Via dall’Afghanistan. Ma con gli altri
La missione di pace in Afghanistan ci costa 2 milioni di euro al giorno. E, finora, ci è costata pure la vita di 52 soldati. La guerra in ogni caso è persa. Dunque non ha più senso rimanere. Ma avrebbe senso una ritirata unilaterale mentre è in corso un ritiro collettivo? Letta non è Hollande ma ci sta pensando. Che fare?
Il Nipotissimo ha un chiodo fisso: deve tagliare 10 miliardi. Una parola. Da dove comincerà? Proprio dalle spese militari? Il premier ha già detto che “per esigenze di contenimento della spesa le celebrazioni di ciascun anniversario subiranno sostanziali modifiche nelle modalità di svolgimento”. Insomma, per capirci, la prossima parata per la Festa della Repubblica (2 giugno) si farà, ma la spesa sarà “comunque contenuta”. E’ un inizio, è un indizio. E’ un buon segnale. Era ora.
Ma bisogna stare attenti con le sforbiciate. Ci sono spese che vanno al di là dell’equazione contabile. Parliamo di spese necessarie, utili al Paese anche se ne aggravano il passivo. Spese che difendono valori come le alleanze internazionali e la credibilità sulla scena mondiale. La nostra immagine nel mondo non è brillantissima. La vicenda autolesionistica dei marò non ci ha aiutato. Ruby nemmeno.
Tra le spese utili ci sono i quattrini che versiamo a sostegno delle nostre missioni militari all’estero. E’ dal ’48 che lo facciamo,mica da ieri. Ben 65 anni fa abbiamo cominciato mandando in Palestina sette ufficiali. Era appena nato lo stato di Israele, i cinque stati arabi confinanti non ne accettavano l’esistenza, bisognava dare un contributo per placare le acque dell’eterno conflitto (poi nel ’67 è scoppiata la “guerra dei 6 giorni”). Ce ne siamo andati nel 2006,con onore. Poi siamo andati in Libano (1978), l’anno dopo in Egitto con vecchi dragamine trasformati un pattugliatori del mare. Ci siamo ancora, ma non spariamo, presidiamo lo stretto di Tiran e facciamo soccorso ai naufraghi. Nel ’99 ci siamo infilati nel Kosovo per proteggerlo dalla Serbia. Ma la rogna più grossa resta l’Afghanistan, un paese chiuso nell’Asia centrale, dilaniato da un conflitto bellico iniziato nel ’78 con il colpo di stato comunista (l’anno dopo l’invasione delle truppe sovietiche ritiratesi dopo dieci anni di legnate). Nel 1992 il Paese è passato nelle mani dei Mujahiddin. Nel 2001 siamo arrivati noi con la missione Isaf insieme a forze Usa e alleati di 40 paesi. Scopo: proteggere Kabul ed il suo “sindaco” Karzai, arginare Bin Laden ed il leader talebano Mullah Omar. Non è andata bene. Siamo andati (pro quota) per costruire la pace ma ci siamo trovati a dover fare la guerra. In un Paese ostico dove nessun esercito ha mai vinto. I guerrieri afghani sono imbattibili sulle loro montagne,nessun soldato occidentale con il suo equipaggiamento pesante è in grado di tenere testa alle loro marce attraverso passi a 3 mila metri.
E allora? Allora a casa. Monti lo ha promesso un anno fa a Camp Arena, la base italiana di Herat. Letta ed il suo “squadrone” (21 ministri, 40 sottosegretari) ci stanno pensando. Come ha riconosciuto Karzai “l’Italia,paese amico di lunga data, ha generosamente contribuito al processo di ricostruzione dell’Afghanistan”). Bene, abbiamo già dato. E’ vero che il nostro ritiro è già in corso e che la “nostra”provincia di Herat è già passata sotto il controllo afghano. Ma è anche vero che il nostro disimpegno definitivo avverrà solo nel 2014. Nel frattempo è giusto parlarne , ripiegando. A giorni il governo Letta dovrebbe pronunciarsi sulla conferma delle attuali presenze, in settembre la parola passerà al Parlamento. I grillini chiedono il ritiro immediato. Parliamone. Non aspettiamo il prossimo soldato ucciso.
Enrico Pirondini
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