Delitto Gobbi, connessioni con la 'ndrangheta legate a un'arma
Un’arma che, come lo stesso Gobbi aveva rivelato, forse vantandosi di questo aspetto, era stata utilizzata per omicidi e gambizzazioni legati all’ambiente della ‘ndrangheta, con la matricola che era stata poi abrasa.

VIADANA – Spunta anche un’arma, un Revolver 357 magnum a tamburo, nel delitto Giorgio Gobbi. Non certo l’arma utilizzata per uccidere l’uomo di 43 anni, originario di Rivarolo Mantovano e legato comunque al territorio cremonese perché residente a Cicognolo, ma il “ferro” che lo stesso uomo consegnò a Luciano Bonazzoli, 48enne reo confesso di avere ucciso il cognato il 4 dicembre 2014.
Un’arma che, come lo stesso Gobbi aveva rivelato, forse vantandosi di questo aspetto, era stata utilizzata per omicidi e gambizzazioni legati all’ambiente della ‘ndrangheta, con la matricola che era stata poi abrasa. Bonazzoli ha confessato questi particolari al giudice Matteo Grimaldi e al pm Silvia Bernuzzi, che stanno indagando sull’omicidio di Giorgio Gobbi, avvenuto con l’utilizzo di una doppietta, poi fatta sparire da Edo Dolci, accusato di complicità. Va detto che, sin dall’inizio del caso, quando l’omicidio scosse la zona comprensoriale con il cadavere di Gobbi ritrovato a Parma in un parcheggio, si era sospettato un delitto legato ad ambienti malavitosi: questo collegamento sembra poter confermare quella tesi, anche se in realtà il movente era famigliare, ossia un debito ingente, che Bonazzoli non riusciva a saldare al cognato. Gobbi, in ogni caso, sarebbe stato legato alle cosche del viadanese e in particolare a Francesco Lamanna, referente dei Grande Aracri nel Cremonese per quanto concerne il mercato edile.
Quella pistola, peraltro, doveva essere inizialmente l’arma prescelta per il delitto dello stesso Gobbi, se non che, dopo un primo assalto meditato ma fallito, Bonazzoli si rivolge stavolta a un barista indiano che opera a Brescia e si fa consegnare il fucile che alla fine stroncherà il cognato. Un delitto meditato a fondo, addirittura sette mesi in anticipo rispetto a quel 4 dicembre, data della morte di Gobbi, con Bonazzoli che ha cercato parecchi esecutori materiali, dicendosi disposto a pagarli per completare il “lavoretto”. Dettagli che sono emersi dall’interrogatorio, davvero corposo e ricco di novità, delle scorse ore. Bonazzoli che tituba, che vorrebbe semplicemente picchiare il cognato per dargli una lezione e che poi, dinnanzi a un assalto fallito e a un primo rifiuto da parte di Edo Dolci, l’altro indagato, passa all’azione in prima persona, tenendosi Dolci come complice per fare sparire l’arma.
Contatti e dettagli confermati dai tabulati telefonici, mentre un terzo uomo, tale Roberto Infante, originario di Reggio Emilia, aveva il compito di fare sparire il cadavere. Tutto si compie e le successive comunicazioni al telefono tra Bonazzoli e Dolci (sul quale può pendere l’accusa di concorso in omicidio o di favoreggiamento, a seconda che il complice sia stato informato prima o dopo il delitto) confermano che il piano è andato a buon fine e che “ora tocca soltanto ripulire”: facendo cioè svanire nel nulla arma del delitto e corpo di Gobbi. Un nulla, però, durato poche ore, così come il segreto dei due uomini.
Giovanni Gardani