Il campionario dell'impresa mai partita: al comune il fondo Rangoni - Ghezzi
“E’ stata deliberata ieri l'accettazione di una collezione molto curiosa per il museo Diotti - ha spiegato Pamela Carena - il dottor Rangoni ha deciso con grande sensibilità di donare al comune di Casalmaggiore"
CASALMAGGIORE – A volte sono le storie l’elemento più bello da raccontare al di là di una donazione, quella del campionario di manici d’ombrello in bachelite (o in galalite, il nome tecnico del corno artificiale), che va ad arricchire il patrimonio della scuola Bottoli, che è davvero straordinaria ed unica per tipologia di prodotto e materiale scelto per la realizzazione.
La storia della ditta Rangoni e Ghezzi, seppur mai partita se non nelle speranze dei suoi protagonisti, è una piccola storia d’altri tempi. Siamo a cavallo tra il 1956 e il 1957. Fulvio Rangoni (falegname, ma con una spiccata capacità tecnica e senso artistico) e Umberto Ghezzi (Baros) che di lavoro faceva il segantino (girava a tagliare legna nelle case con una sega a nastro trasportata dal carretto) hanno già una loro professione avviata.
Sono entrambi piuttosto giovani: uno del ’22, l’altro del ’25. Rangoni, studente della scuola Bottoli, è un artigiano fine, un intagliatore del legno che realizza anche violini, Ghezzi realizza sedute in ogni casa dove va a tagliar legna con maestria. Allora la scuola Bottoli, in Palazzo Martinelli, era il punto di passaggio obbligato per chi voleva imparare una professione artigianale. Il figlio di Rangoni non ricorda, ma gli studi (e la fattura di alcune opere) dimostrerebbero che in quella scuola il falegname artigiano aveva compiuto i primi passi.
I due decidono, a tempo perso e alla sera, di dedicarsi ad un’altra attività. Nasce così la Rangoni e Ghezzi, per la produzione di manici d’ombrello. Non si sa se ombrelli veri e propri, quelli da pioggia per intendersi, o da sole: la forma parebbe presupporre la seconda delle teorie. A lavorare, oltre loro, le mogli. Il materiale che decidono di utilizzare è un materiale particolare: la bachelite. Si modellano i pezzi dopo averla scaldata nell’acqua bollente, è poco versatile (rispetto ad altri materiali), non è colorabile né stampabile. Nascono manici d’ombrello (dapprima disegnati su carta a biro) con forme elaborate (per quanto il materiale consentiva) e carinissime: animali, uncini, fiori, foglie. Il compito è arduo, loro lo fanno per passione.
Ci provano insomma – pur senza lasciare il primo lavoro – ad inventarsi un’altra attività. “Col difetto – spiega Paolo Zani del museo del Bijou – dei casalesi per i quali il mondo finisce a Martignana, e forse neppure Martignana è conosciuta”. Una battuta, quella di Paolo Zani, che ben si sposa con quello che succederà in seguito. Fulvio e Umberto ci credono sul serio, creano il loro campionario (121 pezzi) e trovano anche una persona (un certo Bongiovanni) disposto a fare il rappresentante, le mogli catalogano tutto il materiale. Hanno anche una sede, in piazza Garibaldi 10 (dietro a quello che è attualmente il bar Italia e dove sorgeva una costruzione con un’ampia struttura cortilizia).
Ogni oggetto realizzato ha un prezzo e un nome, vengono creati i biglietti da visita dell’attività ed il registro delle vendite. Quel registro resterà per sempre bianco. In quegli anni infatti si è già affermato un altro tipo di materiale, ben più versatile, il Moplen (polipropilene isotattico) che si può lavorare in maniera ben diversa. Un materiale resinoso che rende obsoleta ed inutile la bachelite. I manici d’ombrello in bachelite di Rangoni e Ghezzi vanno presto in soffitta.
Poco male, loro la prendono bene. Ghezzi proseguirà con la sua professione che unirà negli anni successivi a quella di sabbiere lungo l’asta del Po, Rangoni, anni più tardi, tenterà un’altra impresa con un altro socio, quella del pasturatore. Creava, insieme ad un socio, gabbie in legno e argilla per la pastura da pesca. L’argilla a contatto con l’acqua si scioglieva ed i vermi (la pastura) da pesca venivano liberati attirando il pesce.Neppure di quel sogno se ne ha più grande memoria. Segno che forse non durò poi così a lungo.
Quel sogno dei manici d’ombrello a cavallo tra ’56 e ’57 è rivissuto questa mattina, grazie ai figli Francesco Rangoni e Ariela Ghezzi, all’assessore alla cultura Pamela Carena, a Letizia Frigerio, al curatore del museo Diotti Walter Rosa, al presidente dell’associazione Amici del museo del Bijou Paolo Zani nella sede del museo in occasione della donazione che Francesco col consenso di Ariela hanno fatto al Comune. “E’ stata deliberata ieri l’accettazione di una collezione molto curiosa per il museo Diotti – ha spiegato Pamela Carena – il dottor Rangoni ha deciso con grande sensibilità di donare al comune di Casalmaggiore questo fondo che è stato realizzato da Fulvio Rangoni ed Umberto Ghezzi. 121 pezzi realizzati artigianalmente in una resina plastica che è la bachelite”.
L’occasione della conferenza stampa in merito alla donazione è stata sfruttata anche per anticipare la prossima mostra (museo del Bijou, 23 settembre) in cui il fondo Rangoni-Ghezzi verrà presentato al pubblico. Oggetti di pregevole fattura, anche in considerazione della difficoltà di lavorazione della bachelite e unici al mondo nel loro genere, che verranno mostrati alla cittadinanza insieme ad altri oggetti realizzati con lo stesso materiale.
Una piccola storia della città, tra le tante, di un passato che di storie da raccontare ne ha tantissime. Storie di vita quotidiana, di imprese gloriose e di altre mai partite. Storie interessanti come quella di Fulvio e Umberto che a volte vengono alla luce quasi per caso. “Devo a Renata Raschi, mia moglie – ha spiegato Francesco Rangoni – la conservazione di questo materiale la cui importanza l’ho compresa appieno grazie anche alle sue parole. Ad un certo punto stavo per buttare tutto”.
Ora quel materiale fa parte del patrimonio comunale: un patrimonio in cui trova giustamente spazio il frutto dell’intraprendenza di due casalaschi poco più che 30enni allora. Ed in cui riemerge una storia bella, anche se non fortunata, e anche se solo da ascoltare. E da guardare.
Nazzareno Condina