteristici della pianura padana.
La frazione in provincia di Mantova era la stessa dove operava il prete scomodo (come amava definirsi) e fiero antagonista del fascismo, Don Primo Mazzolari. Conosciuto, in seguito, come il parroco di Bozzolo, fu un vero sacerdote carismatico e profetico, soprattutto anticipatore dei grandi temi del Concilio Vaticano II.
C’è infatti un capitolo del libro ‘Tra l’argine e il bosco’ dal titolo “Grazia Deledda parrocchiana”, dove don Primo parla della scrittrice nuorese come di «un’anima fuori del comune» che a Cicognara, sua prima sede parrocchiale, «capitava ogni tanto», essendo il marito, nativo di quel piccolo centro. La Deledda lo chiamava “il mio paese”, «con compiacenza poco insulare ma tanto amabile».
La prima volta che don Primo la conobbe, una domenica, la scrittrice «prese posto vicino ai banchi dei piccoli come una buona nonna venuta a rendersi conto dei nipoti non molto savi. Il parroco, come sempre, parlò più ai piccoli che ai grandi, a due passi da lei che ascoltava, la testa soffocata da un cappello larghissimo e senza gusto. Appena muoveva il capo, le brillavano gli occhi bellissimi in un volto che non fu mai bello, ma che l’età componeva amabilmente all’ombra dei capelli tutti bianchi».
Un giorno «parroco e parrocchiana si ritrovarono a colazione in una delle case ospitali del paese». Il parroco le domanda: «Come trova il paese?». E lei: «Assai cambiato, cominciando dal parroco. Qui non avrà trovato agnelli. Vedo però che sa prenderli. Anch’io ci sto bene». «Spesso, dopo una di queste imprese conviviali, me la vedevo capitare in casa. “Vengo a respirare un po’. Mi tiene?”. E si buttava stancamente sopra una sedia di fronte alla Madonna del Borgognone, dietro la quale rideva in trasparenza un paesaggio scarno e tenue.
Erano discorsi discontinui con lunghe pause e riprese lontane: un’anima fuori del comune che sentiva il bisogno d’aprirsi all’ultimo prete di campagna. ‘Mio marito – diceva – si occupa molto di religione: io mi accontento di credere alla maniera dei miei”». (Tratto da “Tra l’argine e il bosco” di Don Mazzolari e Grazia Deledda don Mazzolari). Don Mazzolari nota ancora: «Non ho mai trovato una scrittrice cosi capace di servire una cultura e arricchire le lettere di un paese. Il mondo dei suoi libri forse non lo visse mai. Le usciva non so da dove, senza volerlo bene, un dono spontaneo, irruente. Chi non l’ha sentita vivere non immagina quanto poco rappresentavano il suo vero mondo le creature dei suoi libri, quanto incolmabile fosse la distanza».
Quando poi, il 10 dicembre 1926, le assegnarono il premio Nobel, don Mazzolari mandò gli auguri a nome di tutti i parrocchiani. Un tumore al seno di cui soffriva da tempo la portò alla morte nel 1936, quasi dieci anni dopo la vittoria del premio. Le spoglie della Deledda sono custodite in un sarcofago di granito nero levigato nella chiesetta della Madonna della Solitudine, ai piedi del monte Ortobene di Nuoro.
Il sentimento religioso della Deledda si può dire fosse altissimo, infatti scriverà: «Di fronte al dolore, all’ingiustizia, alle forze del male e all’angoscia generata dall’avvertito senso della finitudine, l’uomo può soccombere e giungere allo scacco e al naufragio, ma può altresì decidere di fare il salto, scegliendo il rischio della fede e il mistero di Dio. Altri tormenti vive chi, nel libero arbitrio, ha scelto la via del male, lontano dal timor di Dio e dal senso del limite, e deve sopportare il peso della colpa e l’angoscia del naufrago sospeso sull’abisso del nulla».
Luigi Mignoli